Flussi di Sergio Benvenuto

RESISTERE A PARIGI. Riflessioni di un ex-parigino30/giu/2016


Gran parte di questo articolo fu scritto dieci anni fa per una rivista tedesca. All’epoca diedi in lettura il testo ad amici francesi e, con mia sorpresa, molti di loro – tra cui intellettuali molto in vista – non lo gradirono affatto.Trovarono che le mie riflessioni su Parigi e i parigini erano critiche e sprezzanti. Evidentemente non ero riuscito a farmi capire, o erano loro a non aver capito. In realtà, come si renderà conto il lettore, si tratta di un atto d’amore nei confronti di una città in cui ho trascorso gli anni migliori, e che non ho mai smesso di frequentare, solo che si tratta di un amore a cui appunto “resisto”. Perché si tratta non solo di resistere a Parigi contro gli altri – attualmente, contro il fondamentalismo islamico – ma di resistere anche al fascino di Parigi, per non lasciarsene sopraffare, per non farsi accecare. Contrariamente a quel che si dice, il vero amore per qualcosa o qualcuno non rende ciechi: al contrario, ci fa vedere bene difetti e limiti di ciò che amiamo. Parlar male di Parigi è come parlar male del proprio paese: chi lo ama davvero sa criticarlo.

Del resto, confesso di essere rimasto sempre francofilo, anche se in modo diverso – diciamo più maturo - da quando ero giovane studente all’università di Parigi. La vera prova dell’amore per un paese è tifare per esso nelle competizioni sportive. Anni fa avevo un amico peruviano a Roma che passava gran parte del suo tempo a dire peste e corna del Perù. Sembrava che non ci volesse mettere più piede. Un giorno però gli chiesi: “Quando ci sono i mondiali di calcio, per quale squadra tifi?” Sua risposta: “Per il Perù”. E in effetti poi è tornato a vivere, spero felicemente, a Lima. Il tifo sportivo è la vera cartina di tornasole di una simpatia nazionale, che è sempre viscerale. E io spesso tifo per le squadre francesi. Basta questo, spero, per assolvermi da ogni sospetto di ostilità alla Francia.

 

 

"Français, encore une résistance pour être républicains"

 

Codice

 

        A Parigi sui portoni delle case trovi non i nomi dei condomini, ma misteriosi pulsanti con lettere e numeri. Per poter entrare nel condominio, soprattutto nei giorni non lavorativi, devi comporre un CODICE. Se qualcuno ti invita a casa sua, dovrebbe rivelarti anche il codice segreto per aprire il portone, perché solo una volta ammesso all'interno potrai trovare finalmente il citofono con i nomi dei condomini e potrai farti aprire il secondo portone.

Purtroppo, quando un parigino ti invita a casa sua, per lo più dimentica di rivelarti il famigerato codice – e tu, da straniero qual sei, dimentichi di chiederglielo. Così, confrontato alla laconica tastiera, non sai che cosa fare; ti senti come un esercito assediante ai piedi delle alte mura di una città medievale impenetrabile. Se non hai portato il cellulare o se questo è scarico o non ricordi il numero di telefono del tuo ospite, allora sei perduto. Puoi solo sperare in una qualche cabina telefonica – se ne è rimasta ancora qualcuna - e di aver portato con te una carta telefonica (perché i telefoni pubblici parigini rifiutano rigorosamente monete e banconote) per chiedere aiuto a chi ti aspetta. Ma ti chiedi perché Parigi talvolta ce la metta tutta per renderti la vita più difficile. 

I parigini a cui chiedo perché si adattino a un sistema così balzano mi rispondono che è il modo migliore per tenere alla larga i seccatori. Ma forse la ragione vera di questa tendenza ad abbandonare al suo destino chi non conosce il codice sta nel fatto che la cultura francese è tutta, essenzialmente, codificata. (Parlo qui di cultura francese per parlare di cultura parigina: perché in fondo questa è, quasi, la sola cultura francese che, almeno all’estero, conosciamo.)

Non a caso prevalse in Francia, negli anni 60, lo strutturalismo, che vedeva la vita umana come tessuta da cima a fondo da una trama di codici linguistici. Se vai a vivere a Parigi e non conosci le mots-clefs della parisienneté, non entrerai mai nei salotti e nei circoli che contano – ma forse nemmeno in un condominio.

In francese il termine cour designa sia la corte (quella dei re) che il cortile di casa. Forse questa passione per il codice d’entrata si spiega con una segreta eredità mentale monarchica: i parigini sotto sotto pensano che il loro cortile condominiale sia altrettanto esclusivo, sospirato e selettivo della corte di Versailles.

Certo questa difesa attraverso i codici è un corollario di una diffidenza tutta francese. Dato che non si fida, il parigino mette tra lui e te una distanza preventiva, che sorprende gli italiani ad esempio. Per noi italiani basta una conoscenza superficiale per passare dal lei al tu, mentre a Parigi anche coniugi o amici da anni si danno del vous: la distanza va mantenuta. Uno scarto nobiliare spinge il parigino di nascita a non aprirsi e, talvolta, a non aprirti. Ad esempio, talvolta quando in casa d’altri si chiede di andare nella toilette per un bisogno improcrastinabile, la richiesta solleva – lo si nota – un certo imbarazzo: come se il bagno fosse una parte riservata, invisitabile, della casa.

Lingua e scrittura francesi sono certo il codice fondamentale. “Essere parigino” – che copre l’essere-francese ma vi aggiunge molto di più - non è un’appartenenza etnica o razziale o religiosa. Non importa se hai la pelle nera o un accento cinese – del resto, oggi un francese su sei discende da una famiglia giunta in Francia dopo il 1900.  Sei parigino se ti senti parte dell'exception parisienne, se reagisci anche tu con i riflessi culturalmente condizionati di chi in gioventù ha letto Molière, Balzac, Flaubert, Vian, Camus, e ha ascoltato le canzoni di Piaf, Brel, Brassens, Serge Gainsbourg, Moustaki. Sarai accolto bene se sai usare bene i congiuntivi - il corretto uso del congiuntivo imperfetto è il test capitale per capire se sei una persona colta o una mezzacartuccia. I giornali di tutto il mondo insinuarono che nella sua visita in Francia nel 1998 Tony Blair piacque tanto ai francesi perché all'Assemblée Nationale parlò in un francese fluido e disinvolto. Il parigino insomma non è razzista, nazionalista o etnocentrico: è glottocentrico, e al centro c’è le bon français. Perché, se parli bene francese allora saprai anche pensare francese.

 

Il cerchio e il fiume

 

Un parigino, anche prima di andare in prima elementare, sa una cosa fondamentale sulla propria città: che è rotonda.

Chi vive nella Capitale – come dicono reverenzialmente i francesi – ha un’immagine precisa di Essa, e sa sempre, visivamente, in quale punto della metropoli ella o egli si trovi. Il logo cartesiano di Parigi, la sigla visiva della città, è ancora più popolare della tour Eiffel: un perimetro rotondeggiante tagliato dalla curva trasversale dell’ansa della Senna. Si ritrova questa figura ubiqua in ogni stazione del metrò, a ogni fermata di autobus. Un romano, un viennese, un londinese, un ateniese non hanno presente davanti ai loro occhi la Gestalt stilizzata della loro città, un parigino ce l’ha sempre in testa o davanti agli occhi. Anche perché nell’immaginario del parigino questo quasi-cerchio dove tutte le linee convergono è – virtualmente, spiritualmente – il Centro del Mondo.

In ogni caso è al centro – non geometrico ma quasi – della Francia. I francesi la chiamano l’Esagono, ma la forma esagonale è un’approssimazione al cerchio: nell’immaginario francese, Parigi è un cerchio (quasi) al centro di un cerchio.

E al centro di questo centro c’è il piccolo parallelepipedo dell’Ile de la Cité, in cui per secoli consisteva tutta Parigi, città essenzialmente fluviale. E al centro di questo centro di questo Centro la piazza vuota costeggiata da una parte da Notre-Dame e dalla parte opposta dalla massiccia Prefettura di polizia. I due poteri fondamentali, anche se odiati, della civilisation française: la chiesa e lo stato, ovvero, la Fede e la Polizia.

Ho conosciuto alcune città i cui abitanti si sentono al centro di tutto, a dispetto del fatto che il mondo è rotondo. Molti romani, grazie al papa e alle vestigia dell’Impero antico, si sentono ben saldi al centro dell’universo tolemaico. Si sentono invece al centro dell’universo copernicano gli abitanti di Washington D.C., perché è piena di uffici degli uomini politici più potenti della terra. Anche i moscoviti, grazie alla grinta di Putin, si sentono di nuovo – come si sono sentiti per secoli - al centro dell’universo futuro: Mosca, la terza Roma, prima capitale del Socialismo planetario, ora capitale dell’”altro Occidente”. Quanto ai newyorkesi, l’11 settembre hanno pagato caro il fatto di non essere solo loro a considerarsi centro verticalizzato del mondo. Anche chi abita a Los Angeles si sente al centro dell’universo dell’immaginario, perché nella sua città si producono le immagini – anche della sua città – che saranno viste da tutto il mondo. Forse anche chi abita a Gerusalemme o a La Mecca o a Benares o a Najaf si sente centrale, per ovvie ragioni.

I parigini sono tra questi ego-centrati: pensano che Parigi pensi per il resto del mondo, e che tutto il mondo pensi a partire da Parigi.

