Flussi di Sergio Benvenuto

L’analista dis-formatore29/mag/2024


 

Sergio Benvenuto

 

Pubblicato in: Rivista Italiana di Gruppoanalisi, vol. XXI, n. 1, 2007, pp. 127-139.

 

         Non posso parlare della formazione senza tener conto del mio ruolo nella SGAI, e senza problematizzarlo. Mi scuso quindi se inizierò parlando di me.

 

1. Devo a Fabrizio e a Diego Napolitani il mio essere nella Sgai. Di Fabrizio sono stato paziente per cinque anni in un gruppo, e poi anche amico. Diego, negli anni 70, mi ha insegnato il mestiere di analista e psicoterapeuta, prima alla Comunità Omega poi nel Consultorio con lo stesso nome. Da allora sono rimasto suo amico. E’ stato lui a proporre alla SGAI la mia presenza. E anch’io, d’altro canto, ho accettato perché c’era Diego. 

In seguito, certo, ho avuto modo di apprezzare e di diventare amico di altre persone in SGAI. Eppure, lo dico francamente, non resterei se non ci fosse Diego. E questo a dispetto di tutte le differenze o divergenze che mi separano da lui.

Ora, quel che apprezzo soprattutto di Diego è una certa sua ansia di fondo, un’irrequietezza che, ci scommetto, finirà solo con la fine della sua vita. Un pungolo demonico – immagino quanto scomodo per chi gli sta vicino – lo spinge a rinnovarsi continuamente, ad aprirsi a nuove idee, approcci, persone, correnti. Diego non si placa mai in una dottrina enunciata una volta per tutte. Ad esempio, apprezzo particolarmente la sua apertura alle ricerche che si rifanno alla teoria del caos e della complessità. E, poi, a certe ricerche neuroscientifiche di punta, come quelle di Rizzolatti e Gallese. Quando parlo di queste teorie con analisti di altre scuole, la risposta che di solito mi arriva è “Bateson, Mandelbroot, Morin, Varela.... tutte cose per psicoterapisti sistemico-relazionali!”. Diego ha capito, invece, che anche la psicoanalisi deve confrontarsi con queste ricerche, la cui matrice è squisitamente matematica. Ha capito che una pratica così difficile da definire come la nostra deve confrontarsi con la ratio matematica e le scienze cognitive.

 

2.  Eppure tutti sanno che non sono un napoletaniano. Lui è stato tra i miei maestri, ma ne ho avuti anche altri. In psicoanalisi, ad esempio, Jacques Lacan è stato un mio maestro teorico; Elvio Fachinelli è stato tra i miei maestri clinici, oltre che caro amico per tanti anni. Jean Laplanche mi ha insegnato altre cose, soprattutto in occasione della preparazione del mio dottorato con lui a Parigi (mai terminato). Per non parlare poi dei miei maestri filosofici – mio padre, Heidegger, Wittgenstein, Foucault, Feyerabend, Rorty, ecc. Una ridda di maestri, troppi. Da qui una mia certa inpresentabilità. I miei maestri, con cui ancora dialogo anche se sono morti, coabitano dentro la mia mente ma certo non in modo pacifico e armonico, come i Lari e i Penati che, in un racconto di Italo Calvino, litigano all’interno della domus. I miei maestri non se ne stanno tranquilli, mi fanno presente la loro presenza, mi aizzano e mi snervano. La mia mente resta tumultuosa, a un’età in cui ci si aspetta la pace, e non solo dei sensi.

         Tra questi miei maestri comunque non c’è stato Bion. E qui cominciano le mie différances – di formazione? storiche? caratteriali? – con Diego, che da tempo ha eletto Bion suo mentore. Chi è un maestro per qualcuno? Molto semplicemente, come si dice al Sud, “un autore che ti fa arrapare!” Bion non mi fa proprio “arrapà”. E quando devo leggerlo, proibendomi di far uso di amfetamine o cocaina, mi tracanno varie tazze di caffé per tenermi sveglio.  Come restare allora nella SGAI, soprattutto nelle sue sezioni nordiche, e svolgere in essa persino funzioni di responsabilità, senza ammirare Bion? Sarebbe un po’ come essere cittadino italiano senza parlare la lingua italiana.

