Flussi di Sergio Benvenuto

Darwin è vivo, malgrado i darwinisti30/giu/2016


1.

          Si dice che la biologia moderna sia tutta darwiniana – a parte qualche rada, ma significativa, eccezione. On the Origin of Species di Darwin pubblicato nel 1859 e l’articolo di Gregor J. Mendel del 1865 sulle ibridazioni dei piselli – che è alla base di tutta la moderna genetica – sono universalmente celebrati come i due testi fondativi di tutta la biologia contemporanea. Chi oggi oserebbe contestarli? In realtà, dietro il paravento di un darwinismo universalmente accettato, viviamo in un’epoca il cui spirito è, per molti versi, francamente anti-darwiniano. Spirito a cui contribuiscono persino molti che si dicono darwiniani di ferro.

          Non mi riferisco tanto all’ancor oggi florido – anzi, oggi più aggressivo - creazionismo americano, secondo il quale Homo sapiens sarebbe stato appunto creato ex novo dalla divinità, o comunque frutto di un “progetto intelligente”. La chiesa cattolica, dopo essere uscita con le ossa rotte dalla sua opposizione a Copernico e a Galileo, non ha ripetuto lo stesso errore con Darwin, ragion per cui in Italia, grazie al Cielo, non esiste un movimento creazionista serio. La cultura protestante americana invece – dedita alla lettura diretta della Bibbia – dall’Ottocento eresse un fuoco di sbarramento contro l’evoluzionismo che non si è ancora del tutto estinto. Molte famiglie americane – quelle su cui Bush Jr. conta per battere Kerry – esigono che nelle scuole frequentate dai loro figli non si insegni la teoria dell’evoluzione, perché la Bibbia dice altrimenti. Secondo Richard Lewontin[1] questo creazionismo fondamentalista esprime il fondo populista dell’America profonda.

          Il vero anti-darwinismo contemporaneo è rappresentato piuttosto dal predominio del determinismo genetico. Da anni, in tutta Europa, i media hanno deciso: tutti siamo la manifestazione diretta del nostro genoma. Non passa quasi settimana che nelle pagine dei nostri giornali non si legga che questo o quel ricercatore avrebbe finalmente scoperto il gene che determina una qualsiasi cosa noi siamo e facciamo. Tutto il nostro destino è già scritto nel DNA. Si è letto in alcuni autorevoli giornali europei che si era finalmente scoperto il gene dell’infedeltà coniugale. Certo i media occidentali cavalcano una tendenza dominante nella biologia del mainstream. Essa ha ormai anche dei brillanti divulgatori – tra i quali Steven Pinker[2]. Costoro insegnano all’uomo e alla donna comuni quello che devono credere: ovvero che la vita di ciascuno di noi è programmata fondamentalmente dai propri geni, così come un computer è programmato da un software, e che le differenze culturali, anche se talvolta spettacolari, non sono altro che effetti di strategie di adattamento diverse in ambienti naturali diversi.

Questo determinismo genetico in teoria si dice darwiniano, anzi, in certi casi milita come ultradarwinismo. Il punto è che la teoria di Darwin può essere interpretata in vari modi, e non è detto che il neo-darwinismo oggi imperante sia quello più fedele al suo significato scientifico profondo.

Ora, la cosiddetta sintesi moderna – di evoluzionismo darwiniano e determinismo genetico - dice che il mutamento nella vita avviene attraverso due soli meccanismi: mutazione e selezione. Mutazione: nel replicarsi, i geni compiono talvolta “errori”. Tra tutti questi “errori”, variazioni, vengono selezionati dall’ambiente solo quelli che permettono all’animale (considerato come mero portatore di geni) di sopravvivere e riprodursi più dei suoi rivali, portatori di altre variazioni. Da questa concezione viene l’adagio secondo cui “una gallina è un mezzo di cui si serve un uovo per produrre un altro uovo”. In effetti, noi singoli fenotipi siamo sostanzialmente “i taxi dei nostri geni”[3], dato che i veri egoisti sono loro, i geni: essi paiono servirsi delle nostre virtù e vizi per riprodursi e diffondersi. Anche i geni umani hanno adattato al meglio la nostra specie all’ambiente in cui essa viveva. Il nostro genoma programma non solo la nostra evoluzione – la nostra pubertà, l’invecchiamento e, secondo alcuni, anche la nostra morte – ma anche le nostre capacità etiche e intellettuali, i nostri talenti professionali.

