Flussi di Sergio Benvenuto

Recensione a: "I neuroni specchio" di Marco Iacoboni01/lug/2016


 

Il libro di Iacoboni, chiaro e divulgativo, ci informa con dovizia sugli sviluppi delle ricerche sui neuroni specchio, scoperti a Parma dall’équipe diretta da Giacomo Rizzolatti. Iacoboni è lui stesso attivissimo ricercatore, insegna all’University of California in Los Angeles e dirige il Laboratorio di stimolazione magnetica transcranica a Los Angeles: l’accesso che ci dà a quel che bolle in pentola in questo ramo è quindi di prima mano. Inoltre, mette in relazione questi studi con problemi di interesse generale: con l’empatia nelle relazioni sociali, con i processi imitativi, con l’auto-riconoscimento, l’autismo, la violenza e la tossicomania, il marketing, le opzioni politiche; infine auspica una “nuova alleanza” tra neuroscienze da una parte, e fenomenologia esistenzialista dall’altra.

           Riprendendo certe tesi di Vittorio Gallese dell’équipe di Rizzolatti, Iacoboni afferma che i neuroni specchio mostrerebbero il ruolo centrale dell’empatia nelle relazioni umane. Attraverso i neuroni specchio “simuliamo” quel che l’altro fa – se l’altro compie un’azione, la compiamo anche noi virtualmente, ovvero solo nel nostro cervello. Quindi, attraverso un’imitazione (non esplicita) dell’altro noi entreremmo in contatto con il mondo mentale altrui. Del resto, cogliamo anche il senso di quel che l’altro fa – il nostro cervello “legge” le sue intenzioni e quindi i suoi sentimenti. Per un automatismo, una parte di noi è compassionevole, patiamo quel che l’altro patisce (leggi: naturalmente noi esseri umani siamo buoni). Questa empatia basilare – che viene a mancare solo in specifici esseri umani, come negli autistici – si articolerebbe attraverso una sorta di imitazione universale: Iacoboni pone all’origine di ogni rapporto sociale, e del linguaggio stesso, la nostra tendenza a imitarci gli uni con gli altri.

Credo però che questa tesi che pone come cruciale l’imitazione intersoggettiva sia solo un modo, e unilaterale, di recepire la scoperta dei neuroni specchio. In effetti, scarseggiano le ricerche che confrontano il comportamento dei neuroni specchio quando l’altro ci è “amico” e quando l’altro ci è “nemico”. Se guardo un film dove il cattivo prende a calci il buono, la mia reazione nella corteccia premotoria reagisce ai calci del cattivo, o ai movimenti del buono per sfuggirgli? Insomma, i neuroni specchio reagiscono allo stesso modo, e reagiscono gli stessi neuroni, sia quando l’altro che agisce mi gratifica sia quando mi aggredisce? Cosa accade quando ci troviamo confrontati ad azioni conflittuali? Per Carl Schmitt la divisione fondamentale della vita politica è quella amico/nemico, ovvero, noi strutturiamo spontaneamente il campo umano in amici e nemici, in “buoni” e “cattivi”. Eppure questa distinzione “politica” pare non interessare affatto gran parte dei ricercatori.

Sembrerebbe che i neuroni specchio siano “acritici”, che non discriminino il senso benefico o malefico degli atti, così come uno specchio, appunto, non seleziona quel che bisogna riflettere e quel che no. Ma se è così, allora è il concetto stesso di “empatia” che andrebbe approfondito.

L’empatia non è la sim-patia, che opponiamo all’anti-patia. Em-patia non è, necessariamente, nutrire sentimenti positivi nei confronti dell’altro: è piuttosto percepire il pathos dell’altro come fosse il proprio, ma questo non implica sempre amore per quest’altro né bisogno di imitarlo. Non è detto nemmeno che imitiamo noi stessi… Mi pare che invece Iacoboni tenda a identificare l’empatia con la compassione e l’imitazione simpatetica dell’altro – insomma, gli dà un senso “buonista”.

Lo si vede bene quando affronta la questione dei primi scambi del neonato con la madre: parla continuamente del sorriso. La madre sorride, il bambino sorride di riflesso, ecc. Eppure, le madri non sorridono sempre come angeli: le madri sgridano anche, ordinano, si assentano, ecc. Il rapporto tra madre e bambino sarà empatico, ma non sempre è idilliaco. Del resto, non solo tendiamo a imitare gli altri che ci piacciono, ma anche a rigettare gli altri che non ci piacciono, ovvero, a non imitarli affatto. Invece, dal libro di Iacoboni vien fuori un’immagine delle interazioni sociali come una sagra bonacciona da cui appaiono dissolti per incanto rivalità e competizione, odi, fanatismi persecutori… E’ vero, Iacoboni sottolinea che molti comportamenti violenti derivano dall’imitazione di spettacoli violenti; ma ne parla come se la violenza nascesse solo dall’imitazione degli eroi violenti dei media (in fondo, da un atto d’amore) e non anche da una rabbia, da un’aggressività fondamentale contro “quelli” che gli spettacoli non fanno che risvegliare.