        Ma se come Caput Mundi Parigi è rotonda, nulla al suo interno lo è. Concepita prima del 1870 da Georges Eugène Haussmann, prefetto di Napoleone III, la Parigi che conosciamo è un fascio irradiante di boulevards nel quale solo di rado si troverà una piazza del tutto rotonda. Quando negli anni 80 l’architetto spagnolo Ricardo Bofill creò una piazza francamente tonda a Parigi - place de la Catalogne vicino alla stazione di Montparnasse - la cosa fece scandalo. Siccome l’unico vero centro del Centro è lo spazio vuoto tra cattedrale e prefettura, poche piazze possono ambire alla forma della rotondità che connota centralità – deve accontentarsi del quadrato o del rettangolo. In altre parole Haussmann ha strutturato Parigi come un corpo venoso dove bisogna circolare sempre. Il fine politico-militare del prefetto urbanista era di eliminare i dedali di vicoli che invitavano i parigini a erigere ciclicamente barricate. La Parigi che conosciamo e amiamo oggi è insomma quella ridisegnata, riconcepita, in termini polizieschi, anti-rivoluzionari. E la polizia, per un parigino, è quella che ordina sempre “circolare!”. Nella piazza rotonda ci si ferma, ci si assembra, si cospira – in certi casi ci si rivolta - mentre in una città di ampi viali e quadrivi si deve per forza circolare, andare avanti, fluire. Parigi è una tela di ragno che però non irretisce: irradia. Del resto, Hitler adorava Parigi e desiderava per Berlino la sua stessa struttura urbanistica: anche lui voleva irradiarsi.

Roland Barthes in una conferenza del 1967 a Napoli disse che le grandi arterie delle città sono vissute come fiumi. E questo è certamente vero di Parigi, città geneticamente fluviale. Anche sul fiume vero, la Senna, si circola molto: battelli turistici o péniches, le eleganti e severe chiatte che, apparenti bare senza anima viva, scivolano silenziose sul boulevard d’acqua. Ma anche i famosi viali parigini sono fluidi. Sulle sue rive, ci si arresta aggrappandosi ai bistrot, terrazze dai tavolini rotondi attorno ai quali ci si appollaia guardando le monde, il traffico umano che fluisce.

 

 

Parigi è sempre Parigi

 

“I francesi non vogliono più lavorare, vogliono tutti scrivere” mi diceva la mia portinaia, che non sapeva di fare quel giorno il processo alle vecchie civiltà.

                            E. M. Cioran, L’inconveniente di essere nato, p. 122

 

Nel fondo, Parigi non mi pare sostanzialmente cambiata rispetto a quando ci vivevo io, da studente, tra 1967 e 1973. Forse è la mia ottica, perché alla mia età ci si aggrappa a quello che non cambia per incollarsi addosso i propri residui di gioventù, anche se si accondiscende – con prudenza - ad ammirare alcune cose nuove. Parigi è molto meno cambiata di quanto non sia cambiata Londra, ad esempio.

La capitale britannica ha cessato di essere quell’orgogliosa eccezione insulare, dove tutto era diverso dal Continente, dal breakfast mattutino a base di pancetta, uovo fritto e fagioli fino all’intricatissimo sistema monetario a base di mezze-corone, ghinee, pence, sterlings, e altre goticherie. Londra è ormai diventata una capitale europea come le altre, in cui si sorseggiano vino ed espresso, si corteggiano le ragazze per strada e si rubano borsellini in metropolitana. Proprio come a Roma o a Parigi. Negli anni 60 a Londra si mangiava all’inglese, cioè malissimo; oggi invece Londra è diventata la città con i migliori ristoranti etnici al mondo. Anche se i britannici ancora detestano l’Europa, in quanto temono che il Continente imponga la guida a destra e l’euro – le sole differenze vistose rimaste. Temono soprattutto che la Gran Bretagna diventi come ciò che secondo loro è il loro opposto, e che detestano: come la Francia.

In quarant’anni Parigi è cambiata meno. In fondo, nelle librerie importanti, a parte qualche nuovo autore, si vedono gli stessi tipi di libri. I quotidiani importanti sono rimasti gli stessi – “Le Monde”, “Libération”, “Le Figaro”, “France-Soir”. Invece “L’Humanité” – voce ufficiale del partito comunista, un tempo venduto la domenica per strada da militanti in blue-jeans – è oggi ridotto al lumicino. Persino il giornale satirico ufficiale, “Le Canard Enchaîné”, resiste anch’esso come altre istituzioni vetuste - l’Académie Française, l’Ecole Polytechnique, l’Ecole Normale Supérieure, l’Ecole Nationale d’Administration, le Collège de France, le Folies Bergère. I rotocalchi danno sempre un rilievo enorme a psicologia e psicoanalisi. Nei bistrot, sempre pieni di specchi e dove si beve il solito ballon de rouge (bicchiere di vino rosso) o il solito pastis, la mattina si mangia il solito croissant, ancora oggi ci si ferma a parlare per lunghe ore, magari a leggere o a scrivere in solitudine sulla riva del boulevard-fiume. Gli odori di frites, di crêpes e di croque-monsieur sono rimasti gli stessi, i giovani parigini spesso parlano e pensano come parlavamo e pensavamo noi giovani a Parigi nel 1970: convinti oggi, come allora, qu’il faut résister. Alcuni di quelli che all’epoca erano i nostri idoli culturali – Sartre, Foucault, Deleuze, Lacan, Barthes, Bourdieu, Debord, Derrida, Lévi-Strauss ecc. – sono morti, altri, come, Todorov, Serres, Sollers o Kristeva, sopravvivono, ma sono autori inevitabili anche per i giovani di oggi.

Come sto bene quando vado a Parigi! Qui posso assaporare i miei istinti conservatori, travestendoli da fedeltà rivoluzionaria. Qui ritrovo la mia patria del passato, il mio passato come patria.

Anche la Parigi che conta – che ha innalzato il Cambiamento post-moderno a immutabile ideale etico-politico - resiste al cambiamento de facto. Oggi come trent’anni fa, quando un intellettuale chic ti dà appuntamento, puoi scommettere che te lo darà Chez Balzar a rue des Ecoles, ristorante della Sorbona alternativa e prospera. O anche alla Closerie des Lilas in Boulevard Montparnasse, rifugio di varie generazioni di scrittori famosi. Su ogni tavolo c’è una targhetta aurea col nome di un autore famoso che l’ha frequentato, sin dall’Ottocento. Il VIP parigino che ti dà appuntamento là spera che un giorno quel tavolo dove ora sorseggia pastis avrà una targhetta gialla anche con il suo nome.

Insomma, per farla breve, Parigi ha una forte resistenza a congedarsi definitivamente dal 20° secolo.

Certo tutto l’Occidente cambia, nel senso che si americanizza, ovvero si adegua sempre più a un’America che, da parte sua, si europeizza anche, per fortuna. Eppure ogni paese europeo, per quanto americanizzato, quale più quale meno, resta se stesso, mantiene un’aria heimisch, familiare, che lo distingue da qualsiasi altro paese americanizzato. E’ come una persona che invecchia: ognuno “sceglie” certi caratteri specifici della senilità – ma tutti i vecchi si assomigliano, in fondo. Eppure ogni invecchiato resta quello che è o è stato, mantiene la sua nostalgica idiosincrasia.

 

 

 

Arroganza?

 

        Il 22 ottobre 2004 leggevo su Le Monde che gli studenti francesi sono i più scadenti nella conoscenza dell’inglese rispetto agli altri paesi europei – anzi, il livello di conoscenza dell’inglese dei giovani francesi si è degradato a partire dal 1996. Chi insegna inglese a studenti di ogni parte del mondo mi conferma che di solito i francesi sono gli allievi più difficili: sono così pieni della loro langue che hanno resistenze forti, inconsce, diciamo nevrotiche, a parlarne un'altra. E nei congressi internazionali di varie discipline scientifiche, dove ovviamente si parla solo inglese, i soli che pretendono delle sessioni in francese sono i francofoni. Quando vengono concesse, ci vanno solo loro.

E' vero che molti pensatori parigini più recenti, malgrado la loro scrittura codificata che scoraggia estranei e stranieri, sono stati presi sul serio nel mondo intero, e soprattutto nei campus americani. E’ la famosa French Theory, che ha trovato in US tanti seguaci, imitatori e americanizzatori. Ma anche chi flirta con questa Theory a un certo punto esclama "perché i francesi scrivono in modo così dandystico?", "their style is weird". Da qui l'ipotesi, alquanto sbrigativa, a cui molti approdano secondo cui tutti questi famosi intellettuali parigini siano in fondo ciarlatani, dixit Sokal[1].

        In tutti gli angoli del mondo si sente sempre lo stesso ritornello: "i francesi sono chauvinisti e arroganti". Come ogni luogo comune, che fa di ogni erba un fascio, esso mi irrita. Non trovo particolarmente arroganti i miei tanti amici francesi.

Ma poi mi viene un dubbio: e se questi amici, intellettuali, non fossero arroganti con me solo perché mi includono nella loro tribù? Dopo tutto, parlo bene la loro lingua, ho fatto gli studi universitari a Parigi, seguo ancora quel che accade di politico e culturale in Francia. Insomma, non vengo percepito come un buzzurro in trasferta che viene dal Burundi o dalla California, non-iniziato ai Misteri della cultura parigina. Conosco il codice, quindi sono ammesso nella corte...