Certo, il cosiddetto interazionismo oggi di maniera ammette che l’ambiente in cui siamo cresciuti e quello in cui viviamo qualcosa conta: ma le modificazioni, in un senso o nell’altro, che l’ambiente circostante imprime alla nostra vita sarebbero in fin dei conti marginali. In America il pubblico è stato istruito dagli interazionisti a credere in questa massima: “le capacità dell’uomo sono per l’80% geneticamente ereditate, e per il 20% ambientali”. Ho l’impressione però che, con l’ascesa dei deterministi genetici nelle redazioni dei giornali e nelle case editrici, la percentuale dell’influenza ambientale si sia striminzita negli ultimi anni.

          Questo dibattito viene oggi etichettato come dilemma nature versus nurture, natura contro allevamento. Non c’è qui spazio per illustrare questo annoso dibattito. Mi basterà qui dire che la pretesa di distinguere i due fattori – geni e ambiente - in modo netto si rivela sempre più indifendibile, ed è al servizio di una semplificazione demagogica. Nature e nurture non sono come due fette di una torta, una più grande dell’altra, dove la torta sarebbe l’individuo umano nella sua totalità: di fatto espressione genetica e influsso ambientale sono tra loro implicati in modo intimo e complesso. Molto spesso l’ambiente rivela capacità espressive dei geni che altrimenti resterebbero latenti, e del resto è attraverso i geni che ogni fenotipo piega l’ambiente o lo plasma finché questo a sua volta non dà spazio a certe potenzialità geniche. Vedremo un po’ meglio più avanti questo intrico di genetico e ambientale nei due esempi che porterò: il piacere clitorideo e il piacere musicale. Ma il superamento della vecchia dicotomia geni versus ambiente implica una riforma del modo di pensare il mondo e la vita da cui la maggioranza di noi è oggi molto lontana.

 

Il credo nella supremazia genetica ha portato in America a un attacco a fondo contro quasi tutti i tipi di psicoterapie oggi praticate: in effetti, l’ottimismo psicoterapico si basa sull’idea che molte nostre insufficienze e sofferenze derivino dalla nostra storia personale e che quindi, almeno in prospettiva, siano modificabili. Ma se le psicopatologie, la tossicomania, o anche semplicemente la tendenza a restare disoccupati o a divorziare, sono tutte espressioni dei nostri geni, allora le cure dell’anima sono tutt’al più dei palliativi.

La fede nel primato del gene ha portato anche a teorie chiaramente razziste, che nei paesi anglofoni innescano periodicamente polemiche furibonde. Queste teorie – di cui molti neocon si sono impadroniti – affermano che le ineguaglianze tra diversi gruppi etnici o razziali non sono dovute a retaggi storici (come pretendono i liberals, la sinistra) ma soprattutto a fattori genetici. Ad esempio, una certa inferiorità dei neri nei punteggi ai test d’intelligenza non sarebbe dovuta al livello generalmente basso del livello di istruzione nei ghetti afro-americani o nelle bidonvilles dell’Africa, ma a un’inferiorità intellettuale media dei neri dovuta al loro corredo genetico[4]. All’inverso, i brillanti risultati sia a scuola che nei test degli asiatici “gialli” e degli ebrei ashkenazy non sarebbero dovuti all’importanza che gli studi e la cultura assumono nelle tradizioni culturali cinese, giapponese ed ebraica, ma all’eredità genetica, che li rende in media superiori anche ai bianchi ariani. Corollario finanziario di questa tesi: le risorse che il governo federale americano investe per portare ai livelli medi l’istruzione e le condizioni economiche di certe etnie svantaggiate sono soldi buttati via, perché tanto i neri, ad esempio, non riusciranno mai a raggiungere le medie di bianchi e asiatici. (Qui si parla ovviamente sempre di risultati medi: nessuno nega che si possano incontrare dei neri geniali e dei cinesi completamente imbecilli.)

Se molto spesso il confronto tra teorie biologiche ricalca il confronto tra alcuni grandi schieramenti politici, questo accade perché, a differenza di altre scienze, la biologia quasi sempre penetra il dibattito politico. A torto o a ragione, si pensa che certe teorie biologiche abbiano chiare implicazioni nel modo di organizzare la società. Grosso modo, si può dire che “la destra” crede soprattutto nell’eredità genetica e quindi nella non-modificabilità, o scarsa modificabilità, del destino individuale inscritto nei geni; “la sinistra” è invece storicista, crede che nel fondo “tutti nasciamo uguali, storia e contesto sociale ci differenziano”. Due metafisiche che la biologia che chiamerò, come Marcello Buiatti, post-moderna – la più interessante - considera ugualmente erronee.