           Che senso dare allora a questo concetto di empatia che risulta così simpatico, oggi? Se non la identifichiamo alla banale tendenza a imitare chi ci piace o chi idealizziamo, allora essa va reinterpretata come dimensione pratica nel riconoscimento dell’altrui soggettività. Se l’empatia è questo, allora è alla base sia della simpatia che dell’antipatia, sia dell’amore fusionale che dell’odio implacabile. Io stesso in un libro sulle perversioni (Perversioni, Bollati Boringhieri, 2005) sostengo che l’atto può dirsi perverso non quando l’altro soggetto viene usato come un oggetto (come vuole l’adagio), ma quando l’altro viene sì usato, ma come soggetto. Il sadico non godrebbe se considerasse la sua vittima un oggetto inanimato: egli ha bisogno della sofferenza, ovvero della soggettività, della vittima. Allora, il sadico è empatico? Ebbene sì.

           Ma cosa vuol dire “dimensione pratica del riconoscimento dell’altrui soggettività”? La percezione – o intuizione, come dicono i filosofi – non è un processo passivo. Secondo Iacoboni: “la correlazione tra azione e percezione nei neuroni canonici è davvero molto forte. [I neuroni specchio] mostrano questa stretta correlazione tra azione e percezione” (pp. 28-9). Anche se i neuroni specchio sono motori, essi partecipano di un atto di intuizione: possiamo percepire l’altro come soggetto (in quanto pensa, soffre, gode, ecc.) soltanto se una parte di noi si muove, pensa, soffre, ecc. come lui. Nel nostro modo di appropriarci del mondo e degli altri, non siamo mai spettatori passivi: da qualche parte diventiamo quel mondo che guardiamo e che vogliamo conoscere. Ma questo “essere quel che si guarda” non si riduce a imitazione simpatetica: posso anche rigettare radicalmente quell’altro che, in qualche modo, sono. Come aveva intuito Freud, quando rigetto l’altro, rigetto anche una parte di me.

In effetti, chi trovo davvero antipatico, magari odioso? Non chi mi è del tutto estraneo, ma qualcuno che in fondo avrei potuto essere o che potrei essere, e che invece rifiuto di essere. L’antipatia implica un’empatia di fondo, ovvero un previo riconoscimento dell’altro come soggetto. E’ proprio nella misura in cui lo riconosco come soggetto che posso rigettarlo od odiarlo.

           Lo stesso Iacoboni ammette che se le relazioni umane – l’ essere-con-l’altro - fossero sempre imitative, i risultati sarebbero catastrofici. Se il bambino piange, una “madre abbastanza buona” non si mette a piangere anche lei per empatia: farà qualcosa per soccorrerlo. I rapporti umani adeguati non sono solo speculari. I neuroni specchio sembrano effettuare quindi una prima forma fondamentale di riconoscimento nella quale non c’è separazione, ancora, tra me e l’altro. Ma questa non-separazione iniziale – riconoscerci come soggetti – pare non esprimersi unicamente nell’identificazione imitativa all’altro: essa può prendere la forma del rapporto complementare (relazioni di soccorso, aiuto, possesso) e quella del rapporto oppositivo ed espulsivo. Non a caso, quando Hegel propose la dialettica del riconoscimento reciproco, non gli diede affatto la forma dell’impulso cooperativo, ma la forma tragica della “lotta a morte di puro prestigio”: proprio perché ho bisogno che l’altro mi riconosca, e riconosco l’altro come soggetto per-sé, mi impegno in una lotta per la vita e per la morte con l’altro. Proprio perché a un certo livello automatico, qualcosa di me fa e sente come l’altro, che a un altro livello qualcosa di me si distingue dall’altro, e deve decidersi tra una relazione complementare e una esclusiva. Certo Iacoboni potrebbe replicare che questi neuroni della distintività non sono stati ancora scoperti...

           In un saggio del 1895, “La moda”, Georg Simmel avanzò una teoria elegante delle mode nella società - ma la sua idea può valere per gran parte del mutamento culturale. I nostri gusti e modi di pensare cambiano grazie all’interazione continua di due forze contrastanti presenti in ciascun essere umano: da una parte l’impulso a imitare, dall’altra l’impulso a distinguerci. E’ proprio imitando alcuni, che ipso facto ci distinguiamo da altri (è una forma blanda della polarizzazione amico/nemico). Se ci fosse solo imitazione, non ci sarebbe mutamento culturale, perché una società in cui tutti si imitassero reciprocamente perverrebbe alla stabilità. Se ci fosse solo distinzione, non ci sarebbe nemmeno storia: gli individui sarebbero isolati gli uni dagli altri. E’ nella misura in cui imitiamo alcuni (non chiunque!) e così ci distinguiamo da altri, che la società cambia. Ora, teorici come Iacoboni vedono solo la faccia imitativa, non la faccia distintiva, degli esseri umani. Vedono i replicanti, non i mutanti.

           Resta certo da scoprire nel cervello il locus di questa distintività, per la quale, pur sentendo come l’altro, non agisco come lui, o agisco contro di lui. Ma se imitazione e simulazione sono tratti che l’essere umano condivide con altri animali (a dispetto di quel che dicono gli esperti), forse il bisogno di distinguersi è solo umano. Uno scimpanzé, pare, non mira a distinguersi dagli altri, nemmeno per sedurre una femmina. L’affermazione della propria distintività dovrebbe essere quindi una funzione connessa al linguaggio (e qui sarebbe la differenza funzionale tra l’area F5 del cervello dei macachi, dove i neuroni specchio sono stati trovati, e l’area di Broca negli umani, area connessa al linguaggio). Ovvero, il funzionamento dei neuroni specchio sarebbe una condizione necessaria, ma non sufficiente, per sviluppare il linguaggio e quindi quella “coscienza di sé” senza di cui non avremmo bisogno di distinguerci, sia dagli altri che... da noi stessi.

 

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