Flussi di Sergio Benvenuto

A PARTIRE DA FEYERABEND: NOTE SULLA SCIENZA (1988)06/feb/2020


Non è la vittoria della scienza che caratterizza il nostro secolo, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza.

F. Nietzsche (I960, III, 814)

 

 

 

(Nel testo, sono in corpo più piccolo e tra parentesi i paragrafi che il lettore può anche saltare, dato che si tratta di incisi o approfondimenti.)

 

1. La seconda secolarizzazione

 

Si dice che il pensiero di Feyerabend consista, in misura anche maggiore rispetto agli altri esponenti più importanti della cosiddetta new philosophy of science (Hanson, Kuhn, Lakatos, Sellars, ecc.), in un trapianto dell'hegelismo nel tessuto della filosofia della scienza. Hegelismo in senso lato, inteso cioè come rifiuto della schisi tra ordine dei pensieri e ordine delle cose pensate. Nel caso specifico delle scienze, per l'hegeliano non c'è divisione invalicabile, ma circolarità e coalescenza, tra ciò che la scienza sa o crede di sapere, e la storia e la mutazione del sapere scientifico. Hegelismo significa pensare che il «mondo» conosciuto dalla scienza è inscindibile dal modo in cui questa conoscenza si è costruita.

W.R. Quine (1961, p. 3) scrisse su «ciò che vi è», chiedendosi se dovessimo accettare in quanto enti cose come le idee platoniche, le forze e l'energia, la probabilità, le classi, le classi di classi, ecc. E qui disse «il rasoio di Occam si spezza spesso contro la barba di Platone». (Il rasoio di Occam è «Entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem», ‘non moltiplicare gli enti più di quanto non sia necessario’.) Possiamo parafrasarlo dicendo che con Feyerabend il rasoio falsificazionista di Popper si spezza contro la barba di Marx.

Secondo Feyerabend, nella scienza nulla è mai deciso per sempre, quindi nessuna concezione può mai essere lasciata fuori da un'esposizione generale della conoscenza scientifica. Quindi, Plutarco e Diogene Laerzio sono i modelli per la presentazione di una conoscenza di questo genere in cui la storia di una scienza diventa parte inscindibile della scienza stessa.

Altrettanto provocatorio è il tentativo feyerabendiano di accostare tra loro, trovandovi una convergenza di fondo, Hegel[1] e J.S. Mill. Come è possibile riconciliare retrospettivamente due filoni di pensiero considerati fino a ora reciprocamente esclusivi?

L'opera di Feyerabend va però letta in relazione al pubblico a cui si rivolge: i professori dì epistemologia americani, per i quali Hegel è solo theology e chiacchiera metafisica. Le facoltà di filosofia americane e britanniche si occupano solo di filosofia analitica, mentre la filosofia detta continentale si insegna in altre facoltà, di storia, letterature comparate, Women’s Studies, Cultural Studies, storia del cinema, ecc. Il connubio tra Hegel e Mill diventa così l'emblema di ciò che Feyerabend, austriaco trapiantato in America, ha cercato di realizzare: la fusione tra le due grandi tradizioni filosofiche, quella l’angloamericana e l’euro-continentale.

I pamphlets di Feyerabend si inscrivono comunque in un percorso comune anche alla tradizione marxista, radical e libertaria: essi si vogliono strumenti di emancipazione intellettuale, politica e sociale. La «predicazione» di Feyerabend ha inteso soprattutto contestare una doppia tutela, una reale e una immaginaria. Quella immaginaria è la tutela che i filosofi della scienza, gli epistemologi, pretendono di esercitare sul lavoro degli scienziati, prescrivendo loro i modi di procedere veramente scientifici, razionali. Feyerabend ha dato fondo a tutto il suo talento dialettico, polemico e di arguzia per mostrarci come di fatto — cioè nella sua storia effettiva — la scienza vada avanti cambiando continuamente metodo, procedendo con stili e marchingegni molto spesso del tutto contraddittori rispetto ai principi epistemologici affermati sia all'epoca che retrospettivamente oggi. «Anything goes», tutto fa brodo nelle molteplici e variegate cucine della scienza.

Comunque, in quanto denuncia di una tutela solo immaginaria, la concettualizzazione di Feyerabend alla fin fine risulta essere rappresentativa dell'attuale operare scientifico, ormai emancipato appunto da ogni ritegno epistemologico. Ha buon gioco così qualcuno nel far notare che l'anarchismo metodologico di Feyerabend più che una critica è una legittimazione dell'attuale assetto della ricerca, sempre più dominata dallo stile spregiudicato americano. «La ricerca funziona di fatto in modo anarchico», scrive Petitot (1980, p. 53), e aggiunge:

 

Dopo il suo trasferimento negli USA, [la ricerca] applica massicciamente la massima "tutto va bene". Questo anarchismo — che non è di ordine epistemologico, ma di ordine pragmatico — è il segno più visibile ... di un passaggio progressivo e generale da una ricerca di teorie unitarie a un uso incondizionato di modelli [corsivo di Petitot].

 

La tutela reale, invece, è il potere dannoso che «gli esperti», gli scienziati, i tecnici competenti, esercitano nelle nostre società iper-industriali, condizionandone le scelte politiche e l'avvenire, mettendo al bando come irrazionali, superate, chimeriche tutte le tradizioni e i saperi diversi da quelli del razionalismo scientifico. L'anatema lanciato da quest’ultimo contro l'agopuntura, l'astrologia, la psicoanalisi, lo yoga, l’economia marxista, la miracolistica cristiana, l'ufologia, la parapsicologia, la semiotica strutturalista, l'orgonomia reichiana, ecc., ne fa per Feyerabend una forma moderna di Inquisizione.

I due versanti di questa denuncia vanno letti comunque come due facce di una stessa rivendicazione: perché sia la scienza che la società che la comprende siano libere — e «progressive», benché il senso specifico di questo termine in Feyerabend ci risulterà presto problematico — occorre accettare, sia nelle scienze che nelle attività sociali in genere, un radicale pluralismo. Questo è da intendere non solo nel senso liberal americano, come diritto alla critica e alla pluralità delle opinioni, ma soprattutto nel senso radical, di preservare tutte le tradizioni culturali possibili (anche  quelle anti-liberali, irrazionaliste, tradizionaliste, anti-illuministe, «superstiziose», ecc.) non in Riserve antropologiche, come quelle dove si relegarono i pellirosse d'America, ma dando loro pieno diritto di intervento e di critica nella Città iper-industriale. Perciò il titolo del suo libro principale, Contro il Metodo (Feyerabend, 1975), va letto nella sua duplicità: contro il Metodo che gli epistemologi vorrebbero imporre ai variegati workshops scientifici, e contro la Scienza come Metodo obbligato per operare scelte politiche e per dirimere contrasti sociali.