         Credo che il rapporto tra la SGAI e me sia un corollario del rapporto che, da tempo, si è stabilito tra Diego e me. Un rapporto shakespeariano. In effetti – ne converrete – Diego è “il re” della SGAI, e io allora sono il suo fool

         Il fool era una specie di buffone di corte che, rispetto a tutti gli altri cortigiani e sudditi, godeva di uno strano privilegio: al re poteva dire peste e corna. Poteva ricordargli di fronte a tutti i suoi errori, cecità, follie. Il re, dopo tutto, lo teneva con sé proprio per questo: per farsi schernire. Per farsi mettere un po’ in crisi.

         Ma non bisogna pensare che, in Shakespeare, il re sia matto e il fool sia saggio - lungi da questo! Diciamo piuttosto che sono matti tutti e due, anche se in modo diverso. Il loro è un gioco delle parti - che di solito, ahimè, non salva né l’uno né l’altro da un triste destino. Così, quando Re Lear, abbandonato e tradito da tutti, si ritrova solo nella tempesta a urlare nella foresta contro il suo fato, tra i pochi che gli restano accanto c’è proprio il fool: per continuare a ricordargli che la follia clinica in cui è caduto non è altro che la derivata della follia di quando passava per saggio e potente. Il fool soffre culo-e-camicia con il potente che denuncia. La denuncia del potere e dei suoi limiti è inscindibile da questo potere. E così faccio la strana fantasia che, se Diego si ritrovasse solo – Dio ce ne scampi! - alla fine finirebbe col trovarsi a fianco chi? Quel rompicoglione di Sergio Benvenuto! 

         Ma allora, se essere “rompi” è la mia aulica funzione nella SGAI, non mi tirerò indietro. Ci proverò anche qui.

 

3. Cosa pensare dell’idea con cui Diego plasma la SGAI, e cioè che la psicoanalisi (in particolare quella che si fa alla SGAI) è fondamentalmente un’attività di formazione, ovvero pedagogia o psicagogia? 

         Diego opta per un’idea sostanzialmente pedagogica della psicoanalisi come antidoto a una visione terapeutica medicalistica della stessa. Diego rigetta l’idea che la psicoanalisi sia essenzialmente una psicoterapia, ovvero una cura medica dell’anima. Non a caso c’è la tendenza a non chiamare più i pazienti con questo nome – io ad esempio uso il termine, di largo uso in Francia, analizzanti (dato che i pazienti sono i soggetti analiticamente più attivi). Le psicoterapie cognitive invece, nella misura in cui concepiscono la mente come un oggetto specifico (anche se mentale), sono le candidate ideali a ereditare l’ideale medicalistico che un tempo era della psicoanalisi (o meglio, che essa spesso ha creduto essere tale). Un’analisi dei modelli medici ci porterebbe molto lontano. Mi limito a dire qui che però la medicina oggi non è solo quella classica, terapeutica, della restitutio ad integrum. Non mi riferisco tanto alle medicine alternative (come acupuntura, omeopatia, ayurvedica, ecc.), quanto ad approcci oggi molto dibattuti nell’OMS e nei corsi di filosofia della medicina in vari paesi: c’è una eco-medicina, ad esempio, una medicina preventiva, medicine olistiche, una medicina riabilitativa, ecc. Qualcuno, ad esempio, legge un’affinità tra psicoanalisi e medicina riabilitativa. 

         Da quando esiste, la psicoanalisi è stata sempre confrontata a pratiche in qualche modo affini, contigue o a essa commensurabili: ovvero alla medicina, alla scienza, all’educazione, alla politica, alle arti. Alcuni, per denigrarla, la assimilano piuttosto alla religione – quante volte avete sentito dire che “l’analisi è una forma laica di confessione cattolica?” Quasi ogni corrente psicoanalitica elegge una di queste “forme di vita” come chiave della psicoanalisi: in alcune correnti prevale il modello delle scienze psicologiche evolutive, in alcune prevale il modello medico, in altre quello politico, in altre quello artistico, ecc. Diego preferisce quello educativo. La mossa potrebbe essere strategicamente vincente. In un’epoca di Evidence Based Medecine, in cui la gente è sempre meno convinta dell’efficacia terapeutica (medica) della psicoanalisi, riproporla come educativamente performante potrebbe essere convincente, un buon contropiede.

