Flussi di Sergio Benvenuto

DERRIDA O DELL' AUTODECOSTRUZIONE (2004)16/ago/2016


 

          Jacques Derrida è stato l’ultimo esemplare, finora, di una tradizione gloriosa che si prolunga da oltre due secoli: la figura dell’Autore-Francese-Odioso-ai-Benpensanti. Dal Settecento in poi, per molte generazioni, l’espressione “quei libri francesi” significava opere scandalose che facevano svenire per l’orrore le vecchie zie prudes. Un tempo gli autori proibiti erano Choderlos de Laclos e Voltaire, poi furono Baudelaire e Rimbaud, quindi Gide, Sartre, Camus, Bataille – l’ultima infornata è stata quella post-strutturalista, quindi deliqui quando si nominano Foucault, Lacan, Deleuze e Derrida. La differenza è che nell’Ottocento occorreva soccorrere con i sali le vecchie zie perché “quei libri francesi” non rispettavano i troni e gli altari, potenze dell’epoca; oggi le zie insorgono contro “questi fumosi autori francesi” perché costoro non paiono nutrire il dovuto rispetto per le potenze che oggi dirigono spiritualmente il mondo: la scienza, la tecnologia, il razionalismo. Derrida non ha mai detto nulla contro la scienza e il razionalismo, ma già il suo stile un po’ barocco, da dandy del pensiero, era sufficiente perché lo si condannasse.

          Ad esempio, cosa possono pensare le persone con la testa sulle spalle del fatto che in molti dei libri di Derrida è inserito un foglietto volante, come si fa con le Errata Corrige, che di fatto precisa e corregge quel che è detto nel libro? Oppure, in un libro come Glas in ogni pagina si intersecano più testi – Hegel, Genet, altri - ognuno con una grafica differente! La clarté anglo-americana, in partticolare, trova incomprensibili queste provocazioni da artisti d’avanguardia, non sono questi giochetti quel che ci si aspetta da un serio trattato filosofico.

 

Filosofia sfondata

 

Derrida spande un puzzo sulfureo tra tante persone perbene  soprattutto perché egli ha radicalizzato il progetto anti-metafisico della grande filosofia del Novecento – promosso da Heidegger e Wittgenstein, ma non solo. In un certo senso, Derrida è stato lo spavaldo braccio secolare di questa moderna vocazione disgregativa grazie a cui la filosofia ha cambiato fini e persino natura: la grande filosofia del Novecento si è voluta anti-fondazionalista. Per Wittgenstein la filosofia non fonda nulla, si limita a essere terapia linguistica: il filosofo non vende teorie, cura solo i crampi mentali che generano teorie. Per Heidegger, la cura dell’Essere non ci porta verso il fondamento delle cose, su cui tutto – vero, buono e bello – si reggerebbe, ma verso uno sfondamento: l’Essere [Sein] stesso è un abisso senza fondo. Ora, quel che il contribuente moderno si aspetta dai filosofi pagati dallo stato è cosa del tutto diversa: egli conta sul fatto che il filosofo, sfruttando la sua professionalità come argomentatore, fondi ciò che lo stesso contribuente desidera e in cui crede. Un tempo i filosofi erano incaricati di dimostrare prima di tutto l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, ovvero proprio le cose di cui tutti all’epoca si dicevano convinti (ma non dovevano esserlo poi tanto, dato che avevano bisogno di ricorrere ai filosofi per certificarlo). Oggi, dai filosofi ci si aspetta che fondino la razionalità della scienza, la bontà della tecnologia, e il sistema democratico liberale a cui vogliamo convertire tutto il pianeta con le buone o con le cattive. Ancora una volta, si chiede ai filosofi di rassicurarci su ciò di cui siamo già convinti (eppure qualche dubbio sottile ci rode...). Insegnanti, dentisti, giornalisti, bottegai, tutta la brava gente sia di sinistra che di destra è contenta se qualche professore pensa per loro, e garantisce loro che quello in cui credono ha la copertura filosofica adeguata, così come un assegno è adeguatamente coperto dalla banca. E’ questa funzione rassicurante che Derrida si è rifiutato di svolgere. Egli piuttosto ha gettato in faccia al suo tempo la funzione vecchia e nuova della filosofia: quella di essere una “via di levare” come diceva Michelangelo, una critica delle (cattive) filosofie che dirigono le nostre vite moderniste, piuttosto che la proposta positiva di una buona filosofia. Ma questo se lo era prefisso già Socrate, già un decostruzionista con i fiocchi. La moderna decostruzione era già nel DNA della filosofia ad Atene. Rifiutandosi di svolgere il ruolo di chi dice alla gente quel che deve credere e desiderare, Derrida si è concentrato piuttosto nel demolire i presupposti su cui crediamo che le nostre vite debbano saldamente poggiare. Un rompicoglione insomma, che forse proprio per questo ha sedotto il secolo.