Alla separazione tra Stato e Chiesa, realizzatasi in questi ultimi due secoli attraverso le grandi rivoluzioni liberali, dovrebbe subentrare una seconda grande Secolarizzazione, la separazione tra Stato e Scienza. All'«opportunismo metodologico» deve far eco un opportunismo politico. Occorre che la società — non più retta dai mitici Soviet di operai e di contadini, ma, più all'americana, da comitati di contribuenti — sia libera di poter scegliere di volta in volta la tradizione scientifica che meglio si adatta al caso.

Del resto all’idea comune secondo la quale la tradizione scientifica ufficiale dovrebbe essere preferita alle tradizioni di altre culture — chiamate oggi «alternative» — per i risultati pratici da essa raggiunti, si obietta che questa maggiore efficacia pragmatica della scienza riconosciuta come tale è essa stessa un mito. Del resto i criteri stessi con cui si misurano i risultati pratici, tecnologici, di una scienza, dipendono strettamente dalle procedure di questa scienza, che viene a trovarsi quindi allo stesso tempo in posizione di giudicato e di giudice. Dei criteri di efficacia comunque intrinseci a una pratica tecnologica possono cioè sempre portare a «successi» del tipo di quelli enunciati dalla celebre «l'operazione è perfettamente riuscita... anche se il paziente è morto».

Secondo Feyerabend la rimozione di teorie e tradizioni non accademiche, non established, produce un duplice danno: alla libertà civile dei cittadini, e al progresso della scienza stessa. In effetti

 

non esiste neppure una sola idea scientifica importante che non sia stata rubata da qualche altra parte e integrata poi "nella scienza": aggirando il metodo allora vigente (Feyerabend, 1981; p. 159).

 

Se la scienza eliminasse i filoni «alternativi», si priverebbe dell'indispensabile vivaio utile al proprio progresso.

L'egemonia incontrastata della scienza — paragonabile all'egemonia della Chiesa secoli fa — produce un impoverimento di risorse non solo per se stessa, ma anche nell'ambito delle conoscenze utili alla società. I filoni dominanti della scienza rimuovono, in senso quasi psicoanalitico, tutta una messe di conoscenze, tecniche, marchingegni, osservazioni empiriche, farmacopee, prescrizioni prudenziali, scoperta di correlazioni, ecc., che solo oggi, attraverso lo scavo storiografico e la ricostruzione erudita, riportiamo lentamente alla luce. Il programma di ricerca scientifico dominante, senza volerlo, benché accresca tecniche e conoscenze, spazza via anche una quantità di tecniche e di conoscenze valide in quanto non integrabili in esso.

 

2. Abduttori e falsificatori

 

Feyerabend e gli altri new philosophers of science hanno articolato la critica più forte ad almeno due delle grandi ricostruzioni razionali della scienza del nostro secolo: quella neo-positivista e quella razionalista-critica di Popper e seguaci. Anche se la filosofia di Popper nacque a Vienna in contrapposizione al positivismo logico anch’esso viennese del Wienerkreis. Aldilà delle loro vistose differenze, queste due ricostruzioni filosofiche del sapere hanno un tratto comune: per esse la scienza occidentale più sofisticata non presenta strutture qualitative diverse dal sapere terra terra dei selvaggi dell'Amazzonia. Il Metodo della razionalità non è fondamentalmente diverso ai vari livelli di accumulo della conoscenza: il selvaggio che costruisce il suo arco con le frecce per colpire il bufalo, e l’ingegnere che progetta un missile da lanciare su Marte, si ispirano agli stessi criteri di razionalità — quello dell'induzione a partire dalle esperienze percettive proprie o di altri secondo l'empirista, quello del successivo aggiustamento delle teorie per tentativi ed errori secondo il razionalista critico. Questo continuismo, corollario della scommessa cartesiana su una ragione universale, contrasta con gli approcci pluralisti di Kuhn e Feyerabend, in quanto costoro, come vedremo, sottolineano piuttosto una serie di discontinuità — non c'è più la Ragione (oggi Metodo scientifico) ma una pluralità di ragioni «regionali».

Il «soggetto conoscente» dell'empirismo — anche di quello più sofisticato, logico-linguistico e carnapiano — viene pensato come un ingenuo e ossessivo calcolatore: egli calcola regolarità nei fenomeni naturali e, computandole, ne trae fuori induttivamente teorie e leggi, senza l'ausilio preliminare di pre-giudizi, di giudizi previ, di anticipazioni, dì regole supposte ai fenomeni stessi. La verità finisce con il coincidere con l'esattezza della previsione. La logica induttiva, formalizzata da Carnap[2], ridotta all'osso si basa su inferenze di queste tipo: più corvi neri vedo, più sono legittimato a enunciare «il prossimo corvo che incontrerò sarà nero». L'accumularsi delle esperienze di corvi neri fa aumentare la probabilità che la mia legge-ipotesi «tutti i corvi sono neri» sia vera. Quindi la logica induttiva viene sviluppata come una generalizzazione formale del calcolo delle probabilità: più corvi neri abbiamo visto, più sarà probabile che il prossimo corvo che vedremo sarà nero. In sostanza, per il positivismo classico la scienza procede per generalizzazioni, in un modo o nell'altro computate, di regolarità percettive. La legge scientifica, con la sua pretesa universalista («tutti i corvi...»), «scopre» delle Regole della natura solo nella misura in cui generalizza regolarità osservate nei fenomeni.

 

(Naturalmente, a proposito del nostro esempio un po’ trito dei corvi bianchi e neri, si può obiettare - come ha fatto Lakatos [1976, p. 193] - che l'asserzione «tutti i corvi sono neri» non è una teoria «progressiva»: essa in realtà non conduce alla scoperta di nessun fatto nuovo. Si tratta insomma di una mera «generalizzazione». La confusione tra ipotesi scientifica e generalizzazione è proprio il punto debole di ogni ricostruzione empirista e induttivista del sapere scientifico.)