         Comunque la psicoanalisi, in tutte le sue forme e varianti, è essenzialmente impura. La “pura psicoanalisi” che vagheggiano alcuni sarebbe una psicoanalisi che non sia né medicina, né arte, né scienza, né politica, né educazione, che sia solo e semplicemente psicoanalisi. Quest’esigenza mi sembra utopistica – e difatti alcuni che vi credono di fatto fanno di questa Pura Psicoanalisi una specie di religione. Inevitabilmente, essendo una pratica impura, la psicoanalisi ha aspetti medici, artistici, scientifici, politici e anche educativi. Ma possiamo dire, come dice Diego, che la formazione o educazione o psicagogia sia la sua funzione essenziale, identificante, primaria? Mi permetto di avanzare qualche dubbio.

         E’ vero, su certi analizzanti (pazienti) che se la cavano ha agito, col tempo, una sorta di processo educativo. Ma il punto è che, pur ammettendolo... non ne sono molto fiero. Non perché creda in un ideale di psicoanalisi pura, appunto, ma perché spero che la psicoanalisi non sia solo questo. Eppure mi ha sempre stupito il fatto che gli analizzanti molto spesso finiscano con l’abbracciare, anche fuori del setting analitico, modi di pensare, linguaggio e convinzioni psicoanalitiche del loro analista. Il paziente-analizzante del Self-psychologist legge Kohut, l’analizzante del lacaniano lacaneggia, l’analizzante del bioniano parla di elementi alfa e beta, ecc. Nella mia pratica cerco (non so se ci riesco, ma cerco) di bandire completamente ogni termine metapsicologico, non introduco termini diversi da quelli che mi porta l’analizzante. Ma mi rendo conto che la maggior parte degli analisti formano nel senso peggiore del termine: catechizzano. E’ questo un limite del rapporto analitico – il suo potere di conversione – che non è sfuggito ad alcuni illustri critici della psicoanalisi (come Claude Lévi-Strauss). Un Grande Inquisitore della psicoanalisi, Frederick Crews, dice: “Chi completa una terapia freudiana non diventa un paziente guarito: diventa freudiano. Se ne va in giro come un vampiro a procacciare altri freudiani”. Ahimé, questo vampirismo pedagogico si consuma in diverse scuole.

         In verità Diego ha un’immagine nobile della formazione come Bildung: l’analisi non è una pedagogia di tipo ottocentesco, quella del precettore che urlava dalla cattedra e picchiava gli allievi sulle dita con la bacchetta. Evidentemente Diego pensa a un’educazione illuminata, modernista, in cui non solo l’allievo ma anche il maestro impara – un’educazione sul versante Montessori. L’educazione già teorizzata dai Romantici e dai filosofi idealisti; ricordo che Giovanni Gentile diceva proprio questo “il rapporto educativo coinvolge anche l’educatore, a cui gli educandi insegnano comunque il mestiere di educare.” Ma appunto, l’analisi, a parte i suoi effetti formativi, è essenzialmente un’educazione, foss’anche montessoriana o gentiliana?

 

 

4. Certamente optare per l’idea che la psicoanalisi sia essenzialmente formazione, oppure addirittura una conversione (metanoia) nel senso proposto dall’apostolo Paolo, risponde a un’esigenza che ci agita un po’ tutti: cercare di spiegare il mistero del cambiamento attraverso l’analisi.  Dopo mesi o anni, alcuni analizzanti cambiano, stanno meglio, sono più sereni. Si tratta di un mistero in quanto non sappiamo veramente che cosa abbia fatto accadere ciò. Certo, ogni scuola elabora le sue ipotesi sul perché e sul come l’analizzante cambia nel percorso analitico, ma la pluralità delle ipotesi manifesta l’assenza di consenso. Inoltre, quasi nessun analista è talmente fazioso da pretendere che solo lui e quelli della sua scuola “curano” o “trasformano”: di fatto, analisti e psicoterapeuti degli indirizzi più diversi ottengono effetti positivi. Il difficile è spiegare quindi non solo il perché del cambiamento dei propri analizzanti, ma anche quello dei pazienti degli altri. Inoltre, i successi non sembrano correlati a un particolare indirizzo psicoanalitico ma piuttosto a qualità personali dei singoli analisti – alcuni, diciamo, sono “più bravi” di altri. Ma in che cosa consiste, appunto, l’essere “più bravi”? Questa qualità non pare essere effetto del livello di cultura e di intelligenza degli analisti: dobbiamo constatare che persone il cui livello di sapere psicoanalitico e di QI non è tra i più alti, di fatto sortiscono effetti positivi. Cosa è accaduto? Il mistero resta fitto.