        Ma si tratta solo di parlare o scrivere nella bella lingua, o si tratta anche di condividere un codice di pensieri? A Parigi il codice è anche di contenuto. Esso si riassume in una parola-chiave, in un mot de passe senza il quale non sarai mai accettato nella culture parisienne. Questa parola fondamentale del codice è: résister. Resistere.

 

 

Resistenza! 

 

Ogni francese oltre i quarant’anni adora la Resistenza - il termine e il concetto.

Quando, nel 1994, chiesi a Jean-François Lyotard di riassumere in un'ora, per la televisione italiana, il nocciolo del suo pensiero, egli propose senza la minima esitazione il titolo Résistances[2]. Fu quasi un testamento, da lì a poco sarebbe morto.

Jacques Derrida, dal canto suo, ha pubblicato un libro: Résistances[3]. Il volume raccoglie tre saggi riguardanti la psicoanalisi, che cominciano con una confessione molto francese: "da sempre, amo questa parola, resistenza". E si chiede, senza azzardare una risposta netta: "perché ho sempre sognato la resistenza?"

Ora, nella tribù psicoanalitica resistenza ha una connotazione piuttosto negativa: l'io narcisistico resiste alle verità inconsce che emergono nell'analisi. L’ottusa Ragione resiste alle sgradite ragioni del cuore. Ma il doppio amore francese per Freud e per il maquis contro l’Occupazione ha compiuto - non solo in Lyotard e Derrida - questa miracolosa comunione: la resistenza freudiana è diventata, come la Resistenza contro il fascismo, una cosa buona, anzi, il grande dovere dell'intellettuale alla fine del millennio. Come nella canzone di France Gall che ogni francese conosce:  "Résistes! / Montres que tu existes / Refuses ce monde égoiste..."

        Si chiama Résistances un gruppo rock francese. Importanti riviste francesi dedicano al tema "Résister" interi numeri. Anche in dibattiti e consessi internazionali, si può scommettere che prima o poi l'intellettuale parigino – e quindi, per irraggiamento, l’intellettuale francofono - dirà qualcosa come "il faut résister..." Ma bisogna resistere a che cosa? Quali sono gli occupanti nazisti di oggi?

Per un intellettuale francese occorre resistere a varie cose: alla mondialisation (termine francese che resiste all’inglese globalization), allo strapotere dei media e di Hollywood, alla versione anglo-americana del liberalismo detta libérisme, alla cultura di massa, alle scienze cognitiviste e allo “scientismo”, ecc. Insomma, occorre resistere al dilagare dell'americanizzazione in tutte le sue forme, sia alte (la scienza moderna, Chomsky, Microsoft) sia basse (Walt Disney, Harry Potter, McDonald, Disneyland). Parigi si propone come roccaforte mondiale di questa Resistenza disperata al McWorld (McLuhan, McDonald, McIntosh).

        Non importa che tu francese sia di sinistra o di destra, che ammiri Sarkozy, Hollande, Marine Le Pen o José Bové[4]: se sei francese, allora devi resistere.

[Dopo la guerra di Bush Jr. in Irak questa resistenza ha assunto finalmente la dignità di una linea politica condivisa da tutti o quasi i francesi. Molti governi erano ostili all’avventura irakena, ma quello francese, più di ogni altro, è sembrato resistere a una guerra che – tutti lo sapevano – si sarebbe comunque fatta perché era già stata decisa alla Casa Bianca.]

Così, nell’Ipersemplificazione planetaria l’Occidente pare diviso in due. Da una parte il Davide Francia che vuol fare dell’ONU l’artefice del nuovo ordine mondiale e che coltiva il decostruzionismo, la psicoanalisi, l’arte d’élite, la raffinatezza esausta, il relativismo storico, la critica della modernità e il primato della filosofia. Dall’altra il Goliath USA che vuolre imporre il nuovo ordine mondiale, la philosophy of mind e l’analytic philosophy, l’arte di massa, quello che deve piacere a tutti, l’universalismo scientifico e democratico, l’esaltazione della modernità e il primato della scienza e della tecnica. Goliath prevale nei vari continenti, Davide – “il partito francese” – resiste.

Ma alla fine non fu la debole Resistenza a vincere sulle soverchianti armate germaniche? E’ vero, solo che all’epoca il Davide-Résistance aveva dalla sua parte proprio gli americani, i forti del mondo. I deboli vincono Goliath solo quando altri forti sono dalla loro parte.

 

 

 

Marianne e foulards

 

Ma c’è un solo concetto pervasivo della Parigi di oggi che non aveva importanza agli inizi degli anni 70: l’esprit républicain. Anche l’Italia è una repubblica, ma nessuno parla di “spirito repubblicano” per denotare il suo DNA etico-nazionale. La République è il paradigma della visione politica e civile di ogni francese - così come freedom è il paradigma dell’idealità civile americana.

A Parigi il culto popolare della Marianne – immagine allegorica, sanculotta e femminea, della Repubblica – è la vera religione, soprattutto di chi non ha altra religione. Non a caso hanno dato volto alla Marianne - idolo con una ridicola cuffia ma con connotazioni erotiche - le più belle attrici francesi: Brigitte Bardot, Catherine Deneuve, Laetitia Casta, e altre. L’euro francese è la moneta più noiosa perché mostra sempre e solo la Marianne. I rivoluzionari dopo il 1789 non riuscirono a sostituire il culto dell’Ente Supremo o della dea Ragione a quello del dio cattolico, eppure oggi La République è la nuova divinità, a un tempo politica, etica ed estetica, dei parigini. Mentre ampie fette della sterminata provincia francese restano vandeane, cioè conservatrici e cattoliche, oggi lepeniste, insomma anti-parigine.

Il punto è quali contenuti precisi dare a questo signifiant, come si dice in Francia – e qui allora sinistra e destra, moderni e post-moderni, libertini e conservatori, divergono. Si tratta di vedere insomma se i principi solidaristici del welfare – che i francesi, in linguaggio teologico, chiamano Etat-Providence, Stato-Provvidenza – facciano parte della religione della République oppure siano un innesto inessenziale.

Comunque tutti sono d’accordo che la società repubblicana è laica. La divisione tra Religione (pratica etnica rispettabile anche per gli atei) e Repubblica è netta. In Gran Bretagna, ad esempio – unico paese al mondo, credo, dove lo stato guida la religione, e non viceversa come in Iran – l’istruzione religiosa è obbligatoria nelle scuole (anche se un genitore può chiederne la dispensa). Questo obbligo è impensabile in Francia. Quando un bambino francese entra in una scuola pubblica anche nel più sperduto villaggio del Massiccio Centrale o dell’Aveyron, egli sa che entra in un’anti-chiesa, o in una chiesa autre, in un luogo polare e opposto rispetto alla chiesa cristiana o alla sinagoga o alla moschea: nel tempio della Culture Républicaine. Poi, se è ambizioso, da grande “il montera à Paris”, “salirà a Parigi” e acquisirà il codice della Capitale per poter essere ammesso anche lui alla Cour – cortile e corte.

L’Ecole laique – creatura della terza Repubblica francese (1870-1940) – ha inventato il famoso tablier o sarrau, il grembiule. Questa divisa egualitaria per bambini è stata poi adottata dalle scuole statali di quasi tutta Europa. Il grembiule, versione secolarizzata e infantile della tonaca del prete, marchia lo scolaro come officiante del culto della Scuola Repubblicana. Anch’io, bambino italiano, ho portato fino a dieci anni il grembiulino blu con su cucito in stoffa rossa il grado scolastico a cui ero giunto, grembiule di cui peraltro andavo molto fiero - i bambini adorano indossare divise, ovvero travestirsi come tutti gli altri. 

Questo assioma della scuola repubblicana come tempio della religione della Marianne spiega l’ardore del dibattito – divenuto poi affaire mondiale – sul famigerato foulard delle islamiche. Foulard un tempo era detto fichu – termine che Derrida ha sardonicamente decostruito[5], perché oltre a foulard significa anche  “fottuto”, “sconfitto”, “male in arnese”. Oggi, nell’immaginario politico francese, il foulard si oppone drammaticamente al tablier – insomma, se si accetta il fichu delle ragazze, il tablier è fichu. Per anni – fino alla legge chirachiana che proibisce ogni foulard a scuola – i francesi si sono dilaniati per decidere se devono essere ammesse nel tempio scolastico le ragazze di fede islamica che portano appunto il foulard o fichu. I clamori di questo dibattito sono giunti fin nei paesi islamici: due giornalisti francesi furono rapiti in Iraq per punire l’esprit républicain.

E’ stato oggetto di dibattito molto caldo, in Francia, se lo stato debba ammettere che su patenti e passaporti siano valide anche le foto di donne col capo coperto. La Regola Repubblicana è che le foto di identità debbano essere a capo scoperto. Dibattiti del genere sarebbero impensabili in Italia e in altri paesi. In Italia già il fascismo ammetteva che le monache si facessero ritrarre sulla carta d’identità con il capo coperto, e questa dispensa oggi vale anche per le islamiche. Da noi ormai frequentano le scuole ragazze mussulmane che portano l’hijab o il chador, ma la cosa non solleva problemi né a destra né a sinistra - a parte qualche xenofobo del Nord. Siccome dal fascismo in poi la scuola pubblica italiana è stata marcata dall’egemonia cattolica – il crocefisso in aula, l’ora settimanale di religione – si trova oggi del tutto naturale che segni anche delle altre religioni vengano ammessi. Anzi, sotto sotto il laico ridacchia compiaciuto pensando che il crocefisso che ancora si erge nelle aule scolastiche sovrasti derisoriamente un numero crescente di ragazzi e ragazze mussulmani. Ma la scuola italiana non è il tempio dei Valori laici da opporre alle tenebre della Religione.