 

Lo scienziato immaginato dal filosofo empirista crede sempre comunque nel valore legittimante delle regolarità osservative: la ripetizione delle correlazioni tra percezioni è la fonte autentica del sapere scientifico, e quando questa reiterazione viene spezzata — come quando salta fuori, a un tratto, un corvo bianco... — la conclusione del teorico empirista sarà che l'induzione è falsificata, anche se essa era legittima fino ad allora. Questa teoria tende a identificare la probabilità alla maggiore frequenza possibile, e l'induzione è connessa a questi gradi di probabilità/frequenza.

Un bel giorno posso però anche incontrare un corvo bianco. Ora, per i critici dell'empirismo questa esperienza non prevista non falsificherà puramente e semplicemente le mie generalizzazioni. Questo perché le mie generalizzazioni non sono sempre e soltanto delle induzioni nel senso dell'empirismo. Per esempio, la scoperta di un corvo bianco potrà indurmi (a parte certe spiegazioni ad hoc) a ridefinire o a riaggiustare il mio concetto di corvus. Potrei limitarmi a eliminare l'esser-nero dalla mia definizione (in quanto tale essenzialmente convenzionale) di corvus, dato che qualche corvo, anche se rarissimo, può essere bianco. Lo scienziato tende a giostrare con la differenza tra giudizi analitici e giudizi sintetici. Ricordiamo che i giudizi analitici sono inerenti all'essenza di qualcosa; invece i giudizi sintetici sono enunciati empirici, che in quanto tali possono essere sempre falsificati da qualche esperienza. Per esempio, dopo aver constatato il corvo bianco potrei cavarmela ipotizzando una specie affine al corvo, l’«albus corvus», provvedendo ad articolare definitoriamente - cioè come giudizi analitici - le identità e differenze tra le due specie. In questo senso, come ha mostrato Kuhn (1962; 1977), i mutamenti delle teorie scientifiche non sono tanto l'effetto diretto di nuove scoperte (cioè di esperienze nuove, inattese), quanto piuttosto il risultato del mutamento di contenuto dei termini con cui si definiscono certe entità, come appunto «corvo».

Naturalmente qui ho semplificato al massimo non solo la concezione positivista del significato dei termini generali, ma tutto il dibattito filosofico in corso sulla teoria del riferimento e della nominazione. L'empirismo si basa fondamentalmente sulla distinzione tra «verità definitorie», cioè tra verità stabilite a priori prima di ogni investigazione sperimentale, e verità derivate da generalizzazioni empiriche; cioè, si basa sulla divisione netta tra proposizioni analitiche, tutte a priori, e presupposizioni sintetiche, tutte a posteriori.

Come vedremo, la filosofia della scienza post-empirista ha mostrato come sia in pratica impossibile distinguere verità

 

scientifiche dovute a convenzioni da verità puramente empiriche ad alto livello di generalizzazione. Per esempio, l'esser nero fa parte della definizione di corvo (è un giudizio analitico) oppure è una generalizzazione empirica (un giudizio sintetico)?[3] Una volta smussata la distinzione tra teorico ed empirico, è tutto l'edificio della filosofia empirista a cedere. L'empirista tradizionale è portato a pensare che i nomi propri — come corvus — contengano riferimenti in virtù di una descrizione definita a essi associata, scelta per fornire una sorta di definizione del nome, come accade nei dizionari. Se il fatto d'esser nero entra nella definizione di corvo, e se poi appare un corvo bianco, allora, secondo Quine, colui che chiamerei Epistemico sarà portato a costruire una nuova categoria ornitologica piuttosto che a rivedere la sua definizione estensionale di «corvità». Paradossalmente, quindi, un'epistemologia empirista può avallare delle procedure corazzate contro l'esperienza: siccome definizioni e verità per convenzione non possono essere attaccate dall'esperienza, l'epistemologia empirista tende anch'essa al conservatorismo. Non a caso, proprio in connessione con la teoria del riferimento, ha ripreso piede contro l'empirismo tradizionale una tendenza «realista», la teoria causale del riferimento proposta da Kripke e Putnam. Secondo questa teoria, i nomi propri e quelli generali non hanno definizioni (cioè descrizioni definite a essi associate) ma sono come «cartellini» applicati a fatti di realtà[4].

Tutto lo sforzo costruttivo del teorico consisterà nel salvare la forza legittimante delle regolarità precedenti innestando la nuova esperienza — come il corvo bianco — per quanto erratica, nella teoria, correlando il «mostro osservativo» ad altre regolarità trasversali, ecc.

 

Questo slittamento, molto comune nel lavoro auto-strutturante della scienza, tra proposizioni analitiche e sintetiche, fa saltare appunto uno di quelli che Quine (1961, pp. 20-44) ha chiamato «dogmi dell'empirismo»; e cioè la separazione netta giudizi analitici versus giudizi sintetici, matematica-logica versus scienze empiriche. Le induzioni del tipo «(quasi) tutti i corvi sono neri» spesso si confondono con giudizi sintetici del tipo «un uccello, per essere chiamato corvus, deve essere nero, e... ».

La distinzione netta — che prima dell'empirismo logico è già la distinzione kantiana — tra verità analitiche e verità sintetiche è per Quine uno dei dogmi insostenibili dell'empirismo. L'altro è il suo riduzionismo, la tesi per cui tutte le proposizioni significanti sarebbero equivalenti a certi costrutti logici sulla base di termini in relazione diretta con l'esperienza immediata. Qual è il legame profondo tra questi due «dogmi»? È l'idea secondo cui il campo della scienza è diviso nettamente, tipo bianco/nero, tra due regni diversi: da una parte la matematica e la logica, il campo del tautologico, del puro gioco di ciò che Leibniz chiamava verità di ragione; dall'altra il sapere scientifico vero e proprio, l'unico che ci permetta di conoscere il mondo reale, e questa conoscenza sì basa unicamente sull'esperienza diretta, sulla sintesi a posteriori, producendo ciò che Leibniz chiamava verità di fatto. La critica ingegnosa di Quine lo autorizza invece a formulare un'immagine diversa dell'edificio della scienza.