         Ma davvero risolviamo l’enigma optando drasticamente per l’analisi come Bildung, formazione? Di fatto, come descrivere in modo preciso e rigoroso questa formazione o trasformazione? C’è comunque qualcosa in un certo linguaggio “formativista” che non mi convince. Esso tende spesso a essere auto-congratulatorio, a dare insomma un’immagine un po’ troppo consolante, idilliaca, idealizzata di quel che accade in analisi. Ci sono, è vero, alcuni casi quasi portentosi: gente che era entrata in analisi in un modo e poi, dopo qualche anno, sembra irriconoscibile. Ma dobbiamo ammettere, umilmente, che di solito non è così. La gente che va in analisi è davvero trasformata? Avrei qualche dubbio. I loro parenti e compagni lo sanno bene: anche quando l’analisi ha funzionato, Tizio e Caio è rimasto fondamentalmente lo stesso. Certo non escono dall’analisi così come ci sono entrati, ma parlare pomposamente, al seguito di Bion, di “trasformazioni” non è spingere sopra le righe qualcosa che invece resta più terra terra?

 

5. A questo punto devo citare due altri miei maestri, Lacan e Fachinelli. Racconto due loro interventi che sembrano riferirsi a cose diverse, ma che riportano a termini più prosaici la lirica giubilante della Trasformazione o Metanoia. 

         Negli anni 70 partecipai a un incontro a Milano tra Lacan e i suoi primi seguaci italiani, avvenuto all’istituto francese di cultura. I più erano giovani, neofiti, come me. Uno di loro se ne uscì con una specie di arringa dai toni accesi, celebrando l’analisi come “sovversione del soggetto”, “mutazione profonda della soggettività”, e simili. Lacan calmò presto questi ardori e disse, molto semplicemente, che l’analisi è solo un rapièçage, insomma una rattoppatura. All’epoca erano alla moda giacche che portavano ai gomiti delle toppe, anche se eleganti, ben tagliate, di bei colori. “Ecco – disse Lacan – l’analisi è proprio come questi gomiti rattoppati, magari firmati da stilisti, ma che pur sempre coprono una strappatura o scucitura che non potrà mai essere ricucita.” Per Lacan, difatti, alla fonte della sofferenza psichica c’è come una sorta di trauma primordiale, di rottura precoce e acuta del proprio essere, che per il resto della vita ciascuno cerca di suturare. L’analisi, più che “trasformare”, rappezza una crepa che, nel fondo, resterà sempre tale.

         Questo dal punto di vista del paziente. Dal punto di vista dell’analista, anche qui certi peana sulla sua funzione andrebbero calmati. Sempre negli anni 70, Elvio Fachinelli lesse a un congresso internazionale a Milano un breve paper, “Il danaro dell’analista”. Lo abbiamo di recente ripubblicato in inglese sulla rivista che dirigo, Journal of European Psychoanalysis e di cui la SGAI è redattrice (anche se quasi nessuno in SGAI lo sa). Fachinelli faceva notare che, prima o poi, in un’analisi emerge la fantasia del proprio analista, uomo o donna che sia, come prostituta. Dopo tutto, l’analista non è qualcuno che viene pagato, a tempo o a cottimo, per dare libero corso a qualcosa dell’ordine del proprio Eros?  Mi ha colpito questo gesto di Fachinelli che assomiglia a quello classico del bambino che esclama “il re è nudo!”. 

         Anche in questo convegno abbiamo sentito interventi in cui si dà per scontato che la relazione analista-analizzante è asimmetrica perché ovviamente il potere sarebbe tutto dalla parte dell’analista. Ma mi chiedo se questo vedere l’analista in un ruolo up, dominante, non sia effetto di una svista a funzione consolatoria.  L’analista sembra avere lui in mano la situazione ma, come ricordava Fachinelli, “la puttana”, ovvero il povero prezzolato, il down, è lui. Quasi insinuava che l’analista deve avere un certo penchant masochista per funzionare da analista. Proprio perché paga e decide ogni volta di tornare, l’one-up è invece il paziente – lui ha il coltello dalla parte del manico. E se poi questo paziente è un’isterica, se ne accorge ben presto e se ne serve spesso molto bene, del coltello. E’ vero che molto spesso l’analizzante compiace l’analista, quel poveraccio, gli porta i sogni che quello vuole sentire, gli parla di sé come l’analista vorrebbe che lui ne parlasse, incensa il suo analista rassicurandolo che lui è bravissimo ecc. – ma dietro questi fumi di compiacenza è il potere dell’analizzante che si nasconde. 