 

I panni sporchi della modernità

 

          L'approccio di Derrida è chiamato decostruzionista. Ma io lo chiamerei piuttosto analitico, anche se non nel senso della filosofia analitica anglo-americana: nel senso originale di analuo, sciolgo. Derrida, che ha assorbito filosoficamente la lezione di Freud, intendeva sciogliere quel nodo che è un testo: non per semplificarlo, ma per mostrare come il nodo è costruito.

          Eppure Derrida ha sempre camminato sul filo sottile di un’ambiguità: si dà infatti il caso che uno come me lo abbia letto in modo del tutto diverso da come lo leggono tanti suoi ammiratori o epigoni. Gli autori che Derrida ha puntigliosamente decostruito non sono pensatori a lui opposti od estranei, anzi, sono i suoi maestri: Artaud e Freud, Foucault e Lacan, Marx e Nietzsche, Husserl, Heidegger e Paul de Man, tutti autori nella cui scia egli si è sempre inscritto. Insomma, quella di Derrida è stata, fondamentalmente, un’auto-decostruzione. La sua decostruzione dei suoi Maestri non è stata mai aggressiva: piuttosto un atto d’amore. Ad esempio, la sua sensibilità particolare ai temi della giustizia avrebbe dovuto metterlo a confronto con la teoria della giustizia di Rawls – vale a dire con il libro di filosofia politica in assoluto più influente nel mondo anglo-americano negli ultimi 20 anni. Eppure Derrida non ha speso una riga per decostruire la teoria di Rawls. Perché? Semplicemente, suppongo, perché non la amava. Per Derrida decostruire non significava affatto giustificare la sua distanza da ciò che gli era estraneo: significava strapparsi la pelle addosso.

Diciamo “i panni sporchi si lavano in famiglia”: le questioni scottanti tra intimi non si espongono sulla piazza. Derrida ha sempre lavato i panni filosofici sporchi della sua famiglia, ma in pubblico. Un lavaggio che ha affascinato anche chi, come me, non si sente parte della famiglia. Sulla linea della filosofia trascendentalista – di Kant, Husserl e Heidegger - si è esercitato a decostruire i suoi padri, pur senza rinnegarli. Egli ha avuto la sfacciataggine di mostrare i presupposti metafisici dei maestri che lo hanno formato alla sfida anti-metafisica, esercitando quindi una sorta di interminabile auto-ironia. Anche così Derrida riannoda con le origini socratiche della filosofia: la famosa ironia socratica non era anch’essa, prima di tutto, un’auto-ironia?

          Whitehead ha detto che tutta la filosofia europea sono note in margine ai Dialoghi di Platone. Analogamente, possiamo dire che ogni creatività filosofica riattinge all’ironia socratica: il filosofo si vanta scandalosamente del suo non-sapere, ma non perché del sapere non ne voglia sapere. Questa docta ignorantia fece meritare a Socrate la cicuta, e a Derrida gli insulti di un editorialista del New York Times giusto dopo la sua morte, e varie altre traversie nel corso della sua studiosa esistenza, compreso un arresto nella Cecoslovacchia “socialista”.