Il dogma del riduzionismo, scrive Quine (1966, p. 39), sopravvive nella convinzione che ciascuna proposizione, presa di per sé e isolata dalle altre - nel nostro esempio: «il corvo che vedrò svoltando l'angolo sarà nero» - si possa confermare o infirmare. Quine pensa che, al contrario, le nostre proposizioni sul mondo esterno si sottopongano al tribunale dell'esperienza sensibile non individualmente ma solo come un insieme solidale. L'insieme della conoscenza è cioè un sistema. Al centro del sistema mettiamo, come suo hard core, le regole logiche e i fondamentali assiomi matematici; man mano che andiamo verso la periferia del sistema, gli enunciati slittano sempre più verso le «verità di fatto». «La scienza nella sua globalità è come un campo di forza i cui punti limiti sono l'esperienza». Non c'è dicotomia tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche, ma una gradazione di empiricità che aumenta sempre più man ano che si va dal centro alla periferia. Insomma, la scienza, come sistema unitario, ha un centro razionalista e una periferia empirista, ma il sistema nel suo insieme è retto da criteri pragmatisti-utilitaristi. Quali sono questi criteri?

Uno dei criteri cozza con l'onorabilità epistemica intesa dal neo-positivismo: il conservatorismo degli scienziati. In effetti il sistema di Quine è un sistema piuttosto debole, possiamo anche dire che è un sistema in senso pickwickiano (espressione comune tra gli epistemologi, ripresa da Pickwick Papers di Dickens). Esso non è sistematico come lo è il gioco degli scacchi, nel quale anche lo spostamento di una pedina può produrre conseguenze importanti in tutto il quadro della scacchiera. Quello di Quine è piuttosto assimilabile a un sistema biologico, basato cioè sull'omeostasi. L'omeostasi significa che ogni turbamento o attacco alla periferia dell'organismo tende a essere assorbito da quest'ultimo, e quindi reintegrato nell'economia complessiva. La scoperta del corvo bianco può essere uno di questi eventi non particolarmente traumatici per il sistema della scienza: la scienza è conservatrice (non ha il culto empirista del dato di fatto) e non avrà problemi ad assorbire omeostaticamente l'evento discordante. Ma questo conservatorismo — scandaloso per il carnapiano duro e puro — è solo uno dei versanti della pigrizia del sistema del sapere, una pigrizia che equivale all'istinto dì autoconservazione di ogni sistema biologico. L'altro versante è quello della semplicità. Questo criterio, secondo Quine, è comune alla scienza e al senso comune: preferiamo ampliare la nostra ontologia per semplificare le nostre teorie. La fonte della nostra ontologia (del tipo «esistono gli

 

atomi di idrogeno», oppure «esiste il Super-Io freudiano», oppure «esiste lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo nel capitalismo», ecc.) non è unicamente, come crede il vetero-empirista, l'esperienza sensoriale, ma un principio, che opera per lo più inconsciamente, di economicità, cioè di semplicità della teoria. Revisione modernista del rasoio di Occam.

Quindi il filosofo pecca di ingenuità quando cade nel tranello di sentirsi tenuto a giustificare certi enti proposti o supposti dal discorso scientifico, o a criticarne i fondamenti: gli oggetti fisici, le forze o l'energia, la probabilità, le classi, le classi di classi, ecc. (e io aggiungerei: il pensiero inconscio, l'alienazione dell'uomo, la competence linguistica in senso chomskyano, l'archi-traccia derridiana, la società come olòn o tutto, le classi sociali, ecc.). Tutti questi enti per Quine sono solo miti epistemologici, come gli dei di Omero. Ciò che oggi ci fa considerare veri gli oggetti fisici, per esempio, piuttosto che gli dei di Omero, è che i primi si inseriscono con semplicità ed eleganza nel nostro sistema di conoscenza, e non così gli dei di Omero:

 

Ma in quanto a fondamento epistemologico, gli oggetti fisici e gli dei differiscono solo per grado e non per la loro natura. Sia l'uno che l'altro tipo di entità entrano nella nostra concezione soltanto come postulati culturali. (Quine, 1966, p. 42).

 

Questo concetto di «postulato culturale» è stato ripreso, anche se in un contesto diverso, da Kuhn col concetto di «paradigma». Ciò che ci preme qui sottolineare è l'immagine fondamentalmente diversa, rispetto all'empirismo prima maniera, che Quine si fa dell'insieme della scienza: questa, assimilata a un organismo vivente, è solo parzialmente o solo perifericamente connessa all'esperienza diretta, così come l'organismo vivente ha contatto con l’ambiente esterno soprattutto alla sua periferia. Come dobbiamo imbottirci di pellicce se andiamo in Alaska d’inverno, così la scienza moderna è costretta a imbottirsi di teorie complessissime e a ipotizzare enti bizzarri e invisibili – come i quark, o la «stranezza» delle  particelle subatomiche, o le strings della teoria delle corde — quando si trova confrontata a esperienze concernenti il piccolissimo o il grandissimo rispetto alla nostra esperienza normale.

Oggi, mi pare, prevale una visione biologizzante dell’evoluzione della scienza: teorie e paradigmi sono come specie animali, le quali evolvono sulla base del doppio meccanismo darwiniano di mutazione e selezione. Ogni ipotesi scientifica nuova equivale a una mutazione biologica, il confronto con l’esperienza equivale a un processo selettivo. Teorie e paradigmi scientifici non sono quindi visti come specchi, sempre più fedeli, della natura, ma come organismi che sopravvivono in un ambiente esterno, il mondo fisico.

Comunque, già prima della critica di Quine, e indipendentemente dalla teoria dì Duhem (1906)[5] sulla scienza come insieme solidale, come sistema, Popper aveva inaugurato la stagione delle grandi critiche epistemologiche all'empirismo positivistico. La teoria empirista dello sviluppo della conoscenza è basata sulle ripetizioni osservate e sulle obiettive regolarità fenomeniche — è il criterio tradizionale dell'induzione sulla base della regolare ripetizione delle occorrenze. Popper ha inficiato questa teoria facendo osservare che in realtà ciò che fa veramente progredire il sapere scientifico non sono le ripetizioni banali, le regolarità computabili, l'altamente probabile. Al contrario, la scienza procede scommettendo sulle esperienze rare, sulle irregolarità, sull'altamente improbabile. Nei termini della teoria dell’informazione: più un evento è improbabile, più esso è informativo — cioè rilevante, cruciale — per la scienza.