Quando, anni fa, in un convegno in Italia, evocai il dibattito sul foulard in Francia per illustrare certi paradossi della concezione liberale occidentale - che per combattere l’intolleranza religiosa finisce con l’essere intollerante nei confronti di certe religioni - gli amici francesi là presenti insorsero: mi dissero che non avevo capito nulla della questione. Che la scuola laica francese esige che “nessun segno religioso venga ostentato”. Noi italiani facevamo notare che questa proibizione assoluta di qualsiasi segno evocante la religione – ammesso che sia possibile distinguerlo nettamente da ogni altro segno etnico – ha però l’aria di una prescrizione religiosa. Ma negli amici francesi si agitavano troppe passioni repubblicane perché fossero sensibili alla nostra obliqua ironia.

 

La lezione

 

Comunque, in un paese che si identifica essenzialmente nella lingua e nell’educazione di stato, la Scuola assume un rilievo che da noi in Italia gli insegnanti sognano solo di notte. Non a caso in Francia uno dei grandi eventi politici degli ultimi quarant’anni è stata la sollevazione studentesca del 1968. Ma un rumeno pariginizzato, Eugène Ionesco, ha eretto il monumento ironico più eloquente al primato francese dell’Ecole.

Da 60 anni si rappresenta sempre nello stesso Théâtre de la Huchette – un teatrino nel cuore del quartiere latino – sempre la stessa commedia di Ionesco, La leçon, “La lezione”[6] – assieme all’altro classico ioneschiano, La cantatrice chauve, “La cantante calva”. E spesso non si trova posto perché tutto esaurito. E’ il successo più longevo della storia del teatro occidentale?

La lezione è un capolavoro del teatro dell’assurdo anni 50. Ci mostra un anziano insegnante celibe alle prese con una giovane studentessa che va a trovarlo a domicilio per prendere lezioni private. Il professore, dapprima timido e cerimonioso, in un impareggiabile crescendo si trasforma poco a poco in un furibondo, irrefrenabile e implacabile oratore, fino a che la sua esaltazione non lo porta ad accoltellare a morte la sua sempre più sottomessa e smarrita allieva. L’opera è aperta: il professore ripeterà la stessa cosa con la prossima allieva, senza limiti.

Si dice che questa commediola metterebbe a nudo il risvolto sado-masochista implicito in ogni rapporto pedagogico. Ma forse i parigini vanno in pellegrinaggio a vedere questo classico del loro teatro perché vi leggono la faccia raccapricciante del culto francese della Scuola e della Cultura. L’insegnante serial killer di Ionesco è in effetti una sorta di sacerdote della Scuola Repubblicana, ma la sua missione slitta in una hybris losca, sado-erotica. E non si sente ogni francese quasi accoltellato dalla sua religione della Cultura, che lo costringe a resistere per tutta la vita contro lo spettro delle tenebre?

 

 

La Corte delle Luci

 

        L'organizzazione culturale francese segue un modello versagliesco che le varie Rivoluzioni non hanno mai veramente intaccato: un Centro luminoso, come la Versailles de Re Sole, che irraggia sapere e style. L'intellettualità francese tende a dire, alla Luigi XIV, “la culture c'est moi”. Parigi è in cima. Prevale insomma un paradigma squisitamente aristocratico di eccellenza culturale, che contrasta con il modello grigiamente democratico – cioè massificato - che l'America sta imponendo a quasi tutti i paesi, Cina inclusa. Questo modello nobiliare porta a trascurare gli standard culturali generali, a coltivare un’arte snob di derisione del ridicule borghese, e a concentrarsi sulla Cour – corte e cortile - cioè sui quei due o tre quartieri parigini dove si produce l’80% della cultura nazionale.

Nessun paese occidentale importante ha centralizzato la produzione culturale come ha fatto la Francia. Ho fatto da giovane gli studi universitari a Parigi: per oltre cinque anni solo di rado ho avvertito il bisogno di andare fuori città per seguire gli eventi culturali - tranne i festival di cinema a Cannes, di teatro ad Avignone, o qualche spettacolo a Strasburgo. Per seguire tutto quello che capitava di interessante in Francia, bastava spostarsi tra le Halles, Denfert-Rochereau e la Gare d'Orsay.

Se si vanno a esaminare gli indicatori del livello culturale - tasso di laureati e numero di libri stampati o letti, investimenti nella ricerca e nell'educazione oltre che la produttività di ambedue, numeri di brevetti accreditati, copie di quotidiani venduti, premi Nobel, ecc. - colpisce quanto la Francia sia di fatto un paese di medio livello culturale, giusto sopra l’Italia e la Spagna e giusto sotto la Germania. Il prestigio culturale francese è di fatto iper-concentrato nella testa parigina. Questo paese è come un individuo con un corpo minuscolo e un po’ rachitico ma con una testa gigantesca, sproporzionata, troppo rigogliosa.

 

 

Scandali per americani

 

        Una illustre e affermata tradizione parigina - che me l'ha resa sempre simpatica - è la produzione di autori scomodi e scandalosi. Dal 700 fino a oggi il termine "autori francesi" è stato spesso sinonimo di inammissibile snobismo, di obbrobrio per le anime pie e per le madri di famiglia con la testa sul collo, pericolo per gli spiriti acqua e sapone. Ci si faceva la croce al solo sentire i nomi di Voltaire o di Rousseau o di Baudelaire o di Rimbaud. Ed è divertente anche oggi vedere tutti i benpensanti del mondo, tutti gli accademici timorati dei vari continenti, sobbalzare sulle loro poltrone non appena si fanno i nomi di Bataille, Foucault, Lacan, Deleuze, Cioran o Derrida. La sola differenza è che alla fine del Settecento i benpensanti erano credenti e monarchici, mentre oggi sono "scientifici" e "democratici", “gente seria” alla Sokal.

        Ma il punto è se la scrittura o l’arte scomode o scandalose vadano protette dallo stato. Nel 1999 intellettuali e cineasti francesi sferrarono un'ennesima campagna di "résistance contro il Pensiero Unico americano" chiedendo allo stato più privilegi per fronteggiare l'invasione dei prodotti culturali anglofoni. Ma si può difendere la propria cultura dal gigante americano rifugiandosi, come marmocchi frignanti, sotto le gonne dello stato-mamma? In realtà, i francesi che turbarono e scandalizzarono il loro tempo non compirono la loro rivoluzione culturale grazie ai soldi dei contribuenti francesi - più spesso le fecero grazie ai soldi dei privati americani, che venivano a Parigi a investire nella cultura parigina, per loro deliziosamente scomoda e scandalosa.

E’ questo il paradosso: i fasti della Belle Epoque parigina furono opera di ricchi americani in trasferta. Costoro, ansiosi di europeizzarsi per dimenticare le loro ruvide origini di allevatori di bestiame puritani, scelsero Parigi come loro colonia europea di elezione. Venivano ad aggiornarsi, a corrompersi, a Parigi. Nell’Ottocento Boston, New York e Londra erano le città dove si facevano i soldi, Parigi era la città dove si veniva a spenderli – comprando opere d’arte, cocottes e sottovesti femminili osées. Gli emuli di Henry James per gentrificarsi scelsero non Londra (all’epoca l’Inghilterra era ancora la potenza colonizzatrice antipatica), non Roma (troppo arretrata), non Berlino (troppo prussiana e austera), non Vienna (troppo imperiale), ma Parigi. Così furono gli americani carichi di dollari a inventare il mito di Paris come fucina delle nuove avanguardie artistiche, capitale dell’epopea della bohème e dei poeti maledetti, santuario dei cafés chantants e della vita innaffiata di champagne e merlettata da giarrettiere. Perciò in fondo non credo nella strombazzata reciproca antipatia tra americani e francesi – da tempo, sono culture segretamente interdipendenti, complementari. Sembrano detestarsi, ma, come Freud insegna, l’odio è una forma di inammissibile amore.

Indubbiamente molti americani, soprattutto intellettuali, che si sentono a disagio in quel Grand Hotel multietnico che sono gli Stati Uniti, parteggiano per la Francia e non perdono occasioni per fare una capatina a Parigi. Eppure questi francofili restano comunque americani: l’attrazione per questi eccentrici francesi non elimina mai del tutto una loro scettica, benpensante ilarità.

Uno di questi è Woody Allen. In un suo film del 2002, Hollywood Ending, un cineasta molto newyorkese viene ingaggiato dal Sistema Hollywoodiano per girare un film. Il guaio è che durante il tournage soffre di una cecità psicogena (evidentemente un’allegoria: un cineasta deve diventare cieco per poter lavorare nel sistema di produzione di Hollywood!). Il film, girato da un cieco, in America viene massacrato sia dalla critica che dal pubblico. Invece i critici francesi, e solo loro, accolgono con elogi ditirambici questa pellicola bislacca. Commento di Woody (che impersona il cineasta cieco): “Meno male che ci sono ancora i francesi!” Decide così di andarsene a vivere a Parigi. In un film successivo, Midnight in Paris, lo stesso Allen dirà che, dato che esiste Parigi, il fatto che qualcuno decida di vivere altrove che a Parigi resta per lui un mistero.