          Eppure Derrida si presta a essere costantemente frainteso: la sua decostruzione viene presa spesso per subdola costruzione (forse da egli stesso? possiamo parlare di auto-fraintendimento di un filosofo?). Quando, studentello, lessi per la prima volta i due bei saggi di Derrida su Artaud in La scrittura e la differenza, pensai che egli avesse finalmente messo a nudo la metafisica vitalista che ispirava non solo l’apostolato estetico del poeta francese, ma anche tante avanguardie del Novecento, comprese alcune che allora facevano furore a Parigi. “Come si potrà più credere nell’utopia estetica del souffle dopo questo smontaggio di Artaud?”, mi dicevo. Ora, con mia grande sorpresa, all’epoca dilagò un vero e proprio culto di Artaud come paradigma di scrittura rivoluzionaria, e questo fervore faceva riferimento assiduo proprio ai saggi di Derrida su Artaud. Questo si è riprodotto poi con altre sue scomposizioni: ad esempio, leggo Spettri di Marx come un tentativo di critica radicale della metafisica che ispira la predicazione politico-filosofica di Marx, eppure molti lo hanno recepito come il manifesto di un Ritorno a Marx. Insomma, molti seguaci hanno preso, degli amorevoli smontaggi dei testi dei Padri da parte di Derrida, il transfert amorevole non la decostruzione critica. Personalmente sono stato tra i pochi (ingenui?) a prendere le decostruzioni di Derrida au pied de la lettre: non si può essere più, anche grazie a lui, marxisti, husserliani o lacaniani. Non più come prima, almeno.

 

Il partito della filosofia

 

          Ma come si può decostruire Marx e restare nell’alveo della sinistra marxista? Come si può decostruire Heidegger e pensare proprio come lui che l’essenziale sia la temporalità e non la presenza? Come si può decostruire Lacan, e pensare che senza Lacan la psicoanalisi valga poco? In effetti il filosofo – sempre in un certo senso un decostruzionista – non vive su Marte. Aristofane aveva posto ironicamente Socrate sulle nuvole – e molti pensano che anche Derrida, da filosofo come si deve, vivesse tra le nuvole della scrittura. Ma il grande filosofo sembra vivere nel cielo della scrittura proprio nella misura in cui fa corpo con la sua città e con la propria “banda” spirituale. Socrate non usciva mai dalla cinta delle mura di Atene, analogamente Derrida non è mai uscito dal recinto della sua cultura di fondo – non intendo la cinta dell’Ecole Normale della rue d’Ulm a Parigi, intendo più in generale che non è mai uscito dall’ideale diasporico e cosmopolitico dell’intellettuale europeo, dalle avanguardie artistiche e letterarie degli anni 60 e 70, dalla sinistra parigina. Derrida non viveva, come i filosofi analitici, nelle nuvole di prosperi campus americani carichi di dollari: quel che diceva e scriveva era intriso degli odori familiari di una cultura francese precisa, odorosa di senape, frites e gongorismo, forse datata.

Certo Derrida, uomo di sinistra, spesso impegnato in battaglie per la giustizia, non è stato “filosofo di sinistra”: il vero filosofo non puntella alcun campo politico, il campo a cui resta fedele è quello della filosofia. Affascinava gente come me proprio perché non si faceva militante della famiglia a cui pur apparteneva ma, al contrario, spudoratamente la tagliava, obliquamente. Erede dell’impossibile quadratura del cerchio del filosofo del Novecento: combinare impegno effettivo e spirito critico. Perché è questo il paradosso del filosofo: uomo del proprio tempo e della propria città, eppure allo stesso tempo scontento del proprio tempo e della propria città, ironicamente altro rispetto alle credenze e ai desideri dei contemporanei compatrioti. Interprete ipersensibile e nervosissimo degli umori della propria epoca, e allo stesso tempo scorbuticamente solo.  

 

Sergio Benvenuto, 2004

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