         “Perché, dopo mesi o anni, questo paziente torna ancora da me?” talvolta ci si chiede. Perché si sta trasformando e sta meglio? Non sempre. Di fatto certe persone tornano, per anni, semplicemente perché il rapporto analitico li fa godere. Non a caso alcuni hanno denunciato l’analisi come una dipendenza psichica: infatti, si dipende da un godimento. Molti analizzanti dipendono da quella “prostituta” dell’analista che li fa godere. E’ il loro angolo di godimento privatissimo e segreto. 

         Ma anche l’analista dipende dai suoi clienti. Soprattutto se essere analista è l’unica professione che gli dà il pane. E’ analista solo nella misura in cui degli analizzanti lo eleggono tale e lo confermano con certi risultati. E dipende anche nel senso che, molto spesso, l’analista si attacca al suo paziente, lo trattiene, non lo molla. Tutto questo è alla base del controtransfert analitico – ovvero, del fatto che l’analista non è libero come dovrebbe o vorrebbe essere. O meglio, la sua libertà deve fare i conti con questa sua inevitabile dipendenza dai suoi pazienti.

 

6. Aldilà della provocazione di Fachinelli, pochi negheranno che l’analista, come la puttana, lavora anch’egli con il proprio corpo. Un certo post-kleinismo ha mentalizzato a dismisura sia i soggetti che la psicoanalisi: tutto è pensiero, mente che si trasforma, funzione alfa che trasforma gli elementi beta impuri nel puro oro degli elementi alfa, ecc. ecc. Questa mentalizzazione crescente della psicoanalisi – sull’onda del cognitivismo – ha fatto perdere la carica di verità e di sfida che la psicoanalisi aveva avuto ai suoi inizi: evidenziare invece, dietro le performance mentali, l’efficienza e la forza delle pulsioni, del corpo inteso come carne (“i piaceri della carne”), Leib come corpo che soffre e gode, cosa irriducibile alle rappresentazioni mentali che si torce e si contorce. 

         In verità, anche altri dicono che l’analista opera come corpo, in particolare materno. Da qui l’idea della holding: l’analista, anche se non fisicamente, tiene e contiene. Abbraccia, tiene in braccio, porta sul suo grembo l’analizzante. E in effetti, ben presto l’analizzante si aggrappa all’analista come un bimbo alle sottane della mamma, torna in seduta per mettersi nella cuccia transferale e farsi coccolare un po’ da un analista benevolo che lo accoglie e lo ascolta. L’analisi fa godere perché ridà spazio e legittimità al bambino o alla bambina che strilla in ogni adulto, al bambino spaurito e angosciato in cerca di protezione e di coccole.

         Ma l’analista lavora col proprio corpo in un senso anche non metaforico. Egli, semplicemente, è là. Certo sta là per ascoltare – anche se spesso in modo attonito – ma la costanza e la stabilità del setting, il suo farsi trovare sempre allo stesso posto, lo stesso giorno alla stessa ora, sempre disposto ad ascoltare qualsiasi cosa il soggetto gli dica, svolgono un ruolo fondamentale.

         Giovanni Zapparoli ha detto: “mettete uno due-tre volte alla settimana solo sotto un lampione, per un paio d’anni: qualcosa succederà”. E’ vero che, come il lampione, si suppone che l’analista illumini; ma, dopo tutto, è la sua stupida stabilità che conta. Per questo, l’analista non deve essere troppo raffinato, troppo intelligente. Un training serio dovrebbe spingere gli allievi più intelligenti, brillanti e sagaci ad attingere alla loro riserva, alquanto rimossa, di stupidità. La stupidità del corpo dell’analista svolge un ruolo essenziale, non va sprecata con interpretazioni troppo ingegnose. L’analista innanzitutto è uno che non si schioda dalla sua poltrona: come gli stupidi astri nel cielo, lo si ritrova sempre là dove ci si aspetta di trovarlo.

         Una volta chiesero non ricordo più a quale grande generale chi fosse il buon soldato. E il generale rispose: “quello che, qualsiasi cosa accada, non scappa via”. Appunto, così è il buon analista: quello che non scappa via. Sta là, nel suo studio, come una roccia che i flutti e le tempeste della vita non sgretoleranno. Attorno a questa roccia il soggetto è spinto a “trasformarsi”, cioè a ristrutturare il proprio rapporto al mondo.

