Flussi di Sergio Benvenuto

Evento Cage28/giu/2016


Una recensione del 1977

 

           Il 2 dicembre 1977 ho assistito, al Teatro Lirico di Milano, a un concerto di John Cage intitolato Empty Words, parole vuote. So ben poco di Cage, non sono esperto di musica, quindi non mi aspettavo nulla in particolare.

           Avevo però visto Cage in televisione quando avevo dieci anni, senza sapere chi fosse, al famoso quiz show Lascia o raddoppia? Il campo su cui rispondeva era la noiosa micologia. Ricordo bene che questo americano ben vestito, che parlava un italiano un po’ approssimativo, aveva fatto sentire in trasmissione una sua composizione che, a suo dire, riproduceva i suoni di Venezia: la eseguì con una farraginosa apparecchiatura da lui costruita, che oggi mi ricorda le complesse macchine semoventi e inutili di Jean Tinguely, un bricolage fatto di oggetti domestici come scatole, caffettiere, padelle, ecc. A me, bambino, quei rumori piacquero, vi riconoscevo qualcosa dell’atmosfera fonica di Venezia; a differenza di Mike Bongiorno che, a quel che lessi poi,  restò allibito. Quindi, se qualcosa potevo aspettarmi da lui, era un’ingegnosa produzione di rumori.

           Ma il concerto, organizzato da una radio alternativa, in presenza di un paio di migliaia di giovani più o meno avanguardisti, è stato molto peggio di quanto si potesse temere. Cage si è seduto davanti a un tavolino, e ha cominciato a leggere brani dal Journal di Thoreau, passi combinati attraverso un sistema stocastico ripreso dall’I Ching (Cage, buddhista zen, si serve sempre dell’I Ching per i suoi concerti). Cage sillabava senza nemmeno imitare il canto, tranne in alcuni momenti in cui la sua voce d’un tratto si impennava nel pronunciare certi suoni. Nel frattempo, venivano proiettate – con grande lentezza – alcune diapositive con forme astratte in bianco e nero, non so se fossero riproduzioni di quadri. E tutto questo per due ore e mezzo.  Non c’è da meravigliarsi se – dopo alcuni minuti, quando il pubblico, per quanto certo ben disposto, si è reso conto che la cosa sarebbe durata a lungo – si sia scatenato un putiferio. Alcuni se ne sono andati, ma tanti sono restati a protestare con urla, fischi, qualche danza sbeffeggiante, rotolamenti per terra, ecc., mentre Cage, con la sua barba ironica, continuava imperturbabile la sua performance; anche quando alcuni ragazzi, saliti sul palco, gli tiravano gli occhiali dal naso e alcuni gli si avvicinavano minacciosi.

           Sono scoppiato quindi a ridere quando il giorno dopo, ho letto la recensione dell’evento sul Corriere della Sera a firma di Duilio Courir: il critico di punta di quel giornale si lamentava della scompostezza e della caciara di quel pubblico. In sostanza – diceva – non lo avevano lasciato lavorare in pace, “vergogna, non è così che ci si comporta a un concerto!” Tentava quindi dei commenti a Empty Words, i quali però non  potevano essere che, appunto, parole vuote. 

           Poi ho saputo che le reazioni del pubblico americano, ben più rotto di quello italiano alle stravaganze d’avanguardia, ai concerti cageani sono sovente ben più ‘vergognose’ del tutto sommato bonario pubblico milanese.  Alle sue performance si producono vere e proprie risse da cui talvolta Cage esce contuso. Lui stesso ha detto di aver avuto paura di Allen Ginsberg, uno che certo non può essere tacciato di tradizionalismo, il quale stava sul punto di malmenarlo.

           Durante il ‘concerto’ un musicologo arringava i giovani scatenati, spiegando loro il “senso profondo” di quella bizzarra messinscena. Nemmeno lui ovviamente seguiva i borborigmi di Cage, e spiegava che la bizzarria di quel vecchio era una pedagogica provocazione affinché il pubblico, abbandonando il ruolo passivo di ascoltatore, si decidesse a essere esso stesso protagonista della musica. “Sapeste che bravo pianista è Cage! – diceva - Egli potrebbe guadagnare milioni suonando Schönberg, e invece lascia a voi, pubblico, la parola.” La parola lasciata al pubblico erano le urla di disappunto di quei ragazzi. Comunque questa interpretazione sessantottesca della performance di Cage – il cliché secondo cui il pubblico deve cessare di essere passivo – sortiva qualche effetto calmante sui più facinorosi.