 

2.

Ma perché il determinismo genetico oggi in voga è contrario allo spirito darwiniano?

In biologia, si sono confrontati e si confrontano tutt’oggi due tipi di spiegazione alternativi: istruzionista e selezionista. Storicamente le spiegazioni istruzioniste precedono quelle selezioniste, ma tendono a essere soppiantate dalle seconde. Questo è accaduto per l’origine delle specie, poi per la specificità degli anticorpi in embriologia. Per l'origine delle specie, in un primo tempo ha prevalso, con Linneo e Buffon, la teoria istruzionista delle specie come essenze fisse che si autoriproducono: ogni individuo nasce portando lo stampo della propria specie o eidos (forma essenziale), che resta immutata nelle varie generazioni. Questa visione detta preformista è stata soppiantata dal selezionismo di Darwin.

Ora, la predominanza del determinismo genetico segna di fatto un ritorno al modello istruzionista, anche se il codice genetico ha preso il posto dell’eidos, essentia o species di Linneo e Buffon. Il codice genetico infatti è un programma che “istruisce” una massa di cellule a svilupparsi a tutti i livelli, determinando anche le prestazioni intellettuali o amorose del fenotipo. Dietro un paravento darwinista, è quindi la vecchia teoria preformista che oggi plasma le menti del pubblico occidentale. Certo questo predominio è contrastato. Da notare però che il gruppo di biologi che contesta questo “imperialismo genetico” non è omogeneo al proprio interno: troviamo darwinisti coerenti da una parte (Edelman), ma anche darwinisti deboli (Gould, Eldredge, Lewontin) o addirittura, in certi casi, anti-darwinisti (come Kauffman, Varela od Oyama).

La rivoluzione darwiniana va interpretata anche come vittoria del variazionismo sul trasformazionismo. Il trasformazionismo di Lamarck, ad esempio, puntava sull’idea che ogni organismo tende a trasformarsi per adattarsi all’ambiente. In Darwin invece, il punto essenziale non è l’adattamento del singolo organismo ma la variazione: in ogni popolazione di una specie esistono varianti, connesse alla diversità di geni. Quando queste varianti sono minoritarie, vengono dette mutanti. Col tempo, certi mutanti si diffondono e altri retrocedono, perché i primi sono premiati dall’ambiente. Tutto qui.

Oggi, quando alcuni predicano in nome del darwinismo il fatto che gli individui si debbano assolutamente adattare ai cambiamenti sociali, pena la miseria o la scomparsa, di fatto fanno un discorso non darwiniano ma lamarckiano: per costoro occorre che ogni individuo si trasformi per far fronte ai cambiamenti ambientali. Darwin invece ha sottolineato piuttosto l’importanza della differenza: i varianti. Ad un certo punto una variante prevale, tende a costituire l’intera popolazione, perché quella variante si riproduce più delle altre. Il meccanismo darwiniano è questo: è il tasso differenziale di riproduzione, sotto la pressione dell’ambiente, di diversi tipi di individui entro una popolazione.

Tra gli umani, è quel che è accaduto nel Kosovo ad esempio. In origine quell’area era abitata da serbi, poi sono emigrati alcuni albanesi; costoro, nel corso del tempo, si sono riprodotti più dei serbi, che hanno finito così con il ridursi al 20% della popolazione. La guerra del Kosovo (1999) e tutto quel che oggi ne consegue è il frutto di un processo squisitamente variazionista: prevale non tanto chi vince nella lotta per la vita, ma chi si riproduce di più. Sarebbe assurdo sostenere – come fanno gli ultradarwinisti adattativisti – che gli albanesi si sono riprodotti più dei serbi perché si sono mostrati più adatti all’ambiente kosovaro! Anzi, essendo il Kosovo dominato politicamente dai serbi, le loro possibilità adattative erano alquanto risicate. Le ragioni per cui una variante, fisica o culturale, si riproduce più di un’altra possono essere le più varie, e spesso anche del tutto casuali. Qualcosa di simile accade nella diffusione culturale: molto spesso un’idea filosofica, una canzone, un romanzo, un film, una moda, un modo di pensare prevale non perché compete contro altre teorie, canzoni, romanzi, ecc., e li sconfigge, ma semplicemente perché più persone, per le ragioni più svariate, la “comprano”.