         L’analista è un corpo erratico che si ritrova sempre là, ma non solo corpo a cui aggrapparsi: è corpo e mente che si sottrae alla relazione prestabilita, che sguscia via dalle mani e dalle parole come un’anguilla, presenza sempre un po’ altrove. Da una parte, come corpo, l’analista si fa trovare sempre al posto e all’ora prestabilite; dall’altra, come soggetto, non si fa mai trovare, come nel judo, là dove lo si aspetta e lo si prevede.

         Il paragone dell’analista con il soldato potrà shockare alcuni. Eppure quando parliamo di virtù, anche dell’analista, prima o poi è con la virtù militare che ci si confronta. Quando gli Antichi parlavano di areté, virtù, la intendevano soprattutto come capacità di Ares, come coraggio militare, andreia. Anche i latini con virtus intendevano soprattutto la virtù marziale. Prima che col cristianesimo la massima virtù diventasse amare il proprio prossimo, il coraggio bellico era il paradigma di ogni altra virtù. Ora certo l’analista non combatte in senso fisico, ma una cosa gli si chiede soprattutto: di avere coraggio. Che non scappi via – magari attraverso interpretazioni di routine o di maniera – di fronte agli orrori dell’inconscio, alle ferite insanabili degli esseri umani; di fronte alla loro sofferosi, direi, piuttosto che sofferite. Come al chirurgo si chiede che non svenga se vede del sangue e che accetti di sbudellare i pazienti, analogamente all’analista bisogna chiedere il coraggio di sopportare quel che per l’altro è insopportabile. Insomma, è importante che l’analista sia un duro. In questo, anzi, l’analogia della psicoanalisi con la medicina andrebbe in parte rivalutata: sia l’analista che il medico devono esser duri.

         Questo contrasta con la maniera oggi prevalente, che tende invece ad avallare un’immagine dell’analista molle, perturbato e commosso, quello che Pier Francesco Galli chiama “l’analista in mutande”, che risponde emotivamente al paziente con tutti i palpiti e i patemi del cuore. Questo analista empatico e compassionevole un po’ crepuscolare ricorda più un mondo pucciniano o gozzaniano, di signore ottocentesche dal deliquio facile, che l’intrepido esploratore delle voragini dell’inconscio. Nell’epoca dello psicoterapeuta-massa, pronto a curare masse fameliche di cura dell’anima, all’analista non si può chiedere troppo.

         Gli effetti che l’analista produce restano un mistero. Un po’ come il mistero che plana sul romanzo di Arthur Clarke 2001: A Space Odissey, da cui S. Kubrick trasse un film famoso. Vediamo qui degli ominidi prima che evolvessero in homo sapiens sapiens, quando vivevano come scimmie. D’un tratto, costoro vedono uno strano oggetto: un blocco di metallo a forma regolare, rettangolare, piantato nella terra. Monolite dalla forma inusitata, incomprensibile, bizzarra. Una volta confrontatisi a questo oggetto misterioso e inutile, l’umanità comincia la sua rapida e frenetica evoluzione tecno-scientifica fino alle astronavi di oggi.... Ma l’analista non è un po’ come questo oggetto forse caduto dal cielo? E’ importante solo quel che lui pensa, dice, crede, ecc., o non è altrettanto importante il suo esser-ci, il suo star là, come un oggetto estraneo e incomprensibile? Non è questo suo resistere al transfert – il suo non indulgere al controtransfert – ciò che in fin dei conti costringe l’analizzante, ma senza violenza alcuna, a trovare un nuovo sentiero [interrotto]? Non è egli come l’oggetto misterioso di Odissea nello spazio? Come la prostituta, l’analista si fa pagare per offrire un piacere: ma questo non consiste nella consumazione immediata che soddisfa, in una cura rapida e trionfale, ma in un percorso al termine del quale, oltre il quale, qualcosa brilla e attrae. 