           Quanto agli organizzatori, ragazzi di estrema sinistra, erano anch’essi delusi e preoccupati di salvare, e doppiamente, la faccia: non fare una figuraccia con Cage da una parte, ma non farla nemmeno con il ‘loro’ pubblico a cui avevano promesso un evento mondano eccezionale, dall’altra.

           La mia impressione però è che Cage non intenda affatto fare l’animatore culturale, stimolando la creatività musicale del pubblico. Penso che, sapendo bene di suscitare il bailamme che puntualmente provoca, egli si serva del pubblico per far emergere la musica del pubblico.

           Come ogni modernista, Cage aspira al vuoto - nel caso della musica al silenzio. Così come Malevich giunse a dipingere “Quadrato bianco su fondo bianco”, Duchamp a esporre una ruota di bicicletta, e Piero Manzoni a inscatolare la sua cacca. Tutto il Novecento modernista – quindi anche Cage – mira a denunciare quel che chiamerei il “feticismo” di ogni forma d’arte; nel caso della musica, i feticci sono suoni.  Egli sembra pensare che la musica non consista nei suoni emessi dai musicisti, ma è quella che viene ‘suonata’ nelle budella degli spettatori. Già negli anni ’30 Sartre notava – in L’imaginaire – che l’opera d’arte non è nulla di reale. La realtà di un quadro è un impasto di colori, la realtà di una sinfonia è una emissione continua di onde sonore… L’immagine musicale dei suoni, per così dire, non sta né in cielo né in terra, perché l’immaginazione, diceva Sartre, è irrealizzante. La musica ce la facciamo sempre da noi, anche quando la ascoltiamo passivamene. Il punto però è che quasi tutta la musica – tranne, appunto, certe forme moderniste – fa di tutto per farcelo dimenticare. La pittura cerca di farci dimenticare che il quadro ce lo facciamo noi, l’architettura cerca di farci dimenticare che una casa è quella che viviamo noi abitandola, ecc. ecc. Cage risulta così insopportabile a tanti, e scatena la nostra rabbia – persino se siamo Allen Ginsberg – perché ci ricorda invece che la musica la facciamo sempre noi.

           Che cosa ‘suona’ il pubblico silenzioso e rispettoso che ascolta un concerto di Maurizio Pollini? Che ‘musica’ sta facendo? Il pubblico non si esprime durante il concerto, solo alla fine col suono degli applausi. Talvolta però si esprime anche durante. In un film del 1955, I pappagalli, il famoso attore comico Peppino de Filippo è un popolano rozzo che finisce a sentire un quartetto di Vivaldi. Da notare che nel film udiamo non la vera musica, ma quella che percepisce lui: una ripetizione lenta e monotona degli stessi accordi; insomma, è come se il buzzurro stesse a un concerto di Cage… Annoiato e a disagio, a un certo punto è colto da una tosse incontrollabile, e deve andarsene. Era un sintomo morboso? Dobbiamo interpretarlo in termini freudiani, come stratagemma inconscio per tagliare la corda da un concerto per lui barbosissimo?  Evidentemente si esprimeva il desiderio inconsapevole di sovrapporre a una musica per lui incomprensibile il proprio suono rumorista. Invece a un concerto di Pollini non desideriamo affatto sovrapporci alla musica, ci godiamo la performance come oggetto aureolato da un’aura, direbbe Walter Benjamin; ma così facendo rimuoviamo completamente il nostro ‘tossire dell’anima’. In effetti il pezzo musicale nel suo insieme, dandosi après coup quando le frasi musicali sono già passate, ponendosi come causa e oggetto delle nostre emozioni di ascoltatore, ci deresponsabilizza e ci rassicura.