Allen – intendo qui il cineasta reale - sa bene che il suo cinema è molto più apprezzato in Francia che nel suo paese; destino già toccato a Jerry Lewis, considerato negli US un cineasta per bambini un po’ stupidi e a Parigi promosso a maestro del cinema modernista. Il suo Hollywood Ending pare quindi un elogio grato alla lungimiranza parigina. Eppure anche Allen resta americano, insomma, ride degli intellettuali parigini: dopo tutto, questi sono i soli a vedere un capolavoro in un film rabberciato da un non vedente. Da una parte simpatia, dall’altra ironica diffidenza.

        Oggi, certo, Parigi è ancora meta di elezione degli americani. Ma oggi questi americani sono anonimi turisti che si sono fatti i soldi confezionando software per computer o comprandosi case con i mutui subprime. Parigi è diventata la Disneyland europea per la massa che cerca il brivido della Cultura. Forse per questa ragione Eurodisney è stata edificata proprio vicino Parigi.

 

 

 

Toilettes cartesiane

 

        Certo noi italiani siamo un popolo viziato, dal punto di vista dei servizi igienici. Quando andiamo all’estero, la rarità o addirittura l’assenza del bidet ci affligge ancor più della mancanza del caffè espresso, dei nostri vini o della mozzarella. A Parigi il bidet – anche se dal nome sembrerebbe un’invenzione francese – è un lusso quasi raro. E ci chiediamo attoniti “ma come fanno questi non italiani...?”

In effetti, negli ultimi decenni noi italiani abbiamo sovracompensato una lunga storia di povertà che implicava, come spesso la povertà implica, un’igiene approssimativa. Oggi i miei compatrioti ci tengono ossessivamente alla pulizia, soprattutto le donne, Hausfrauen dedite a spolverare e risciacquare la loro magione con furibonda solerzia. L’iperpulizia degli italiani dovrebbe cancellare un’antica macchia secolare, forse morale, di mediterranea, sontuosa sporcizia.

        Sarebbe buona invece l’idea parigina, e francese in genere, di separare la tazza del cesso dal bagno vero e proprio – ovvero, separare le deiezioni dalle abluzioni. Da una parte un bel bagno con pretese quasi patrizie, con ampia vasca e largo lavandino – dall’altra, in uno sgabuzzino vergognoso in tutt’altra parte della casa, l’umile tazza del cesso. Questa concezione separativa andrebbe bene se, però, i parigini si dimenticassero spesso di mettere, accanto al trono evacuativo, un lavandino per pulirsi. La sua assenza getta il povero italiano – viziato dal suo bidet, che in Italia non manca nemmeno nella più misera topaia – in uno stato di quasi disperazione.

        Ma probabilmente questa rigorosa separazione architettonica tra cesso e bagno riflette una separazione più fondamentale, più archetipica, che traversa tutta la cultura francese, la sua societé civile. Probabilmente i parigini non si sono ancora riavuti dalla famosa dicotomia cartesiana, secondo la quale da una parte c’è la res extensa (la materia, le cose) dall’altra la res cogitans (il pensiero) – una separazione che rende à jamais problematica la loro intersecazione e associazione nel mondo concreto. A livello igienico, si consuma una separazione isomorfa: quella tra la Bellezza sensuale da una parte (il bagno con vasca, doccia e lavandino) e la Merda dall’altra (la tazza del cesso). Da una parte il mondo erotico dei lavaggi che purificano e seducono, dall’altra il mondo marginale, spregevole, delle defecazioni che insozzano. Questi due atti, come due sostanze distinte, non si intersecano, non collaborano, non si armonizzano pragmaticamente nella filosofia di quello che gli americani chiamano ipocritamente restroom, “stanza per il riposo”. Lo spirito cartesiano, divisorio, dei parigini non si riposa nemmeno nella toilette.

 

 

“Italiani di cattivo umore”

 

        I francesi si riconoscono senza riserve nella fulminante definizione di Jean Cocteau: “i francesi sono italiani di cattivo umore”.

Bisogna dire che i francesi si sentono affini a noi italiani più di quanto noi italiani ci sentiamo affini a loro. Un italiano anticonformista può anche ammirare la Francia, i francesi italiofili invece non si limitano ad ammirarci: ci amano, molti ci adorano. Amore non corrisposto: da recenti sondaggi risulta che per gli italiani sono più simpatici dei francesi – nell’ordine - americani, inglesi, svizzeri e tedeschi.

Quando i spondaggisti chiedono ai francesi in quale paese vorrebbero vivere, a parte la Francia, il primo paese che indicano è l’Italia. Ma ammettono di avere, diversamente da noi, un caratteraccio.

La scorbutichezza del parigino impressiona molti stranieri, ed è ormai entrata a far parte dei tanti clichés etno-turistici. Da giovane, una delle poche città dove ho finito col fare più di una volta a botte è stata proprio Parigi. La bagarre è un’istituzione parigina, come mangiare steak frites o andare almeno una volta nella vita al Crazy Horse. Gli italiani conoscono una canzone di Paolo Conte che recita “…e i francesi che si incazzano”, riferendosi alle vittorie di Bartali al Tour de France negli anni 50 - ma la frase divenne a lungo un logo per noi italiani. E quando Derrida venne a fare un giro di conferenze in Italia, un giornale italiano importante titolò “Irascibile Derrida”. Cosa può essere un francese per i media, soprattutto quando è un filosofo famoso, se non spocchioso e iracondo?

E’ vero, nella capitale europea con il maggiore afflusso turistico – battuta oggi solo da Londra - lo straniero può sentirsi liquidato con sufficienza. Da una parte la maschera gentile e squisita della tipica boutiquière parigina – “Bonjour monsieur”, “Au revoir madame”, con la cantilena a strascico finale così tipica della politesse affettata – dall’altra una flatulenta collericità non meno autoctona.

Questo caratteraccio parigino si combina poi talvolta catastroficamente con una peculiare pignoleria burocratica gallica, strascico caratteriale di uno stato monarchicamente centralizzato da secoli. Ogni tanto incappi in qualche pachiderma d’ufficio che si impunta, per pura malvagità, contro di te sfruttando al massimo l’esiguo potere che gli deriva dalla sua posizione burocratica di controllore, dispensatore o certificatore. Spielberg girò un film, The Terminal (2004), ispirato a un calvario reale: quello di certo Alfred Merham, malcapitato sloveno trattenuto per giorni nel 1988 ai transfers dell’aeroporto di Roissy per tigna personale di un burocrate. La storia aveva già ispirato un film francese[7] proprio per il suo tenore a un tempo kafkiano e farsesco. Mi chiedo se sia davvero un caso che una storia di questo tipo sia accaduta a Parigi, piuttosto che a New York, a Berlino o a Roma.

        Il cattivo umore dei francesi è comunque una verità psichiatria, statistica: sono il popolo che consuma più psicofarmaci e che va più di ogni altro da psicoterapeuti delle varie scuole. La Francia batte primati di alcolismo in Occidente, e i giovani francesi si fanno canne e spinelli più di qualsiasi altra gioventù europea. Secondo gli specialisti della felicità – quei sociologi che calcolano accuratamente il livello di happiness di ogni paese – la qualità della vita in Francia è altissima, dati i loro parametri; eppure i francesi si dichiarano mediamente più infelici dei loro simili, più certamente degli americani.

I miei cari amici psicoanalisti francesi gonfiano il petto quando ricordano che la Francia è il paese al mondo con più analisti – super-concentrati a Parigi. Ma di fatto la popolarità degli analisti è solo una delle facce del prisma del malaise francese – un prisma che include psicofarmaci, crisi depressive e consumo di alcool[8]. Questa propensione all’addiction contrasta con l’immagine reçue, convenzionale, del francese bon vivant, buongustaio dedito ai buoni vini, edonista che sceglie accuratamente in una fastosa panoplia di profumi e tra trecentosessantacinque tipi di formaggi (fu proprio de Gaulle a dire che era quasi impossibile governare un paese con una tale varietà di formaggi). L’industria dell’edonismo – nella quale la Francia, con l’Italia, resta tra i leader – è la faccia sorridente di una moneta la cui altra faccia è cupa.

        Scontentezza, mugugno, lamentazione sui nostri brutti tempi. Questo indulgere alla doléance assume in Francia anche uno spessore politico. Dal 1981 in poi a ogni elezione legislativa vince sempre l’opposizione nella legislatura precedente – l’alternanza in Francia sembra perfetta, non ammette deroghe. E’ come se i francesi fossero cronicamente delusi da chi li governa, chiunque esso sia[9]. E del resto una parte cospicua dei loro voti vanno a partiti fuori del sistema: verso la xenofobia di Le Pen da una parte, e verso i trotzkisti dall’altra. A ciò bisognerebbe aggiungere una debolezza particolare, storica, strutturale, del sindacalismo francese – altra faccia dell’individualismo. Il sistema politico e sindacale francese porta con sé, come una mina, una forte componente anti-sistema. Ma non è questo vero per ogni francese? Non porta ognuno dentro di sé qualcosa di esplosivo?