 

7. Certo l’analisi forma e trasforma, o ri-forma, dà una nuova forma. Talvolta anche de-forma: conosco analizzanti che dopo anni appaiono veramente deformati da un’analisi “talebana”, così come i piedini delle donnine cinesi di un tempo erano deformati da calzature troppo stringenti. Ma prima di tutto un analista esercita una forza dis-formativa: il paziente arriva con le sue forme precostitutite (“corazze” le chiamava W. Reich) e diventa analizzante nella misura in cui si disforma, perde forma, quasi si disgrega. Credo che l’analisi non dia prima di tutto forma e coerenza ma al contrario sfaldi, buchi il tessuto spesso e coerente del Sé.

         In generale, questo potere formatore o riformatore o disformatore non deve accecarci su una certa impotenza, e innocenza, dell'analista. Ad esempio, anche se l'analista pensa di essere un libertino deleuziano fringe (marginale) dannunziano e sovversivo, di fatto, molto spesso, la "formazione" per i suoi pazienti si risolve, per questi, nello sposarsi, figliare, trovare un lavoro ben remunerato, ecc. Insomma, nel normalizzarsi nel senso comune del termine: rientrare nella norma. Così, molto spesso, gli analisti predicano Rivoluzione, ma razzolano Conservazione. E non perché lo vogliano: perché ogni essere umano – o meglio, il suo Io - propende spontaneamente, irresistibilmente, al benessere conformista.

         Un mio amico, psicoanalista di successo in un’importante metropoli europea, ha fatto per vent’anni un’analisi a Parigi con un analista lacaniano molto noto: mi parla con grande soddisfazione di questa sua (lunga) esperienza, che lo avrebbe convertito a una forma di vita del tutto diversa da quella della sua gioventù. Il suo analista è noto per la sua purezza: l’analisi non ha nulla a che vedere con l’adattamento del soggetto al gruppo o al contesto, è un’esperienza incommensurabile con ogni esigenza di conformità a norme e normalità sociali. Prima il mio amico era un avventuriero libertino, viaggiava per il mondo seducendo belle ragazze bionde, si faceva canne e alzava il gomito, ecc. E ora, invece? “Da tanti anni ho una moglie che amo e a cui sono fedele; ho due bei figli; sono l’analista più affermato della mia città, guadagno bene, ho vari allievi, pubblico libri e riviste, conduco una vita serena”. Ma allora, l’analisi di fatto non l’ha aiutato a entrare in una vita conforme agli standard sociali e ambientali? Insomma, non ha avuto un effetto rieducativo nel senso più convenzionale, nel senso in cui si dice che uno “ha avuto una gioventù godereccia e scapestrata, e poi ha messo la testa a posto”? L’analisi di fatto non ha portato a un’affermazione sociale che qualunque conservatore considererebbe auspicabile?    Alcuni diranno: perché in tanti casi, dietro la scorza della Rivoluzione retorica o parolaia, molti analisti hanno una visione segretamente conservatrice della vita. Può darsi, forse in certi casi è proprio così. Eppure sospetto che se pur l'analisi è Bildung, formazione, l'analista NON è il vero formatore. Per lo più il soggetto stesso si serve del processo dis-formativo dell'analisi per trovare lui stesso, spontaneamente, un equilibrio, una strutturazione, una gravitazione per lui o lei ottimale, che alcuni taccerebbero di conformismo (senza dare a questa parola la minima connotazione negativa; aborrisco come irresponsabile il proporre l'eccentricità come modello per chiunque: ben poche persone si possono permettere il lusso di vivere come Oscar Wilde, Andy Warhol o Pier Paolo Pasolini).?      In questo, non è che la trasmissione analista-analizzanti sia tanto diversa da quella genitori-figli: il padre vorrebbe che il figlio diventasse filosofo, e invece questi finisce col fare il muratore. Allora il padre, inconsapevolmente, l'ha formato come muratore? A questa domanda da secoli si cercano risposte. Il punto è che, come la teoria dei sistemi e della complessità ci insegna, i processi umani - anche formativi - non sono mai lineari. Sono caotici. L’ordine che emerge in una vita non era prefigurato dalla strategia analitica.

 

8. Oggi, si dice, la psicoanalisi è in crisi perché altre psicoterapie e la psicofarmacologia sono in grado di curare in tempi più brevi, in modo più mirato, a costi minori. E’ una questione di rapporto qualità-prezzo: oggi che altre psicoterapie forniscono servizi analoghi con spese minori, la psicoanalisi risulta poco conveniente, insomma fuori mercato. Molti si aspettano che la psicoanalisi abbia i giorni contati. 