           Cage, invece, non fa rumore. In quel concerto milanese, i suoi suoni flebili slittavano verso il silenzio.  Al Lirico la gente era esasperata perché non si riusciva a farlo tacere – proprio perché l’esecutore quasi taceva. Quel che irritava era il suo non-far-rumore. Mentre le stesse persone, magari, si sorbiscono ore di assordante non-stop music al bar Motta in Galleria.

           Questa intollerabilità del quasi-tacere ha costretto così il pubblico a ‘eseguire’ la sua musica. Le voci dicevano: “Vogliamo i Rolling Stones!” – “Meglio Betty Curtis” – uno cantava “Mamma, mormorò la bambina…”, un altro “Và pensiero…” – slogan politici, battute di piedi spazientite, uno “stiamo qui a sentire questo Cage mentre a Roma sfilano i metalmeccanici!” ecc. ecc. Esprimendo il suo desiderio di musica contro il quasi-silenzio di Cage, il pubblico rivelava la musica dei suoi desideri: la musica nazional-popolare della gioventù milanese, la “solita musica” degli slogan di sinistra, la “domanda minacciosa” al Potere, la polifonia vocale che esprime un desiderio di collettivo, oltre ai ritorni nostalgici alla musica dei nonni, all’opera verdiana. Questa è la musica che sa fare questo pubblico, perché è la sua musica di sottofondo anche quando ascoltano Mozart o Berio o i Pink Floyds. Questa “musica” è domanda quasi in carta bollata sonora di consumare musica.

           L’efficacia del transfert – mi scuso del termine psicoanalitico – creato da Cage consiste nel mettere in evidenza una verità. Una verità anche spazio-gestuale, diciamo prossemica, che rivela due modelli di comportamento collettivo che dominano nel pubblico che era là ad ascoltarlo.

Il primo modello è quello del Divo-Che-Si-Può-Finalmente-Toccare. Le ragazze andavano a baciare e ad abbracciare il musicista sperando forse di eccitarlo sessualmente, altri sbirciavano come voyeurs lo spartito che Cage leggeva, così come gli studenti godono dell’emozione di guardare nel registro del professore; tanti gli si stringevano attorno per godere del contatto col mostro-meraviglia. Un transfert certo ambivalente: quando Cage ha finito e si è alzato, è stato sommerso da una ovazione e da uno scroscio d’applausi che sarebbero durati a lungo se Cage – frustrante anche in questo – dopo un rapido inchino e sorriso di saluto non se ne fosse subito andato. Applauso fragoroso tuttavia ambiguo, perché non si capiva se era per l’ammirazione per l’artista oppure per la gioia che il concerto fosse finito.

           Il secondo modello: la caciara scolastica che esplode per l’assenza o l’inettitudine dell’insegnante. Perciò nel corso della performance si lanciavano aerei di carta, nastri di carta igienica, forte odore di fumo di haschisch (“non si fuma ai concerti!”), ci si rotolava per terra oppure si saltava sul tavolino di Cage.

           Insomma, è emersa l’orchestrazione spontanea eseguita dal pubblico delle radio Canale 96 e Milano International[1], il pubblico là presente. Suoni, gesti e azioni di quei giovani non sono ciò che esso ascolta, ma ciò che esso “fa” o vorrebbe che fosse fatto. Esprime questo desiderio di musica e di spettacolo.

           Quanto a me, desideravo che il baccano si acquetasse, almeno per qualche istante. Perché volevo sentire, anche se solo per un minuto, che effetto facesse il suono della voce di Cage sullo sfondo, finalmente, del silenzio. Ma non è stato possibile durante tutto l’happening, et pour cause. Perché quel pubblico al Lirico – ascoltatore di musica rock o elettronica – è pur sempre il pubblico della non-stop music, come al bar Motta in Galleria. Il “molto rumore” delle radio libere, come di quelle non libere, fornisce a questi giovani un arredo sonoro compatto, il più possibile senza buchi né faglie. Anch’essi vivono in un mondo invaso da una musica continua, che non deve far trasparire nulla dell’ultra-suono.