Invece, l’ortodossia genetista oggi si identifica a una concezione rigidamente adattativista: “sopravvive il più adatto”, ovviamente al proprio ambiente. Ovvero, è l’ambiente che seleziona quelli che vi si adattano meglio. Per “ambiente” non deve intendersi solo i predatori a cui occorre sfuggire o le prede da agguantare, ma anche, ad esempio, la capacità di una femmina di attrarre i maschi migliori e la capacità di un maschio di attrarre le femmine più forti, prolifiche e materne. Quindi, quella adattativista è un’interpretazione povera di quel che il darwinismo ha significato come rivoluzione scientifica.

Quando i profani – ma anche esperti biologi – pensano al darwinismo, infatti pensano subito allo struggle for life di ciascun individuo. Invece per il darwinismo quel che conta, in ultima istanza, è la capacità di riprodursi; l’adattativismo del darwinismo è di fatto un riproduttivismo.  Il darwinista, quando dice “sopravvive il più adatto”, implica “si riproduce di più il più seduttivo”. (Proprio per questo, non opporrei in modo semplicistico darwinismo a freudismo, come oggi molti fanno: anche se da prospettive diverse, sia Darwin che Freud hanno detto che quel che conta, in ultima istanza, è la riproduzione, nei mammiferi la sessualità.)

In effetti, un animale che superi tutti gli avversari e viva a lungo ma è sterile ha un valore adattativo zero dal punto di vista darwiniano. Invece si prenda il bel Liolà, protagonista dell’omonima commedia di Pirandello. Da un punto di vista sociologico Liolà è chiaramente un perdente – povero, privo di brama di potere, muore giovane. Ma da un punto di vista darwiniano lui è biologicamente vincente: egli ha difatti l’abitudine di mettere spesso incinte le ragazze del villaggio; mentre molti notabili del villaggio risultano sterili.

Ora, l’interpretazione rigidamente neo-darwinista che ancor oggi va per la maggiore è stata messa in crisi da larga parte della ricerca paleontologica. Con la loro teoria degli “equilibri punteggiati”[5] Gould ed Eldrege hanno sfatato un assunto del darwinismo classico: l’idea cioè che la mutazione delle specie sia un processo graduale, lento, continuo. Essi hanno mostrato che, invece, le specie animali attraversano lunghe fasi di noiosa stasi, in cui restano eguali a se stesse, e poi fasi brevi di grandi cambiamenti, da cui germogliano nuove specie. L’evoluzione della vita, come quella di tante culture umane, è discontinua: a periodi rivoluzionari si alternano periodi molto più lunghi di conservazione. Fino a che punto questo dato paleontologico mette in crisi il paradigma darwiniano? Il dibattito su questo punto è ancora in corso.

Ma c’è un altro punto fondamentale della biologia post-moderna, in gran parte darwiniana debole o anche darwiniana non-adattativa. Si è visto che se da una parte ogni organismo si adatta al proprio ambiente – nel senso che l’ambiente “premia” certe varianti genetiche, permettendo loro di riprodursi maggiormente – è anche vero che tutti gli organismi adattano l’ambiente a loro stessi. Non solo l’uomo, tutte le specie animali e vegetali competono per trasformare in modo più o meno profondo il proprio ambiente per adattarlo egoisticamente a sé. Homo sapiens ha compiuto questa trasformazione – antropologizzando la natura - in modo più spettacolare e rapido di quanto non siano riuscite a fare le altre specie, ma il principio è lo stesso. Quel che chiamiamo sbrigativamente “ambiente naturale” di fatto è il frutto – spesso precario – di un’interazione continua tra organismi, i quali da una parte si adattano agli altri organismi (che costituiscono il proprio ambiente) e dall’altra tendono ad adattare gli altri organismi a se stessi. Insomma, non si riproduce meglio solo l’individuo che si adatta meglio al proprio ambiente, ma anche quello che meglio riesce a riformarlo – cosa che, come si vede, emana subito dei profumi politici ed etici.