        Chiunque appartenga a una qualsiasi minoranza etnico-religiosa – ebraica, o islamica, o maghrebina, o nero-africana, o asiatica, ecc. – e viva in Francia, ti confermerà quello che hai già sentito molte altre volte: che negli ultimi anni in questo paese aumenta la distanza – per usare un eufemismo – tra i vari gruppi etnici e religiosi. La République rischia di ridursi a mero ombrello di conflitti inter-etnici sempre più decostruttivi. Anche questa rissosità intra-nazionale fa parte del disagio francese, e aspetto ancora il sociologo che mi spieghi perché i vari gruppi etnici e religiosi trovino molto più difficile convivere oggi in Francia che in Gran Bretagna, Germania o Svezia. E’ come se questa inarticolata irritabilità nazionale contagiasse anche chi non è nato francese, o non è nato da francesi. 

        Allora mi sento autorizzato ad avanzare io un’ipotesi. Mi chiedo se questa pena di convivere – o di vivere tout court - non sia anch’essa un riflesso del codice francese: anche l’immigrato finisce con il succhiare dalla Francia circostante il veleno agrodolce dell’orgoglio nazional-linguistico. Oggi molti denunciano un certo ripiegamento franco-francese – questo è il termine in voga – che rischia di isolare la nazione in una sorta di decorata e decorosa decadenza. Ma anche l’immigrato respira questa franco-francesità: e più che altrove si convince che può esistere solo diventando islamico-mussulmano, ebraico-ebreo, sino-cinese, maghreb-marocchino, ecc. E se la sproporzionata conflittualità tra etnie in Francia fosse effetto di un cattivo esempio dato dai franco-francesi?

Oso anche un’ipotesi sullo specifico malessere degli intellettuali parigini – quel malessere che hanno incarnato figure come Louis Althusser, Georges Poulantzas o Guy Debord ad esempio, filosofi molto “incasinati” come si dice in Italia. In effetti l’aspirante o riconosciuto intellettuale parigino è diviso, o dilaniato, tra due ideali contraddittori: essere da una parte un maudit, un eccentrico o dandy inviso al bourgeois; dall’altra essere interprete dei Diritti Universali dell’Uomo e del Cittadino. Essere a un tempo Choderlos de Laclos e Kant, il lascivo Sade e l’Incorruttibile Robespierre, il maledetto Rimbaud e l’austero De Gaulle. Da qui il nervosismo, l’irrequietudine, della cultura parigina – che tanto stupisce l’intellettuale established americano, ad esempio. Per l’intellettuale americano la sua funzione è chiara: deve contribuire all’aumento della Happiness generale, non c’è indulgenza per i satanismi e per il rigetto radicale, pessimistico, del mondo così com’è.

Il guaio è che l’intellettuale parigino è estromesso dalla Cour quando opta troppo drasticamente per la figura del Grande Maledetto o per quella della Voce Universale della Ragione: quando diventa come il fascista antisemita Céline da una parte, o come i Nouveaux Philosophes dall’altra.  Quando risolve lo stridore della contraddizione, allora diventa un paria nella Parigi che sorseggia ironica alla Closerie des Lilas. L’intellettuale parigino troppo risolto, in un senso o nell’altro, non entrerà nella cour. Il conflitto, il dolore - tra l’eccentricità e il conformismo – deve restare.

 

 

Rayonnez!

 

Per capire Parigi, occorre capire che in Francia contano fondamentalmente due parole: gloire e rayonnement

A ogni bambino francese si insegna che, parlando la sua lingua melodiosa, egli deve sentirsi un centro irraggiante civiltà. Gli insegnanti vengono valutati, ad esempio, sulla base di alcuni criteri, di cui uno essenziale è il rayonnement: la loro capacità di farsi ammirare anche fuori delle aule scolastiche. L'irradiazione è una metafora che eufemizza e corregge le figure malefiche dell'invasione e della colonizzazione: idealmente il faro della Ville Lumière rischiara le tenebre e porta le luci nel mondo. A ciascun francese si chiede, nel suo piccolo, di essere un faro simile.

Io sono un baba cool, un sessantottino francese: partecipai da studente ai moti del maggio 1968. Ero spesso presente alle tumultuose, sboccate e interminabili assemblee studentesche nell'anfiteatro della Sorbona occupata. Una volta vi si infilò un professorino di scuole inferiori chiaramente fuori posto, il quale osò evocare di fronte a migliaia di giovani scatenati con lunghe zazzere il rayonnement francese. Sùbito si levò un boato di urla: "on a ras'le bol de rayonner!", "ne abbiamo le scatole piene di irraggiare!"

Eppure, malgrado il 68, quanti francesi, anche di estrema sinistra, sono davvero stufi di irraggiare? Solo che, di fronte all’accecante incandescenza dei modelli anglo-americani, l'irradiamento è oggi… resistenza.

 

 

Bistrots

 

Se il caffè italiano è esibizionista, quello parigino è voyeurista. Nei rari caffè italiani ci si va come a un evento mondano, essenzialmente per farsi guardare seduti e per guardare chi viene a sedersi. Invece il bistrot parigino soddisfa un bisogno diverso: vi si va per guardare la gente che passa e per leggere. E per leggere intendo non solo leggere libri o giornali, ma anche leggere la realtà esterna fluida, le belle ragazze che trottano spavalde, contemplare il mondo come panta rei, come tutto ciò che scorre. Davanti al café, una passerella. Sedere al café è occupare un luogo privilegiato, filosofico, di osservazione.

Il pub londinese, invece, malgrado il nome – public – tende a ricomporre nel luogo pubblico angoli privati. Per l’inglese la privacy è così preziosa che deve trionfare anche nel luogo più pubblico. Al pub ci si siede spesso in gruppo, come una famiglia, attorno a un tavolo. Non ci sono camerieri a servirti: sei tu stesso, come a casa tua, a doverti prendere la birra per portartela al tavolo, che diventa tuo luogo di colonizzazione privata. Dopo tutto, il colonialismo inglese non è stato un trapianto planetario della propria privacy scandita da bevute di the? I barmen sono separati da te da un bancone, isolati dal saloon da una barriera lignea: tutto il pub ha l’aria seria e quasi solenne di una banca, che divide il mondo iniziatico dei clerks dal mondo profano dei consumatori. Banca e privacy: i due capolavori della English Way of Life sono evocati nel pub.

Il bistrot parigino invece di solito è dotato di tavolini rotondi all’esterno e di tavolini quadrati all’interno. Sempre all’interno è possibile combinare cartesianamente, come un domino, questi tavolini quadrati o rettangolari. E il tavolino-cellula è duale: è per una coppia dove uno è seduto di fronte all’altro. Se il pub inglese è una pubblicizzazione di piccoli salotti privati, il bistrot francese è un preannuncio dell’alcova: luogo di incontro della coppia per conoscersi, spiarsi, sedursi, sfidarsi.

Se non sei in coppia, andrai ad appollaiarti, come su un trespolo, su uno sgabello alto davanti al zinc, “il zinco”, ovvero il bancone del café. Da tempo i banconi non sono fatti più in zinco, divennero poi di ottone giallo: ma un tempo il bistrot esibiva appunto un bancone grigio sporco di rozzo zinco. In effetti, la matrice genetica del bistrot è popolare e pauperista, una specie di arte povera. Davanti al tuo bicchiere di birra o di rouge, tu artigiano od operaio cerchi di scambiare qualche conversazione disperatamente banale con il cameriere dall’altra parte del zinc. Fuori il voyeur guarda il mondo che fluisce, dentro la coppia ai due lati del tavolino-domino si soppesa e si verifica, e il solitario si allinea di fronte al zinco cercando nei camerieri – di solito uomini – un interlocutore di emergenza. Questo lo ha ben descritto l’anziano regista portoghese Manoel de Oliveira. Nel suo film Belle toujours – che vuole essere il prosieguo del celebre Belle de Jour di Buñuel – Michel Piccoli, avventore ormai vegliardo, racconta continuamente le sue vicissitudini erotiche (quelle di Belle de Jour) a dei camerieri di café. Questo servente, che si limita a qualche domanda, è il terzo di un triangolo erotico virtuale, un ascoltatore che preannuncia lo psicoanalista, luogo stabile dell’ascolto e del silenzio, che è d’oro….

 

 

Il calzolaio e il marchese

 

Si dice che la cultura parigina assomigli allo champagne – costosa e spumeggiante, con tanta schiuma ma con una ridotta sostanza di alta qualità. La qualità c’è, ma…

Da ragazzo, in Italia, avevo avuto modo di conoscere già intellettuali italiani importanti, prestigiosi, carichi di cariche e medaglie. Alcuni di loro, certo, erano bravi. Ma quando arrivai a Parigi, mi sembrò di passare dal cortile di una scuola media alla Corte di Versailles. I nostri maestri italiani mi apparvero presto rozzi e acerbi - legnosi, pesanti, accademici, poco fantasiosi - rispetto ai frizzanti Maestri parigini. Se gli italiani erano di sinistra, imitavano una certa rigidità del pensiero germanico, l’interminabile lagna dei filosofi di Francoforte contro l’Orrore moderno, e la prolissità seriosa di Lukacs – mentre gli intellettuali di sinistra parigini erano tutti al pepe o al selz, accattivanti parlatori da caffè artistico-letterario, con la bocca tutta impastata della liquirizia delle parole e della sintassi francesi.