In effetti, se per uscire di casa dal 5°piano prendo l'ascensore anziché infilare la finestra, questo non è perché io abbia capito perfettamente la teoria della gravitazione di Newton; non ho bisogno di conoscere la fisica per sapere che ogni volta che esco dalla finestra del 5° piano mi sfracello sulla strada. Questa credenza ha un valore scientifico basso appunto perché si basa sull'altamente probabile, e quindi ha una legittimità induttiva troppo alta. (Anche se Popper pensa che comunque anche la conoscenza comune si forma sulla base dello stesso criterio con cui si costruisce la scienza più sofisticata: per prova ed errore). Le prove che confermano una nuova teoria, invece, sono per lo più fenomeni - almeno così appaiono - di dettaglio. Per esempio, una certa irregolarità dell'orbita di Mercurio - irregolare per la teoria di Newton –confermò invece la teoria di Einstein, in quanto sulla

 

base della nuova teoria quest’orbita diventava regolare e prevedibile. È questa anche l'inclinazione che Popper dà al concetto di metodo sperimentale: c'è ben poco di sperimentale nel buttarsi giù dalla finestra per dimostrare la forza di gravità, l'esperimento scientifico è invece una manovra abile che mira a falsificare una data teoria. Ora, una teoria affermata può essere falsificata solo in certi punti, quelli appunto che ispirano le «montature» sperimentali; per lo più questi punti riguardano fenomeni rari e improbabili, ed è in quanto improbabili che la or occorrenza ha il potere di falsificare una teoria oppure di corroborarla. Se paragoniamo, con Wittgenstein (1922)[6], la scienza a una forma di ingegneria — «il ponte non deve crollare» — possiamo allora dire che una teoria scientifica equivale non a costruire un ponte che non cada (questo può accadere anche per mera fortuna), ma all'essere in grado di indicare a quali condizioni precise il ponte, se non fosse costruito come si deve, crollerebbe.

Se per l'empirismo lo sviluppo della conoscenza scientifica avviene grazie alla computazione induttiva delle regolarità fenomeniche, per il popperiano essa avviene, se mi si permette l'immagine, attraverso un gioco tra il Poeta e il Falsificatore. Per Popper prima c'è il «poeta», cioè chi inventa un dato mito esplicativo, una narrazione per render conto dei fatti naturali, e poi - questo prima e poi sono metodologici, non tanto cronologici - subentra il severo sperimentatore, «doppio» ectoplasmatico del Poeta, che imbastisce esperienze precise e controllabili per vedere se, in certi casi cruciali, il mito prevede ciò che accadrà. Il dialogo senza fine tra l'inventore di fiabe-teorie e il falsificatore di queste costituisce quello spirito critico indispensabile alla scienza.

Le ricostruzioni del sapere da parte dell’empirismo positivista e del razionalismo critico comunque differiscono a partire da uno sfondo comune: entrambe le epistemologie vogliono legittimare un modo di operare, ma non esattamente lo stesso. L'empirista tiene soprattutto a legittimare il sapere scientifico già costruito, o quello che verrà costruito, mostrando che esso è effettivamente verificabile, che esso cioè è vero o falso. Tutto ciò che non è verificabile è «senza significato». Il popperiano tiene invece soprattutto a demarcare ciò che è scientifico – che non coincide necessariamente con il razionale tout court - da ciò che non lo è, pur avendo esso significato; non gli interessa insomma garantire la verità del sapere scientifico mostrandone la corretta derivazione dall'esperienza. Per l'empirista non c'è veramente salto dalle esperienze alle teorie, in quanto per lui l'esperienza prima o poi suggerisce le teorie capaci di descriverla; per il razionalista critico invece ciò che conta non è l'edificazione induttiva delle teorie, ma le condizioni a partire dalle quali queste possono essere confutabili, quindi scientifiche. Per l'empirista la legittimità di una teoria viene dalle sue origini, dal modo in cui è stata ricavata da una serie di esperienze; per il razionalista la legittimità di una teoria invece dipende dal tipo di esperienze costruite per falsificarla, quindi da esperienze scientificamente rilevanti, che essa teoria permette di ispirare e di rendere interessanti.

 

(Il potere che hanno i fatti di «suggerirci» teorie è cosa talmente ovvia che, se vi si insiste nelle argomentazioni filosofiche, la cosa rischia di apparire falsa. In effetti, la teorizzazione filosofica è sempre calata nello «stato storico» di una controversia, ed è in relazione ad altre teorie filosofiche — anche se spesso presenti in absentia — che una teoria filosofica assume senso. Una tesi filosofica, ancora più di una scientifica, non è mai un «pieno» che possa ignorare tutte le teorie con cui compete: il significato vero di una teoria è sempre differenziale. Si dà sempre in qualche modo un bivio filosofico — costituito dal dibattito precedente — e quindi ciò che vien detto equivale alla scelta di una via del bivio piuttosto che dell'altra. Quanto allo scienziato, questi, anche se molto fantasioso, deve tener conto di una serie di dati, ma lo fa come il giocatore di poker tiene conto delle carte che ha ricevuto in prima battuta; le considera cioè come una dote, un lascito del passato, che egli deve saper usare per vincere scartandone alcune. Un giocatore di poker che giocasse in modo pedissequo solo sulla base delle carte ricevute sarebbe un pessimo giocatore. I famosi fatti, o dati, sono delle specie di carte con cui la scienza deve giocare: esse suggeriscono sì teorie nel senso che richiedono una ratio che stabilisca tra loro un nesso causale. I fatti più che «suggerire» le teorie le invocano: inducono negli scienziati responsive quel senso di curiosità, di sfida, di eccitazione, ecc., che li porta ad azzardare sempre nuove ipotesi[7].)

 

Con il razionalismo critico si compie un primo passo decisivo verso quella che sarà l'identificazione «hegeliana» da parte dei new philosophers tra il sapere oggettivo e la storia di questo sapere. Benché in Popper si tratta comunque di discriminare teorie - distinguere quelle realmente scientifiche, cioè falsificabili, da quelle non scientifiche – comunque viene rotta la continuità non-problematica tra esperienza e teoria, e si afferma che il ricorso all'esperienza prende senso all'interno di un dibattito tra teorie. L'esperienza cessa di essere origine e garanzia delle teorie scientifiche, essa viene sempre dopo la teoria e svolge una funzione di punteggiatura, di filtraggio critico in una divergenza teorica. È in questo senso che, per Popper, «la ricerca scientifica comincia e finisce con problemi».