Ma c’è di più. E’ sbagliato credere, come i darwinisti forti o duri, che ogni tratto di un organismo (o fenotipo) sia il risultato di un adattamento. I tratti possono essere non solo adattativi ma anche esattativi, o anche puramente contingenti. Questo strano neologismo – esattativo – esprime quel che François Jacob ha chiamato, più familiarmente, bricolage. Il bricoleur è il non-specialista che riadatta pezzi presi da altre costruzioni per riparare o migliorare altre cose: ad esempio, chi prende una gamba di sedia rotta per farne il collo di un lampadario. La vita fa la stessa cosa: funzioni e arti che originariamente si erano sviluppati per favorire certe capacità vengono riadattati dagli organismi per scopi diversi. Lo stesso Darwin lo intuì introducendo un principio di ridondanza funzionale: ovvero, in natura un organo può svolgere più funzioni o, viceversa, una funzione può essere svolta da più organi. L’organismo non solo punta a riformare il proprio ambiente per il proprio confort, ma anche adatta il proprio stesso organismo ad altre funzioni. La relazione tra organismo e ambiente risulta a questo punto di gran lunga più complessa di quanto non risulti secondo l’ortodossia neo-darwinista imperante. Non possiamo più dire “sopravvive il più adatto”, ma piuttosto “sopravvive il più plastico”. Gli esseri umani sono arrivati a oltre sei miliardi – per la biologia la quantità è più importante della qualità – non perché si siano adattati al loro ambiente originario (l’Africa), ma perché hanno conquistato nuovi ambienti, hanno trovato il modo di coprirsi con manufatti laddove faceva troppo freddo, hanno trovato il modo di produrre cibo anche dove non c’era e di prendere pesci pur senza essere animali marini.

Anche questa tesi, che valorizza la flessibilità e quindi la versatilità biologica, suscita implicazioni politiche. Un’industria, ad esempio, prospera non quando si adatta semplicemente alle esigenze del mercato ma quando è abbastanza flessibile da modificarsi via via a seconda delle congiunture e dei contesti; anzi, quando riesce a formare un nuovo mercato, creando nuove domande e nuovi bisogni.

Ci troviamo oggi quindi in questa situazione paradossale: i darwinisti puri e duri, per i quali quel che conta è la competizione tra geni, sono nel fondo più lontani dallo spirito del darwinismo come rottura scientifica di quanto non lo siano i darwinisti deboli, riformati, o certi non-darwinisti dichiarati.

 

3.

Sin dagli inizi, è stata fortissima la tentazione di trasportare di peso la teoria darwiniana nel mondo della società, dell’economia e della cultura. Di solito, queste estrapolazioni sono degli antropomorfismi: si interpretano fatti naturali come se fossero processi umani, troppo umani. Da una parte commettiamo l’errore di antropologizzare la biologia, dall’altra quello di biologizzare l’antropologia - due facce, che spesso si intrecciano, di uno stesso malinteso. Come esempio di antropologizzazione della storia naturale, mi si consenta un piccolo aneddoto. Nell’Enciclopedia venduta di recente dal Corriere della Sera, alla voce “dinosauro” si legge che quelle lucertole giganti hanno dominato il mondo nell’era del triassico. Ma “dominare” è un concetto antropologico, che non ha senso applicare alle specie animali. I dinosauri avrebbero dominato le altre specie solo perché hanno raggiunto dimensioni tali da impressionarci oggi, dopo oltre 65 milioni di anni? Perché il triassico sarebbe stato dominato dai dinosauri piuttosto che da altre specie coeve di dimensioni inferiori, come le formiche o certi pesci? Purtroppo si leggono leggerezze del genere in molti testi redatti da “esperti”.

Si indulge spesso anche alla biologizzazione abusiva della società e della politica. Si dimentica che, mentre la vita evolve sulla base di meccanismi darwiniani, la cultura ha un’evoluzione lamarckiana: il linguaggio permette di trasmettere ai propri rampolli caratteri acquisiti. Ad esempio, si pensa di essere darwiniani quando si dice che la pura competizione selvaggia in economia è la cosa migliore, come accade nella competizione biologica: il mercato seleziona prodotti, imprese e lavoratori migliori così come l’ambiente selezionerebbe gli individui biologici migliori. Ma il punto è che in biologia non ha senso parlare di “migliore”: la selezione naturale non ottimizza, semplicemente premia certe varianti rispetto ad altre nel senso che le rende più numerose. Si è meglio o peggio in relazione a dei fini, ma la biologia scientifica esclude che la vita in sé abbia fini. La teoria darwiniana, correttamente intesa, si limita a ricostruire il modo in cui certe specie mutano, non dice affatto se questo sia meglio o peggio. Ad esempio, è noto che, in linea generale, più una nazione è povera e mal messa, più la sua popolazione è prolifica: per un biologo, quindi, le varianti africane (più prolifiche) sono oggi in espansione, mentre le varianti italiane o scandinave, avare di prole, sono recessive. Ma secondo la nostra scala di valori politici ed etici è vero il contrario, pensiamo che l’Europa poco fertile vada avanti e che l’Africa, purtroppo, attraversi una crisi spaventosa, minacciata dall’espansione dei deserti e dell’AIDS. Certo la competizione tra aziende ha delle affinità con la competizione nel mondo biologico, ma il compito delle società umane è quello di governare i processi spontanei per migliorare le condizioni umane di vita. Credere che la Mano Invisibile della selezione naturale ci porti sempre al meglio è un pregiudizio intellettuale senza fondamento.