           Oggi la musica e le immagini traboccano da ogni parte. Non si deve più con attenzione ascoltare musica né guardare immagini, dato che le immagini sono ormai il telaio di fondo della nostra vita, mentre la musica costituisce la nostra spessa tappezzeria sonora. E pensare che sessantacinque anni fa fu un musicista dadaista, Eric Satie, a lanciare la formula, allora rivoluzionaria, di “musica da tappezzeria”: una musica che facesse appunto da suono di sottofondo, da non ascoltare con attenzione. E’ il destino paradossale di ogni avanguardia radicale: col tempo le sue provocazioni si rivelano essere profezie, anticipi, debutto di quel che poi, decenni dopo, sarà banalità commerciale, routine per le masse.

           Appunto, la via di levare  di Cage sembra essere la versione sonora dell’atto di togliere in una stanza la coltre di quadri, mobili, suppellettili, in modo da imporre alla vista la vuota, terribile, oscena tappezzeria. Non quindi il muro bianco e nudo, ma qualcosa di molto peggio: la tappezzeria. Quella che appunto oggi la musica si affretta a ricoprire.

           In effetti, mi chiedevo durante il concerto, perché tutto questo bisogno di soffocare a ogni costo i suoni evanescenti, certo non fastidiosi, di Cage? Quei fonemi flebili, non concertati, avevano la forza di far emergere in primo piano quella che chiamerei l’altra musica. Non intendo per altra la cosiddetta musica alternativa, che contrappone alla geremiade sonora delle masse che non contano nulla il diversivo di un eroico sussulto di sound and fury. Intendo quel sottofondo di rumore opaco, continuo, implacabile che la musica rigetta dall’ascolto, un po’ come i deodoranti nascondono al nostro naso la puzza delle ascelle. Dietro i suoni, odo il ritmo della Macchina Perpetua (quella che Phil Glas ha messo in primo piano?). E’ l’insistente macchina depressiva - quella di cui non parlano, perché non vogliono udirla, i moderni filosofi dionisiaci – che frulla le nostre vite.   Con le sue ‘parole vuote’, Cage non rifaceva quel che ancora faceva a Lascia o raddoppia?, produrre rumori per reintegrarli nel Parnaso – è quello che si aspettava la maggior parte di quel pubblico, suppongo, a sentire i commenti di molti spettatori: la brutalità rumorista transustanziata in Arte. La sua musica – la chiamo così perché è evidente che Cage celebra uno straordinario atto di fiducia nella musica – non è Arte ma, come scriveva Duchamp, a-rte. La Musica come a-rte di Cage mi sembra molto simile a quel che, per altre forme artistiche, fecero Duchamp e Artaud. In effetti, non credo che il primo dei due esponesse la ruota o l’orinatoio per sbalordire e provocare, ma li esponeva proprio perché non li si guardasse, perché s-figurassero, a-parissero. Mentre la pop art o l’iperrealismo esaltano in qualche modo la poesia criptica del banale, dell’umile o del volgare, Duchamp non voleva salvare affatto gli oggetti del quotidiano, insomma, non voleva calmare il nostro cocente desiderio di vedere… dell’altro. Analogamente, mi sembra che Cage voglia scatenare, senza soddisfarlo, il nostro desiderio di ascoltare: per questo “suona” – in tutti i sensi del termine -  il pubblico malcapitato.

           Nemmeno Artaud voleva fare del teatro per il pubblico – questo va ricordato anche se gli artaudiani degli anni 60 credevano di fare del Teatro della Crudeltà coinvolgendo al massimo gli spettatori, assalendoli quasi fisicamente, come a punirli del fatto di essere spettatori (vecchio odio, secondo me, degli attori per il loro aguzzino: il pubblico). Per Artaud invece la crudeltà consisteva nel fatto che il pubblico era solo parte dello spettacolo; e lo spettacolo doveva andare avanti come una macchina che continui a girare anche quando tutto il resto è distrutto, crollasse pure il mondo, morissero pure tutti gli spettatori. Lo spettacolo era per lui un ingranaggio implacabile e cieco azionato da un motore inumano, incurante del destino degli spettatori.  E così, anche Cage a Milano andava avanti imperterrito, per cui tutto ciò che faceva il pubblico per fermare quel congegno micidiale di fatto alimentava lo spettacolo. L’apatica macchina di Cage, rinunciando anche a mostrare la segreta armonia dei rumori, mostrava un’a-rte quasi inudibile.