A dire il vero, già prima di Popper la presupposizione autoritaria dell'esperienza come garante delle induzioni era stata confutata dal «pragmaticismo» di C. S. Peirce, e in particolare dalla sua teoria dell'abduzione, in quanto distinta dall'induzione e dalla deduzione. Per Peirce tra questi tre tipi di inferenze solo l'abduzione porta a generalizzazioni, cioè alla formulazione di leggi scientifiche. La generalizzazione è per sua essenza ipotetica, ed è il frutto dell'applicazione di un'abduzione a una conclusione inferita induttivamente[8].

Anche secondo Peirce gli empiristi, a partire da Bacone, hanno sopravvalutato la funzione dell'induzione, riducendo la

 

conoscenza a una derivazione dall'accumulo di dati registrati. In realtà le generalizzazioni — in quanto portano alla formulazione di leggi universali — sono sempre frutto di ipotesi più o meno azzardate. La conoscenza è una sorta di scommessa per il futuro: è anticipazione, previsione, rischio ipotetico che solo dopo verrà confrontato con i dati reali.

Per abduzione Pierce intende un argomento di questo tipo[9]:

 

Queste biglie sono bianche; (Risultato) (ma)    tutte le biglie di quella scatola sono bianche; (Regola) (allora) queste biglie vengono da quella scatola (forse). (Caso)

 

Si tratta, come si vede, della formazione dell'ipotesi, in quanto questa consiste in un'inferenza «a ritroso», a partire cioè dal Risultato. Questo modo di inferenza, per Peirce vero produttore di nuova conoscenza scientifica, si distingue quindi dalla deduzione:

 

Tutte le biglie di quella scatola sono bianche; (ma)      queste biglie vengono da quella scatola; (dunque) quelle biglie sono bianche (necessariamente).

(Regola)

(Caso)

(Risultato)

 

e dall'inferenza induttiva:

Queste biglie vengono da quella scatola; queste biglie sono bianche; (dunque) tutte le biglie di quella scatola sono bianche (sino a prova contraria).

(Caso) (Risultato)

(Regola)

 

Perché questa insistenza peirciana sull'abduzione, sul valore strategico dell'ipotesi? Perché l'ipotesi abdotta è tutt'al più ispirata dai dati di fatto, ma non è indotta né comandata da questi. C'è una soluzione di continuità, un salto arbitrario, un rischio e pericolo irriducibili, tra i dati e l'ipotesi-teoria. La «morale» dell’abduzione, in contrapposizione all'idealizzazione computativa empirista, è che fare scienza occorre avere immaginazione, occorre disormeggiarsi dai fatti e abdurre, cioè inventare e avventare ipotesi. Popper, con la sua identificazione delle teorie a miti che possono avere la più svariata e casuale origine, non ha detto in fondo qualcosa dì molto diverso. Possiamo considerare quindi ogni teoria un ‘racconto’. La differenza è che Popper non si interessa alla formazione dei racconti (non gli interessa nemmeno stabilire se siano prodotti di abduzioni o meno), ma solo alla loro valenza metodologica, alla loro capacità o meno di produrre tentativi di confutazione. Mentre Peirce si interessa all'origine dei miti, al modo e al quando vengono suggeriti dalla frammentarietà dell'esperienza.

Ma allo stesso tempo con Peirce vien meno la prevalenza del criterio della «legittimazione» delle teorie scientifiche: descrivendo l'abduzione, il filosofo americano mette l'accento sul carattere costruito del sapere scientifico, cioè presume una discontinuità tra sapere empirico e teoria scientifica. Abducendo teorie, l'uomo di scienza più che generalizzare le esperienze per induzione in realtà interpreta il mondo, rischia cioè attribuendo un senso che colleghi elementi sconnessi e disparati. Se dall'esempio specifico, «poliziesco», delle biglie e della scatola, passiamo alle universalizzazioni scientifiche, notiamo in effetti questo: per Peirce la regola - cioè la legge scientifica, l'ordine ipotetico nei fenomeni - non viene tratta dalle regolarità, ma viene avanzata attraverso un atto creativo, rischioso, che «regolarizza» i fenomeni dall'esterno, per così dire. È come se, a differenza dell'induzione, l'interpretazione universalizzante suggerisse i pezzi mancanti di un quadro affinché le macchie colorate possano comporsi in una figura. Viene quindi sottolineata una discontinuità tra regolarità e regole: la rilevazione di regolarità nei fenomeni non basta a generare ipotesi e teorie scientifiche, occorre la proposta di una «regola» ipotetica che interpreti queste regolarità, che le colleghi tra loro, ri-conoscendo quindi un ordine

 

che dia senso alle singole occorrenze, più o meno regolari che siano. Il sapere scientifico diventa insomma una forma di interpretazione specifica.

 

3. Critiche allo spirito critico

 

Le critiche che a un certo punto hanno cominciato a investire il razionalismo critico riguardano vari aspetti di esso. Si è rilevato innanzitutto che il criterio popperiano rischia di ammannirci un'immagine troppo ideale, quindi falsata, della maturazione storica della scienza. A partire da Kuhn (1962; 1977), si è fatto rilevare che, di fatto, lo spirito critico, essenziale per Popper al «gioco» della scienza, non è stato mai così indispensabile, concretamente, nelle scienze. Questo perché, fanno notare gli storici della scienza, anche le teorie più potenti e affermate sono ampiamente confutate da una miriade di fatti e osservazioni recalcitranti alla teoria. Se il falsificazionismo popperiano venisse seguito sul serio nel lavoro e dibattito scientifici, nessuna teoria, soprattutto se ai suoi inizi, dovrebbe essere accettata, perché di fatto ogni teoria è falsificata da un numero più o meno ampio di fatti. In effetti, come ha fatto osservare Kuhn, gran parte del lavoro scientifico — per lo meno in quelle fasi che egli chiama «scienza normale», e che caratterizzano la maggior parte del lavoro degli scienziati — consiste proprio nel cercare di risolvere puzzles scientifici, cioè nello sforzo di far quadrare fatti recalcitranti alla teoria accettata. Ciò che per Popper dovrebbe confutare una teoria scientifica è al contrario la linfa che permette, attraverso lo sforzo ingegnoso dei tanti scienziati normali, dì rafforzarla. Come ci ha fatto toccare con mano Feyerabend a proposito delle teorie «propagandate» da Galileo, ogni nuova teoria, proprio in quanto nuova, non avendo avuto il tempo di «normalizzarsi» nel corso di un prolungato dibattito scientifico, emerge in un mare di contro-fatti, di fenomeni che la confutano. Occorre il lavoro di formica degli «scienziati normali» — di quelli cioè che accettano una data teoria, o un dato paradigma scientifico, in modo non critico — affinché la teoria si rinsaldi. E si rinsalda perché i «normali» elaborano una serie di sotto-teorie di puntello, scoprendo o sottolineando fatti nuovi che vengono a confermare la loro visione, ecc. Il lavoro ingegnoso di soluzione dei rompicapi — cioè delle anomalie che confutano la teoria — rafforza un dato paradigma scientifico proprio in quanto i suoi sostenitori non si arrendono alla confutazione che certi fatti infliggono a questo paradigma. In effetti, a parte i periodi chiamati da Kuhn di «scienza straordinaria», cioè di conflitto esplicito tra i paradigmi scientifici in quanto tali, la maggior parte degli scienziati accetta di operare all'interno del paradigma dominante nel proprio settore, limitandosi a cercare spiegazione per i fatti anomali.