Eppure l’Italia da cui provenivo non era tutta da buttar via dall’Europa Importante. Ma ancor oggi gli intellettuali e professori italiani – a parte quell’élite di italiani che ha vissuto all’estero e che all’estero viene invitata o tradotta – hanno l’aria di calzolai prestati alla Cultura. Mentre di solito l’intellettuale parigino si veste in modo personalissimo, eccentrico, con strani foulard o gilets indiani, e le parole gli zampillano addosso come schiuma di champagne, l’intellettuale italiano – vessato e incattivito da decenni di penosi concorsi universitari – veste in grigio, con anonime cravatte e cerchiatissimi occhiali che gli consentono di farsi risucchiare dalla tappezzeria. Quando parla in pubblico, sembra il prete che benedice dal pulpito o l’insegnante che fa una lezione a studenti di primo anno: poco ironico, parla come un libro stampato, si arena continuamente sulla piatta battigia delle frasi fatte. A Parigi c’era invece una cultura leggera, aerea, il che non significava superficiale, anzi. Quando si andava a seminari o dibattiti sembrava di entrare in uno Iacuzzi mentale, strapazzati deliziosamente da whirlpools intellettuali.

A Parigi, ci esaltava la sensazione di esserci lasciati alle spalle il grigiore dell’Italietta cattolica o marxista – e di quella catto-marxista, la più grigia di tutte.

Poi crescemmo, maturammo. Ci accorgemmo che Parigi aveva cattive biblioteche, pessime cineteche, carriere universitarie insabbianti, folle di lepenisti, una borghesia spesso di mezza tacca. Avevamo confuso i marchesi di Versailles con la massa dei sudditi. Parigi è diventata, per noi, una capitale come tante altre. Ma quanto ci ha fatto godere, quando ci aiutava a liberarci del nostro così antico, così italico, odor di fieno!

 

 

Generazione viziata

 

        Parigi, si sa, attrae tanta gente grazie a due miti vetusti: quello della capitale libertina e quello della capitale intellettuale.

In effetti, fino a qualche decennio fa la Capitale era un santuario per attempati e agiati signori in cerca di attricette, cocotte, puttane, avventuriere. Questo mito sopravvive nella Parigi turistica di oggi, oleata macchina per masse visitanti: il Crazy Horse e le Folies Bergère, il Lido e Pigalle e i tanti cinema e teatri e strip-tease.

L’altro mito è quello di Paris capitale des intellectuels – di questo mito mi sono inzuppato completamente da giovane.

        Studente alla Sorbonne tra la fine degli anni 60 e l’inizio dei 70, vivevo spesso in uno stato di ebbrezza. Quando si vive qualcosa di mentalmente eccitante, tanto più si ha bisogno di essere eccitati, per restare all’altezza della propria eccitazione. E non solo perché per vivermi più intensamente l’espatrio facevo ricorso periodicamente a pasticche di corydrane, l’amfetamina che aveva permesso al povero Jean-Paul Sartre di scrivere uno dei suoi libri peggiori, Critique de la raison dialectique. La mia ebbrezza era dovuta soprattutto al fatto di seguire in modo assiduo i seminari di Barthes, Greimas, Lacan, Foucault, Lévi-Strauss, e di altri intellettuali di grido dell’epoca. Sentivo che stavo vivendo in prima persona una stagione irripetibile, che ero testimone di uno straordinario rigoglio culturale, “c’ero anch’io!” avrei detto ai nipotini accoccolati attorno alla mia sedia a dondolo. E su questo non mi sbagliavo: quegli autori i cui libri divoravo e che seguivo vis-à-vis hanno lasciato, in tutto il mondo, un segno. Tutt’oggi, quando racconto in varie parti del mondo a intellettuali post-moderni quel che vidi e vissi in quegli anni, vibra negli occhi dei miei interlocutori una scintilla viola di invidia. Quegli anni furono mentalmente intensissimi: era come vivere in una festa del 14 Luglio permanente delle idee. Ma quegli anni sono ormai lontani.

        Gli intellettuali parigini della mia generazione – quella degli allievi dei mostri sacri degli anni 60 e 70 -  non sono stati all’altezza, questo è ormai evidente, dei loro maestri. Certo, tuttora in Francia e a Parigi in particolare fioriscono intellettuali raffinati, originali, acuti, da leggere, come ce ne sono in tutti i paesi dell’Occidente. Ma i fuori-classe della mia gioventù non ci sono più. Non esistono più sulla rive gauche intellettuali che squassino le menti della nostra epoca come furono capaci di squassarle Bataille e Deleuze, Balthus e Lacan, Godard e Derrida, Truffaut e Lyotard, Barrault e Foucault, Genet e Duras, Resnais e Levinas, e altri ancora. Negli ultimi due secoli Parigi a ogni generazione ha potuto sventolare davanti al naso del mondo i suoi Grandi, ma è come se la mia generazione avesse mancato il suo turno. Mi chiedo perché.

Forse perché siamo entrati in un’epoca in cui il modello parigino di intellettuale – il filosofo-scrittore turbolento e un po’ dandy che riesce a turbare i contemporanei anche al di fuori delle patrie frontiere – è tramontato. L’intellettualità parigina aveva praticato a suo modo uno star system, a cui oggi in Occidente subentra un altro sistema, più grigio: un’intellettualità decentrata, diffusa, ben pasciuta nei campus e nel prestigio accademico, che non si cura di brillare al di fuori della cerchia iniziatica dei colleghi (anche se ogni professore, anche a Oxford, sogna il bestseller, quando malinconica cala la sera). Questa intellettualità del Duemila scinde freddamente impegno politico e lavoro intellettuale. E se mi si citasse per confutarmi Noam Chomsky – grande intellettuale americano molto impegnato politicamente contro l’America – dirò che Chomsky è invece proprio un modello di engagement all’americana: non si stanca infatti di ripetere che la sua militanza come cittadino non ha nulla a che vedere con le sue teorie linguistiche. Invece, già con il suo famoso J’accuse all’epoca dell’affaire Dreyfus, Zola considerava quel suo agire politico come un prolungamento organico, arto di polipo, del suo impegno letterario. Per l’intellectuel – soprattutto se scrittore - tra grido politico e performance intellettuale c’è per lo meno continuità, spesso addirittura osmosi. Forse questo tipo di testa d’uovo parigina – qual furono anche non francesi come Bertrand Russell, Pier Paolo Pasolini, Günther Grass, Alberto Moravia, Mario Vargas Llosa, Peter Handke, Karl Popper, ecc. – ha fatto definitivamente il suo tempo. Se Parigi vorrà stare al passo, dovrà puntare piuttosto sui curricula universitari e sui giornalisti. In effetti, il maître à penser parigino era rigorosamente equidistante sia dal professore universitario che dal giornalista.

         Ma può anche darsi che il mancato appuntamento dell’ultima generazione parigina con la Gloria sia anche, indirettamente, colpa proprio di quei maestri dai quali i loro allievi ed epigoni non sono riusciti mai veramente a schiodarsi. E’ bello aver avuto grandi maestri, come io li ho avuti: anche se non sei una cima, elevano decisamente il tuo livello spirituale. Non ti senti uno specialista isolato, nuoti in un acquario complice: la cultura parigina è un’aristocrazia popolarizzata, un’élite affollata.

        Ma i grandi maestri sono anche pericolosi perché è molto difficile liberarsi di loro – non dico superarli, ma anche solo emanciparsi dal loro imperium. Quelli parigini hanno tessuto attorno ai seguaci delle magnifiche gabbie d’oro, magari con multicolori griglie art déco, ma che rischiano, alla fine, di rivelarsi per quello che sono: soffici gabbie del pensiero.

 

 

La Ville-cinémathèque

 

Per un vero parigino, la settimana comincia il mercoledì. In questo giorno della settimana escono i settimanali su cui si perde tanto tempo: L’officiel des spectacles, Pariscope, le guide degli spettacoli ed eventi della città.

        Anche nelle altre metropoli esistono periodici preziosi per sapere dove andare, il più famoso è Time Out di Londra e New York. Ma la lettura mercolediana dell’elenco di quello che offre Parigi è un culto inaggirabile se si vuole “vivere la città”.

        Parigi è la città con più cinema al mondo, e dove certamente si proiettano più film che in qualsiasi altra metropoli. Perché Parigi è il santuario dei cinéphiles: degli eruditi, appassionati, collezionisti storico-filologici della storia del cinema. In ognuna delle Cinemathèques si proiettano in media quattro film al giorno. Ma tutta Parigi è una Cinemateca.

        Nella guida degli spettacoli sono elencati centinaia di film e spettacoli teatrali, ragion per cui spesso il mercoledì se ne va via tutto solo per leggerli. D’un tratto trovi il titolo di un film che da dieci anni cerchi di vedere, vai subito a leggere dove e quando si proietta, e scopri magari che lo si fa vedere una sola volta quella settimana, in quel dato cinema d’essai fuori mano. Di solito il film a cui dai la caccia da tempo, come il capitano Achab dava la caccia alla balena bianca, si proietta a mezzogiorno, non so perché. Midi a Parigi non scatena il demone meridiano che perseguitava i monaci nel Medioevo: titilla la tua curiosa fedeltà alla rarità cinematografica.