Oggi l’universalismo etico-politico sembra anti-biologico: cerchiamo di non lasciar morire i più deboli, anche se finora la natura sembrava selezionare chi risultava più forte facendo morire i deboli (in realtà il ragionamento è tautologico: per più forte intendiamo semplicemente... chi non è morto). Se un bambino infila una serie di malattie gravi, cerchiamo di salvarlo anziché dire “se è debole, meglio che la natura faccia il suo corso”. Stessa cosa con gli anziani: se si ammalano, cerchiamo comunque di prolungar loro la vita. Ma la nostra scelta di salvare i deboli infischiandocene della selezione naturale non è meno naturale che lasciare le cose al loro corso. In fondo, tutto è biologico: se l’umanità decide di suicidarsi in toto, anche questo è un fatto biologico. Nulla di quello che gli esseri umani decideranno di fare sarà mai anti-naturale, se per natura intendiamo i processi fattuali; tutto quello che i filosofi chiamano “la totalità degli enti”. Ma all’interno di ciò che è naturale possiamo discriminare ciò che per noi è buono o cattivo, utile o nocivo, in relazione ai valori che noi abbiamo prescelto – ben sapendo che anche questa scelta di valori è a sua volta ricostruibile come un fatto naturale, cioè privo di valori.

I ragionamenti appena svolti, per quanto ovvi, vanno ripetuti in quanto un certo biologismo riprende di fatto la concezione che un tempo veniva imposta dalla chiesa: l’idea cioè che esistano attività e scelte umane “secondo natura” e altre “contro natura”. Questa distinzione proviene dalla filosofia aristotelica, che la chiesa cattolica ha fatto propria: alcuni processi vanno nel senso dell’ordine naturale, altri vanno contro quest’ordine. Per la chiesa usare contraccettivi, abortire o usare cellule staminali sono atti “contro natura”, quindi sono pratiche da condannare. Oggi però la scienza non può più accettare questa distinzione, perché, come scriveva Wittgenstein, “Die Welt ist alles, was der Fall ist”, “il mondo è tutto ciò che accade” – insomma, qualsiasi fatto è naturale. Parlare di un fatto come “contro natura” è, per la mentalità scientifica, un controsenso. Eppure quante volte leggiamo che certi assetti sociali sarebbero “contro la natura umana”? Ad esempio, il famoso sociobiologo E.O. Wilson ci assicura che la schiavitù è incompatibile con la natura umana. Fosse il cielo! In realtà la tendenza a rendere schiavo l’altro è presente in qualsiasi epoca, compresa la nostra, malgrado i divieti ONU. Siamo contro la schiavitù non perché è contro la natura umana, ma perché contraddice la nostra etica universalista, sviluppatasi solo negli ultimi secoli.

Ma chi stabilisce che cosa è naturalmente umano e che cosa non lo è? Perché Gandhi o madre Teresa di Calcutta sarebbero “secondo natura” mentre Jack lo Squartatore o Hitler sarebbero “contro natura”? O magari viceversa? Appellarsi a pretese leggi dell’evoluzione per sostenere certe opzioni politiche o etiche è quindi una truffa epistemologica. Bisogna quindi diffidare della maggior parte delle “sociobiologie” e ancor più delle “politicobiologie”: dietro una facciata darwiniana e scientifica nascondono vecchie metafisiche aristoteliche.

 

4.