Del resto, se per esempio si chiedesse ai fisici quanti tra loro lavorano cercando effettivamente di falsificare la teoria della relatività o la meccanica quantistica, si vedrebbe che sono ben pochi, forse nessuno, a farlo. La stragrande maggioranza risponderà piuttosto che queste teorie sono l'A-B-C della loro ricerca, molto più regole paradigmatiche da seguire che teorie da falsificare. Anzi, chi, di tanto in tanto, pretende di falsificarle, viene sospettato per lo più di arrogante ciarlataneria. Così la kuhniana «scienza normale» nutre se stessa: usando certe teorie come paradigmi, cioè come regole del lavoro scientifico (piuttosto che come teorie da discutere, falsificare, corroborare, confutare, ecc.), gli scienziati «medi» - non i grandi innovatori, gli «straordinari» - contribuiscono a normalizzare quelle teorie paradigmatiche entro cui essi operano e pensano.

Insomma, non è tanto lo spirito critico a generare il progresso della scienza - molto spesso i teologi rivelano molto più spirito critico, in senso lato, di tanti scienziati. C’è progresso del sapere grazie piuttosto alle regole interne, implicite, dell'istituzione scientifica stessa, che si incarica di selezionare

 

darwinianamente teorie e paradigmi che si adattano meglio a certi criteri — vedremo poi meglio quali.

Certo, i razionalisti critici non negano che la storia effettiva della scienza includa delle impurità, per esempio che un innegabile spirito conservatore degli uomini di scienza, soprattutto dei più anziani, abbia impedito a lungo di prendere atto di certe falsificazioni e delle gravi conclusioni teoriche che ne derivavano. Si sa che anche dopo il celebre esperimento, considerato cruciale, di Michelson e Morley del 1887, il quale confutava con precisione la teoria dell'etere allora dominante, la maggior parte degli scienziati ha continuato a credere alla teoria dell'etere, compresi gli stessi Michelson e Morley[10]; essi hanno cercato anche, come uno «scienziato normale» sempre farà, delle spiegazioni ad hoc per accordare il dato sperimentale alla teoria che noi oggi pensiamo sia stata confutata da quell'esperimento[11]. Ma interpretiamo quell’esperimento come cruciale con il senno di poi, cioè con il senno di Einstein, che con la teoria della relatività ristretta (nel 1905) propose un nuovo paradigma, che è ancora il nostro. Ora, secondo il popperiano queste resistenze irrazionali, le manovre retoriche di persuasione dei colleghi, il sostegno cocciuto a teorie confutate, ecc., non devono entrare nella ricostruzione puramente razionale della scienza — cioè nel modo in cui idealmente opera la scienza quando è scienza. Per lui queste scorie storiche, per dirla alla Lakatos, vanno nelle footnotes della «storia razionale». Il popperiano, certo più dell'empirista, è interessato alla storia effettiva della scienza, ma separando il grano dall'oglio in questa storia: non tutto nella scienza è razionale, e a lui interessa la parte razionale, cioè «critica».

In questo modo a Popper sfugge l'economia conservatrice della scienza. Questa economia ha talvolta una sua logica paradossale: essa arriva alla spavalderia epistemologica di proporre di cambiare certe leggi fondamentali della logica, cioè i criteri della nostra razionalità, pur di conservare la propria teoria, quando questa non appare logicamente plausibile. Ciò che dovrebbe costare di più — le leggi logiche — viene svenduto in cambio del piatto di lenticchie della teoria accettata.

Nel nostro secolo uno degli esempi più eloquenti è stato il tentativo — a tutt'oggi niente affatto rientrato — di correggere la logica detta classica (per distinguerla da quella intuizionista) per risolvere certi problemi della meccanica quantistica. In particolare, un esperimento della microfisica, quello dell'interferometro a fori, ammetterebbe una spiegazione razionale coerente solo se si abbandonasse in parte la logica classica, la nostra razionalità; basterebbe abbandonare il cosiddetto principio di distributività della congiunzione logica rispetto alla disgiunzione, e la sua forma duale[12]. Talvolta, però, l'essere troppo rivoluzionari e sovversivi in logica può essere un modo per essere molto conservatori in fisica o altrove, cioè per continuare a credere alle teorie a cui si tiene. Nei termini della visione di Duhem-Quine: si compie una rivoluzione al centro logico-matematico del sistema, perché si è affezionati a certi aspetti della periferia.

Comunque, la tesi kuhniana non si limita a sottolineare una certa pigrizia strutturale della scienza; non le basta ricordarci che gli scienziati, in quanto esseri umani, poveretti, spesso e volentieri non sono razionali, né razionalisti critici; essa pretende anche dirci che non solo di fatto la falsificazione empirica non basta a demolire una teoria, ma che questa mancata severità è una fortuna per la scienza. In effetti, la maggior parte del lavoro della scienza consiste proprio nel trovare man mano spiegazioni – ispirate alla teoria o paradigma prescelti, per lo più quelli dominanti all'epoca - che trasformino queste falsificazioni in nuove scoperte della teoria che si adotta. La scienza normale è un lavorio incessante di riciclaggio di ciò che confuta una teoria a prova a favore di questa teoria. Non è questo solo il modo in cui di fatto la scienza opera, è la «regola» del suo sviluppo. Ma questo Kuhn può dirlo perché già il suo obiettivo non è più, come nel positivismo e nel

 

razionalismo critico, la legittimazione di una certa classe di enunciati teorici; non si tratta di chiarirci quali sono le condizioni grazie a cui una teoria può essere considerata scientifica o no, vera o falsa, sensata o sinnlos, senza senso. Per Kuhn la scienza si legittima da sé, essa non ha bisogno dell'epistemologo per (credere di) sapere se sta operando scientificamente o meno.