Il cinema d’essai è di solito una saletta confortevole e minuscola, dove magari vedrai il film raro assieme ad altre tre o quattro persone molto silenziose. Ci si va spesso da soli, come un tempo si andavano a vedere film porno. Sembra una proiezione privata, insomma deve essere chiaro che sei là per studiare, non per divertirti. Parigi è disseminata di questi studios dove si proiettano film senegalesi o bengalesi, dell’epoca del muto o del secondo dopoguerra, classici dell’avanguardia degli anni 20 o 60, e opere rare dei maestri del cinema asiatico: luoghi dove si consuma il culto aristocratico, struggente, della Storia del Cinema. E’ stupefacente che la diffusione delle cassette-video e dei DVD, e la possibilità di scaricare film da internet, non abbia ancora ucciso questo rito così parigino del cinéma d’essai; rito felpato che intimizza l’atto pubblico e corale della proiezione cinematografica. Anche in questo Parigi resiste.

 

        Per amore di contraddizione logica, gli abitanti della Città Luce adorano l’oscurità mefitica degli égouts, le vecchie fogne parigine. Una parte, alquanto ristretta, di queste possono essere visitate pagando un regolare biglietto, ma altre parti sono percorse e persino abitate da squatters degli intestini della città. Indubbiamente questa capitale dell’Illuminismo ha un’attrazione particolare per l’underground, da intendersi qui alla lettera. Non a caso, in questi locali del sottosuolo si aprì tempo fa una sala cinematografica clandestina, dove si proiettavano regolarmente film, per lo più appunto di genere underground. Questa trovata rivela il senso antipodico della passione parigina per le sale cinematografiche, e per film marginali, rimossi, dimenticati o inosservati: la Parigi cinematografica è la buia alcova dell’immaginario giusto sotto la superficie della clarté, luogo di culto ipnotico delle sale buie come antifrasi alla Capitale delle Luci.

 

 

Il cinema della Rivoluzione

 

Tutto sommato, Parigi non è mai stata un centro di produzione di cinema più importante di Los Angeles, Mosca o Roma. Eppure credo che oggi il fascino di Parigi sia inscindibile dall’amore – forse perverso - per il cinema. Perché appunto Parigi è la capitale della riflessione del cinema. Nel doppio senso, oggettivo e soggettivo, del genitivo del: è il luogo dove sul cinema si riflette da chi sa riflettere, e luogo dove il cinema riflette continuamente su se stesso.

        Il connubio inestricabile tra Parigi e il cinema è il vero tema del film di Bertolucci The Dreamers (2003). Qui, gli eventi parigini del maggio 68 sembrano essere un mero fondale di cartone animato per compensare il tenore claustrofilico del film. Tre ventenni, una ragazza e due ragazzi (di cui uno è il gemello di lei), si dedicano a vari giochi erotici e a quiz sul cinema chiusi in un appartamento parigino pieno di vecchi libri e di vini invecchiati. Qui il regista riprende un tema che gli riuscì benissimo in Last Tango in Paris (1973): quello dell’americano spaesato a Parigi. Uno dei tre protagonisti, Matthew, è difatti uno studente californiano, faccia da ragazzo perbene ottimista e un po’ imbranato secondo il cliché, catapultato nel bel mezzo di un nido lussurioso emblematico della décadence europea. Sia in Last Tango che in The Dreamers un americano si imbatte in una fatale ragazza parigina. Ormai nel nostro immaginario cinematizzato, quando pensiamo all’americano in volontario esilio a Parigi non pensiamo più a Henry Miller od a Hemingway, ma a Marlon Brando che, vestito di un grigio cappottino, si aggira solo per una città un po’ fatiscente.

Il Viaggio a Parigi è tutt’oggi un momento obbligato della formazione del giovane intellettuale US, come il Grand Tour, il pellegrinaggio in Italia, era nell’Ottocento un momento fondamentale della formazione del giovane colto nordeuropeo. Ogni yankee è affascinato e/o atterrito dalla cultura parigina, che secondo lui sintetizza quella euro-continentale in toto, con le sue seduzioni e obbrobri. Mi chiedo se il mito di Parigi – da Toulouse-Lautrec a Derrida, dal Moulin Rouge alle sfilate di moda - non sia in fondo tutta un’invenzione americana. E The Dreamers offre ai giovani americani in vena di aprirsi al mondo un modello turistico da favola: soggiorno in casa di intellettuali francesi, partecipazione a perversioni e incesti alla Bataille, contorno barricadero e tentativo romantico di suicidio di gruppo.

        Eppure, a quasi tutti il film appare anche un’interpretazione del Maggio 68. Si dà il caso che chi scrive avesse all’epoca proprio l’età dei protagonisti, era anche lui studente a Parigi e ha vissuto da vicino tutto quel periodo. Non passai il maggio, come Matthew, chiuso in un appartamento a scopare con due gemelli: trovai anche il tempo di occupare la Sorbona, di partecipare alle manifestazioni, e di farmi picchiare di santa ragione dalla polizia.   Eppure molti che vissero quei giorni si riconoscono in quel trio del film, anche se costoro a stento paiono accorgersi che in Francia stia succedendo qualcosa. Si riconoscono in quel trio per due aspetti: da una parte per l’esibizionismo del godimento così tipico della gioventù dell’epoca, dall’altra per il culto della storia del cinema.

Esibizionismo del godimento. Quando nel 1969 Jacques Lacan fu invitato a parlare agli studenti scalmanati dell’università di Vincennes, allora quartier generale della cultura alternativa, fu contestato – com’era di rigore all’epoca – da alcuni di loro. Lacan reagì dicendo che loro stessi, senza rendersene conto, funzionavano all’interno del regime che credevano di combattere: “Il regime vi mostra. E dice – Guardateli godere.” Oggi pensiamo che “il regime” sia soprattutto il sistema dei media: questi danno grande spazio alle rivolte giovanili – a quelle del 1968 come poi alle prodezze dei ragazzi maghrebini delle banlieues nel 2004. Le esaltano come godimenti da cui l’average man è escluso, entusiasmi dionisiaci di una minoranza privilegiata o di una feccia sfrenata che spavaldamente succhiano e bruciano la propria gioventù. All’epoca, Parigi si pose come palcoscenico del nuovo godimento.

Culto della storia del cinema. La realtà “di sogno” che vivono quei tre ragazzi appare la prosecuzione di film già visti: la loro vita – ma anche la febbre politica di quei giorni – è un Grand Spectacle cinematografico. E in effetti il Maggio 68 fu anche la messa in scena – tanto più riuscita che nessun regista c’era dietro – di una sceneggiatura che un’intera generazione stava elaborando, succhiando film, romanzi, saggi e musica pop.

La trasgressione che nel ‘68 veramente contò fu quella che in qualche modo ogni sogno realizza: l’abbattimento della barriera tra immaginario e realtà.

        Quando nel 68 si passava la notte alla Sorbona su brande o materassini di plastica bevendo pinard (vino rosso comune) e facendosi canne, per smaltire l’eccitazione non si parlava tanto di politica: ma di cinema, teatro e letteratura. Tra un’assemblea e una manifestazione, si trovava allora sempre il tempo per andare a vedere uno dei tanti filmini, vecchi o nuovissimi, che il Quartiere Latino allora come oggi offre ai cine-dipendenti. E’ incomprensibile il Maggio senza questo Impero dei sensi cinematografici.

        Non deve stupire, per tutto l’Ottocento e fino a buona parte del Novecento Parigi è stata quella che oggi sono piuttosto New York o Hollywood: la capitale dell’immaginario occidentale. Palcoscenico per le bohèmes e trampolino di lancio delle avanguardie. Parigi è ancora intrisa, fin nel suo midollo, dei fasti di questa spettacolarità.

 

 



    [1]Alan Sokal & Jean Bricmont, Impostures intellectuelles, Odile Jacob, Paris 1997. Questo pamphlet alquanto superficiale cerca di screditare tutti gli autori parigini importanti degli ultimi decenni mostrando che quando parlano di cose scientifiche non sanno quello di cui stanno parlando. Questo libretto è diventato nei paesi anglofoni una bandiera per tutti coloro che, per una ragione o per l’altra, detestano tendenze e autori post-moderni at home.

 

[2] Conversazione pubblicata in inglese in Lyotard, “Resistances. A Conversation”, Journal of European Psychoanalysis, 2, Fall 1995-Winter 1996, pp. 11-20; in http://www.psychomedia.it/jep/number2/lyotard.htm

 

[3] J. Derrida, Résistances – de la psychanalyse, Galilée, Paris 1996.

 

[4] J. Bové è il più popolare contestatore alter-mondialiste (anti-global o no global come diciamo noi) in Francia.

[5] J. Derrida, Fichus, Galilée, Paris 2002.

 

[6] Scritta nel 1951.

 

[7]Tombés du ciel (1993) di Philippe Loiret.

 

[8] Questa cattiva salute mentale è stata quantificata da un’inchiesta epidemiologica – tra 1999 e 2003 – sulle sofferenze mentali dei francesi sopra i 18 anni. Questa “Santé mentale en population générale”, resa pubblica nel 2004, mostra che l’11% dei francesi interrogati ha conosciuto un episodio depressivo recente, mentre il 12,8% dichiara di soffrire di ansia generalizzata. Cfr. Cécile Prieur, “Une enquête décrit l’ampleur des troubles psychiques en France”, Le Monde, 24-24 octobre 2004, p. 6.

 

[9] Questo è diventato vero anche per l’Italia, a partire dal 1994, con la cosiddetta Seconda Repubblica. A ogni tornata elettorale, vince la coalizione prima all’opposizione.

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