Eppure, è fortissima la tentazione di applicare alle faccende umane il principio variazionista del darwinismo, se non altro per renderle più intelligibili. Ad esempio, le società liberal-democratiche - a esclusione della Cina - sono oggi indubbiamente le più ricche, forti e prestigiose. Perché? Probabilmente perché le società liberal-democratiche danno molto più spazio delle società totalitarie o monolitiche alle variazioni, in tutti i campi: pluralità di partiti politici, di idee, di modi di vivere, di dottrine, di specificità etniche, ecc. In natura ogni variazione prevale perché risulta fitter, nel senso che si riproduce di più. Ora, chi dispone di più variazioni ha tante più probabilità di trovare la soluzione più adatta, ottimale, a certi problemi - qui, è il caso di dirlo, la quantità diventa qualità. Se ho un problema che devo risolvere, e se ho cento soluzioni possibili, è più probabile che trovi una soluzione migliore di quella che troverei se disponessi di solo dieci soluzioni possibili. Il segreto del successo delle democrazie liberali consiste insomma, in gran parte, nel loro pluralismo. Ed è probabile che questa sia una delle chiavi della riuscita straordinaria degli Stati Uniti nel corso dell’ultimo secolo e mezzo: il fatto che sia stata, più delle società europee, una società multietnica e multireligiosa. Sui tempi lunghi, la società pluralista è premiata. Questo quindi dovrebbe portarci a diffidare di ogni forma di xenofobia e di difesa delle identità locali esclusiviste: se una società si chiude alle variazioni, declina. Anche se certo questa constatazione non può sostituirsi alle scelte di valore: un insieme sociale potrebbe preferire l’omogeneità allo sviluppo, “meglio poveri ma omogenei e solidali, anziché ricchi ma diversi e in competizione”.

          Prendiamo un esempio alquanto fresco, che scatena tutt’ora passioni: il socialismo reale. Il fatto che il comunismo sia imploso alla fine degli anni 80 è interpretato da molti come una sorta di selezione darwiniana: dopo molti decenni, il comunismo si sarebbe rivelato meno adatto del capitalismo a creare benessere, anche se assicurava più eguaglianza del capitalismo. Questa spiegazione può essere valida oggi. Ma non è detto che tra un secolo o due il socialismo non si dimostri di nuovo un’opzione credibile. Potrebbero cambiare radicalmente vuoi le condizioni della produzione, vuoi il contesto spirituale dell’umanità – ad esempio, potrebbe prevalere un bisogno di sicurezza e di coesione sociale, e non più la volontà di potenza illimitata che alimenta lo sviluppo capitalistico senza fine. Insomma, non sarebbe saggio cancellare dal mondo la variante comunista. (E lo dice uno come me, che non ha alcuna simpatia per Bertinotti e compagni.) Analogamente, gli anatemi ormai obbligati contro l’eccessivo pluralismo del mondo politico italiano non mi paiono neanch’essi lungimiranti: il fatto che gli italiani votino per tanti partitini è un segno, malgrado tutto, di vitalità politica del paese, sarebbe un impoverimento cancellare tutte queste varianti.

Insomma, se è falso affermare che la selezione darwiniana ottimizza di per sé, non è da escludere che essa possa essere sfruttata da noi per ottimizzare alcuni aspetti della nostra vita sociale. Quindi il darwinismo - inteso come variazionismo – può contribuire, malgrado la sua neutralità scientifica, a una visione più tollerante e meno partigiana della storia politica e morale[6].

 

5.

          L’assunto adattativista, che viene spacciato per darwiniano, di fronte a qualsiasi tratto che la vita ci presenta si chiede sempre “a che cosa serve?” Ovvero, “in che modo ha favorito la riproduzione del genotipo corrispondente a questo tratto?” Nella vita non ci sarebbe spazio per il casuale, per la pura emergenza, per la contingenza storica. Oggi invece la nuova biologia porta molti esempi di processi esattativi e di contingenze, tutti irriducibili a una logica adattativa. Ad esempio, il sangue è rosso perché la struttura molecolare dell’emoglobina la rende rossa, non perché il colore rosso sia di per sé adattativo (anche se la selezione naturale ha favorito l’emoglobina in quanto essa permetteva di portare ossigeno dai polmoni al resto del corpo). Porterò altri due esempi per noi particolarmente rilevanti perché molto piacevoli: l’orgasmo clitorideo e il gusto della musica.

          In effetti, la clitoride è un effetto dello sviluppo embrionale dei mammiferi: i maschi conservano alcuni tratti femminili (ad esempio i capezzoli), mentre le femmine portano traccia di tratti maschili che lo sviluppo embrionale ha accantonato. La clitoride è un pene femminile poco sviluppato. Ora, la presenza della clitoride non è adattativa perché i mammiferi femmina, umane escluse, di fatto non la usano: siccome le femmine sono montate a tergo, la loro clitoride non viene stimolata. Homo sapiens, invece, ha inventato il coito faccia-a-faccia, e ha così scoperto il piacere clitorideo. Insomma, Homo sapiens ha attualizzato una possibilità inscritta nella costituzione femminile, ma che sarebbe rimasta potenziale se Homo sapiens, attraverso una mutazione culturale, non l’avesse scoperta.