         E’ vero, nella variegata galassia di psicologi, psicoterapeuti, guaritori, consulenti spirituali, psico-pedagogisti, ecc., la psicoanalisi occupa quella che oggi si dice una nicchia. Sarebbe interessante sapere, sociologicamente, chi si rannicchia in questa nicchia. Si scrivono tanti e bellissimi libri di storia della psicoanalisi, ma quasi nulla di serio sulla sociologia e l’economia della psicoanalisi – tanto sul suo passato, quasi nulla sul suo presente concreto. Forse perché si pensa ormai che la psicoanalisi sia solo una gloria del passato? Suppongo che vadano in analisi e optino per la carriera analitica membri delle classi al vertice – non dico necessariamente persone che appartengono ai ceti più ricchi, ma certo persone che appartengono ai ceti più colti, più cosmopolitici, più.... Insomma, la psicoanalisi attrae ancora un’aristocrazia, ovvero, coloro che, per una ragione o per l’altra, possiamo sociologicamente considerare i migliori. Quelli cioè che osano andare più in fondo sulla strada della cura sui, “cura di sé”. Ma proprio per questa ragione, forse, la psicoanalisi è in crisi solo in apparenza: l’essere nicchia per un’aristocrazia potrebbe essere la sua subdola forza. Perché è vero che gli psicoterapeuti-massa – più efficienti, più spicci, meno costosi, più vendibili, più competitivi – prolificano e si diffondono; ma sento, ogni volta che criticano o deridono la psicoanalisi come “un modo di farsi seghe mentali”, che in loro affiora una sorta di rabbia invidiosa. La psicoanalisi è qualcosa che loro, ahimé, non possono permettersi. E che nemmeno i loro pazienti possono permettersi.

         Anche se vituperata, la psicoanalisi continua a essere la principessa delle psicoterapie, le influenza e le condiziona in modo sottile, obliquo, inesorabile. Alla fin fine, essa polarizza il campo delle cure dell’anima.

         Se consideriamo quindi la psicoanalisi anche come una formazione – sulla scia della proposta di Napolitani – allora direi che essa forma come formano i gesuiti. Non ho mai incontrato Dio, ma questa mia miscredenza non mi ha mai impedito di ammirare vari gesuiti che mi è capitato di incontrare e frequentare nel corso della mia vita.

         Al secondo e terzo liceo ebbi come professore, a Napoli, padre Casolaro. Era un gesuita noto in città soprattutto come specialista del cinema – era stato il primo in Italia a fare una Candid Camera, o Specchio segreto. Ora, in quei due anni padre Casolaro non ci ha mai parlato di religione – mai di Dio, delle prove dell’immortalità dell’anima, mai. Per due anni si parlò solo di politica, economia, e soprattutto di cinema, tema che appassionava lui quanto noi. Ci fece vedere tanti bellissimi film nel suo Cineforum, ma nessuno era di contenuto religioso – a parte Il Vangelo secondo Matteo dell’ateo e comunista Pasolini. Risultato: oggi i miei ex-compagni di scuola, rimasti comunisti atei quali essi erano all’epoca, lo vanno ancora a trovare con affetto e dicono “padre Casolaro è uno spirito davvero religioso!” Probabilmente questa sua “tattica” non convertì nessuno. Ma la cosa importante per i gesuiti è il prestigio della religione in quelle che chiamerei le aristocrazie socio-culturali. All’epoca il liceo classico era ancora un luogo riservato alle classi più dinamiche. Oggi le Loyola Universities in America (dei gesuiti) danno ampio spazio a professori gay, radical, decostruzionisti, femministe, alternativi, ecc. 

         Si dice che la psicoanalisi è spocchiosa e chic perché l’analista dice “lei torni, ma non è detto che guarirà: le prometto un’analisi, non una guarigione”. L’analista non dà quello che ci si aspetta da lui: una cura psicoterapica. Il soggetto chiede capre, e l’analista gli offre cavoli. Che futuro può avere una ”cura” del genere? Ma anche a padre Casolaro gli si chiedeva di insegnare religione, e lui invece ci faceva vedere film poco cattolici. Come padre Casolaro, che non rispondeva alla domanda di religione ma mirava a suscitarne il desiderio oltre l’orizzonte, analogamente l’analista non risponde direttamente alle domande di cura e presa in carico, ma svia lo sguardo verso il desiderio. Le risposte alle domande le lascia alle psicoterapie cognitive. 

 

 

 

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