           Ma allora, si dirà, dov’è “lo spasso”? In verità, anche quando ascolto un compositore che adoro, Monteverdi, non me la spasso tanto. I suoi madrigali amorosi, ad esempio, non possono “dirmi” più nulla sull’amore che oggi io potrei sentire per una donna (o forse me lo dicono, dato che non me lo dicono ‘in modo giusto’?). Quindi, tutta la musica che conta – da Monteverdi a Cage – è celibe, non si sposa con i nostri sentimenti; eppure da questo celibato ne traggo piacere, è indubbio. Questo piacere è indissolubile dalla sensazione che io non c’entro con quei suoni, che quelle concatenazioni sonore erano e sono fatte per far godere, ma non per far godere me.  Se la musica non è solo digestiva, se non si limita ad “arredare” come al bar Motta, allora la musica ci dà piacere in quanto ci prende, ci cattura, in un godimento che non ci appartiene. Allora il guru Cage, rinunciando a “fare effetto” su di noi, ottiene pur sempre un certo effetto, ci dà un ignoto e remoto piacere. E questo proprio nella misura in cui l’artista, nella sua sovrana libertà, del piacere e del benessere del pubblico ironicamente se ne frega.

 

                                                         Dicembre 1977

 

Appendice 2012

           Questa recensione fu scritta all’epoca come reazione quasi estemporanea a quell’esperienza. Dopo ho conosciuto meglio Cage, oggi mi rendo conto che quel che avevo scritto allora era un po’ la scoperta dell’acqua calda. Quel che scrivevo all’epoca è ora – e lo era già allora – patrimonio comune. Ho ritrovato alcuni concetti che avevo espresso quella volta nella voce “John Cage” di Wikipedia… Mi posso solo consolare pensando che è da apprezzare comunque chi oggi scoprisse l’ombrello, nel caso che non avesse mai sentito parlare dell’ombrello.

           Oggi posso correggere o completare cose che avevo scritto. Il pezzo che Cage aveva eseguito davanti a Mike Bongiorno, nel 1958, aveva un titolo, Water Walk. Ricordavo male gli oggetti usati: erano una vasca da bagno, un innaffiatoio, cinque radio, un pianoforte, dei cubetti di ghiaccio, una pentola a vapore, un vaso di fiori, e altre cose.  Quella sera a Milano Cage lesse solo la terza parte di Empty Words – per fortuna, se le avesse lette tutte, lo spettacolo sarebbe durato oltre sette ore. Citavo il quadrato bianco su fondo bianco di Malevich, e non sapevo che qualcosa di simile era stato fatto da Robert Rauschenberg, amante e collaboratore di Cage: nel 1951 egli espose dei quadratini bianchi che cambiavano colore e tono a seconda delle condizioni di illuminazione dell’ambiente. Il fine era del tutto simile a quello di Cage: non isolare l’opera, sonora o visiva, dall’ambiente in cui essa si erge come un immutabile totem, ma farla interagire con il mondo circostante, sonoro o luminoso che sia. L’opera, riducendosi a quasi-nulla, agisce da rivelatore di qualcosa che è nella natura stessa – o nella ‘cultura naturale’ direi, come i rumori che gli uomini producono come tracce del loro vivere. 

           Anni dopo lessi la recensione scritta all’epoca, per il settimanale “Panorama”, da uno scrittore che apprezzo, Roberto Calasso. Purtroppo il suo articolo (“John Cage o il piacere del vuoto”) è in gran parte una critica acida del pubblico là presente, più o meno sulla falsariga dell’anatema lanciato da Courir. “E che cosa hanno espresso – scriveva - questi giovani di tutte le Militanze, di tutte le Devianze, di tutte le Emarginazioni, di tutte le Differenze? Innanzitutto hanno rivelato di odiare ciò che è realmente strano. Perché Cage è appunto una delle rare persone realmente strane che si possano incontrare”. Per Calasso, quel pubblico, comportandosi come si è comportato, ha mostrato di essere una folla oppressiva di potenziali picchiatori. Evoca l’episodio di un ragazzo che tentò di bendare gli occhi di Cage mentre leggeva, e “temo non sapesse che in quel momento ripeteva il gesto antichissimo con cui il musico viene eletto a pharmakòs, vittima fascinosa e miasmatica, che deve essere espulsa dalla città”. Io invece avevo letto quel gesto come un esperimento goliardico: “voglio vedere come riuscirà a continuare a leggere lo spartito con gli occhi bendati!”