Stesso ragionamento vale per la musica. Anche qui, è difficile credere che il piacere di ascoltare musica abbia un senso adattativo, che insomma chi gustava la musica abbia avuto più possibilità di sopravvivere e riprodursi di chi era insensibile a essa. Che cosa ci fa pensare che il piacere della musica, come il piacere clitorideo, non sia un tratto selezionato a fini di adattamento? Perché si è constatato che anche altre specie mammifere sono sensibili alla musica – non a caso certi allevatori fanno sentire Bach alle mucche, ad esempio, per favorire la produzione di latte (a parte alcuni canti degli uccelli, la musica non esiste in natura). Il piacere di ascoltare musica è quindi una potenzialità di molti mammiferi, ma solo Homo sapiens ha portato all’atto questa potenzialità. Morale: nel nostro organismo, e quindi nel nostro cervello, ci sono molte più cose di quante non siano state selezionate dall’ambiente ai fini della riproduzione. Un organismo è insomma sempre più ricco dei “significati” funzionali che esso ha. Esso manifesta anche, come nel caso della clitoride, dei vincoli di sviluppo: molte cose del nostro organismo sono lasciti del nostro sviluppo embrionale, non perché servano a qualche cosa. Per questa ragione la domanda classica, “a che cosa serve questo tratto?” non è la buona domanda: molte cose della vita non servono a nulla, o servivano nel passato, stanno là fino a che qualche animale non se ne serva.

          Ma se la critica all’adattativismo è giusta, come sfuggire anche qui alla tentazione di leggerne le implicazioni filosofiche, politiche e morali? Una certa mentalità tecnocratica, magari appellandosi a un darwinismo riciclato, vuole convincerci del fatto che ci dobbiamo disfare di tutto ciò che nella società e nella vita non serve a nulla, che non aumenta la nostra fitness nel vincere e nell’arricchirci: certe forme di arte impopolare, certe credenze mistiche o religiose, certe abitudini non giustificabili sul piano scientifico, certe forme di vita arcaiche, marginali, poco efficienti, ecc. Tutto deve essere funzionale, come nella vita biologica! Questa visione biologica esprime di fatto un ideale tecnocratico. In effetti, Homo sapiens ha avuto lo sviluppo culturale che conosciamo probabilmente proprio perché ha saputo inventare funzioni nuove a organi e capacità che la natura gli ha dato per altre funzioni, o ha saputo inventare funzioni per tratti che non ne avevano alcuna.

Anche nella società sarebbe un errore, sui tempi lunghi, distruggere tutto ciò che appare disfunzionale o perdente: in un contesto appena diverso, forme culturali oggi del tutto marginali, disprezzate, potrebbero dimostrarsi invece la soluzione migliore. Nessuno può prevedere difatti le sfide che il futuro potrà lanciare alla specie umana, per cui nel giro di pochi secoli ciò che oggi risulta saggio e vincente potrebbe dimostrarsi folle e perdente, e viceversa. E’ sempre un errore storico ridurre il pluralismo: il monolitismo prima o poi fragilizza una società, anche se sui tempi corti riduce certi conflitti. In fondo, questo è il messaggio etico – anche se involontario – della scoperta di Darwin, nella misura in cui al trasformazionismo oppone il variazionismo: più variazioni una cultura ha a disposizione, più rischia di perpetuarsi. Più che l’adattività, è la “politica dei cento fiori” il segreto dell’espansione della vita. E forse anche della società e della cultura.

 

Bibliografia essenziale

 

S. Benvenuto (2000), Un cannibale alla nostra mensa, Dedalo, Bari.

 

R. Dawkins (1992), Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, Mondadori, Milano.

 

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Pubblicato in Reset, 85, settembre-ottobre 2004, pp. 78-86.

 

 



[1] Lewontin (2000), p. 49 sgg.

[2] Pinker (2002).

 

[3] Cfr. Dawkins (1992).

[4] Cfr. Shockley (1971a; 1971b) ed Urban (1974). Quanto alle differenze nel comportamento motorio e nel temperamento dei neonati africani e di quelli nord-americani (bianchi e neri), vedi J.E. Kilbride, M.C. Robbins, P.L. Kilbride (1970). Su questo dibattito, vedi R. C. Lewontin, S. Rose e L.J. Kamin (1984).

 

[5] Cfr. Gould 2003.

 

[6] Per una discussione sull’importanza del pluralismo e delle differenze, cfr. il mio: Benvenuto (2000).

 

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