           Questa esecrazione oggi ci appare particolarmente ingiusta nei confronti di quei ragazzi, in quanto oggi non esiste più un pubblico del genere, che vada a passare ore per sottoporsi a una prova dura e tutto sommato estetica. Era pur sempre un pubblico che rendeva possibile, all’epoca, le avanguardie. Inoltre, un certo sprezzante livore contro quel pubblico ignora il fatto che Cage, come avevo cercato di mostrare, cercava di far accadere proprio quel che accadde. In effetti, Calasso non precisava in cosa consistesse lo show di Cage, lasciando quindi fraintendere al lettore che i partecipanti reagissero in modo screanzato a una musica per loro incomprensibile, un po’ come accadde alla prima parigina del Sacre du printemps di Stravinskij, sonoramente fischiata, come è noto.  In realtà, come abbiamo detto, non c’era affatto musica, quindi il pubblico era sollecitato a “far sentire qualcosa”. Quelli che si sono rifiutati di stare al gioco sono stati quelli che, silenziosamente, se ne sono andati (circa la metà del pubblico iniziale, credo). E’ proprio facendo caciara che quei ragazzi hanno fatto emergere quel che Cage, col suo quasi-silenzio, voleva far emergere: la tensione insopportabile della libido musicale che ci sferza a cercare il frastuono.

           Non credo di essere caduto nella trappola in cui cadono molti: credere che Cage mirasse al silenzio e al vuoto. E’ vero proprio il contrario. Cage voleva mostrare che non c’è mai il silenzio; che il vuoto è inattingibile. Cage è noto soprattutto per aver ‘composto’ “4:33” per ogni strumento: il musicista entra in sala col suo strumento e resta per quattro minuti e 33 secondi immobile senza suonare. Ma quel che interessava Cage non era il non uso degli strumenti, quanto il fatto che, frustrando l’umana aspettativa di musica, ci si accorgesse finalmente dei rumori della sala. Della tosse di Peppino De Filippo. Quel che chiamiamo silenzio è come togliere una coltre di calce da un muro perché appaia, finalmente, l’affresco che era stato ricoperto. Cage andò nella camera anecoica dell’Università di Harvard, un ambiente completamente isolato da qualsiasi rumore esterno, una cassaforte del silenzio. Ebbene, Cage fu impressionato dal fatto di poter finalmente sentire i battiti del proprio cuore, i gorgoglii del proprio stomaco, il proprio respiro, e di interessarsi a essi. Insomma, il silenzio – o suoni flebili e noiosi come quelli di Empty words – non è un fine ma un mezzo. Il fine è far emergere una musica inaudita. Forse Cage pensava come gli Antichi, che le stelle nei cieli emettano una magnifica melodia matematica che le orecchie umane non possono percepire, a meno che…

           Oggi penso che l’elemento originale in quella mia recensione era l’aver intuito che Cage, deludendo l’attesa di suono musicale, voleva farci entrare in contatto con una sorta di musica di fondo, che chiamerei il battito permanente della vita. I tocchi continui del cuore ne sono il fondo. Non a caso, credo, la musica rock da molti decenni ha come sfondo una pulsazione ritmica continua; questa pulsazione è l’elemento caratteristico della musica popolare di oggi. Perché questa griglia di fondo appare oggi così indispensabile? Credo perché essa ripete il pulsare del cuore identificato con il fremere della vita; un fremere che sembra incrementarsi nel corso del pezzo, ed è questo accennato aumento a dare al ritmo di fondo non il senso di una ripetizione insensata e opaca, ma quello di una dionisiaca affermazione dell’esistere. La musica rock di oggi dispiega una serie di suoni sullo sfondo di ciò che chiamerei il Suono della Vita.

 

 



[1] Le due radio libere più seguite all’epoca a Milano, di estrema sinistra, allora molto apprezzate come novità rivoluzionarie [nota 2012].

 

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