Mutatis mutandis, nell'arena ristretta della filosofia della scienza si è operato lo stesso passaggio che, a più ampio raggio, si operò nel «passaggio» da Kant a Hegel. Si prenda la questione della morale. Kant pensava che il filosofo non dovesse entrare nel merito delle dispute etiche, ma limitarsi a proporre un criterio universale di eticità, valevole per tutte le epoche e per tutte le comunità umane; da qui l’imperativo «la massima del nostro agire deve essere sempre pensata come il principio di una legislazione universale». Per Hegel invece la moralità non è altro che, quasi tautologicamente, vivere secondo i costumi del proprio paese. Nel passaggio da Kant a Hegel non si tratta solo di una differenza tra due teorie dell’etica, ma del cambiamento del criterio di ciò che c’è da dire filosoficamente sull’etica. Analogamente, i new philosphers of science non contrappongono a empiristi e razionalisti un metodo diverso di legittimare certi enunciati scientifici: essi cambiano gioco, nel senso che pur continuando a parlare di scienza, di teorie, di metodi, ecc., non parlano in realtà degli stessi oggetti, nella misura in cui l'oggetto di un discorso è relativo alle regole e alle condizioni di questo discorso; così come il pallone usato nel calcio potrebbe essere materialmente identico a quello usato nella pallacanestro, ma non è lo stesso perché è diverso il suo uso nei due giochi. Ovvero, per Kuhn e per chi segue la sua scia il problema non è quello di legittimare, dall'esterno della scienza, ciò che è valido scientificamente e delegittimare ciò che non lo è, ma di descrivere dall'esterno il modo in cui all'interno delle comunità scientifiche le teorie si legittimano o si delegittimano tra loro. È come il passaggio dallo «spirito soggettivo» allo «spirito oggettivo» in Hegel: il dover legittimare certi discorsi (e quindi di demarcare degli enunciati rispetto ad altri) cessa di essere l'esigenza soggettiva del filosofo, e si rivela essere esigenza soggettiva della comunità scientifica, esigenza che il filosofo ha il compito di descrivere, semplicemente. Ciò che appariva come un problema performativo della filosofia della scienza, diventa un problema performativo della scienza stessa, mentre il problema della filosofia diventerà quello della descri­zione o della denotazione più felice di questa problematici­tà performativa.

 

4. La scienza minore

 

La new philosophy of science ha irritato filosofi ed epistemologi formatisi a certi assunti del neo­empirismo e del razionalismo. L'irruzione dell'«anarchismo metodologico» è stata paragonata alle invasioni barbariche e all'annuncio di un nuovo Medio Evo. Alcuni di loro[13], riconoscendo la discendenza popperiana di Feyerabend, sono giunti alla conclusione che se il popperismo genera feyerabendismo, allora «c'è qualcosa di marcio in Danimarca», cioè in Popper. La colpa di Popper (come, secondo loro, quella di Peirce) sarebbe di aver messo in pensione la vecchia cara induzione. Da qui una reazione restauratrice del dogma induttivista empirista: è fondamentale che le teorie scientifiche derivino in qualche modo dai fatti osservati. Schivando la questione dell'origine delle teorie, Popper avrebbe aperto le porte della Civiltà scientifica ai nuovi barbari.

Un compromesso più sofisticato è stato tentato da Lakatos. Questi ha preso atto dei risultati non-razionalistici delle analisi storiche di Hanson, Kuhn, Feyerabend, ma allo stesso tempo ha cercato di riaffermare la vocazione legittimante dell'epistemologo: questi dovrebbe svolgere anche, ed essenzialmente, una funzione normativa, quindi dovrebbe tirare le

 

orecchie allo scienziato quando questi si allontana – magari senza accorgersene - dalla retta via della scientificità. Con Lakatos non siamo più all'Inquisizione epistemologica popperiana, ma restiamo in un tribunale, anche se di Cassazione. In questa ottica Lakatos (1976) ha potuto obiettare a Kuhn, tra le altre cose, che il suo modello torico della scienza non ci aiuterebbe a criticare un'eventuale involuzione dell'astronomia verso l'astrologia, magari a seguito della crisi del nostro moderno paradigma astronomico.

Si tratta però di una possibilità che noi, «dal basso» del nostro presente, non siamo in diritto di valutare. E’ alquanto insolente, da parte dei filosofi, pensare che essi possano vedere più in là nelle cose dell'astronomia degli astronomi stessi. In questo senso la critica feyerabendiana è paradossalmente un richiamo a un certo buon senso: se un'intera comunità di gente colta, rispettabile, competente, accademicamente intronata, qual è la comunità degli astronomi, si converte, senza trovare valide resistenze, all'astrologia, ci è lecito pensare che avrà avuto le sue buone ragioni. Se ciò avvenisse, dobbiamo pensare che questa mutazione non si sarebbe prodotta per un repentino capriccio, per una paralisi dell'intelligenza di un'intera comunità scientifica, ma verosimilmente essa sarebbe accaduta nel contesto di un cambiamento profondo della modellistica scientifica nel suo insieme. Si può star certi, insomma, che i neo-astrologi troverebbero un ottimo epistemologo per legittimare la scientificità del nuovo paradigma astronomico. Del resto, secondo le ricostruzioni storiche di Feyerabend, molto raramente i metodologi hanno preannunciato o inventato qualche nuovo paradigma scientifico, qualche nuovo metodo; anzi, molto spesso hanno svolto una funzione reattiva di freno conservatore nei confronti delle nuove temerarie teorie. Valga per tutti il caso di Mach – un filosofo che Feyerabnd ha sempre molto ammirato - sempre ostile per ragioni filosofiche alla fisica atomica.

Ma il fatto stesso che un'obiezione del genere sia stata avanzata esprime la lacerazione della moderna filosofia della scienza quanto alla propria vocazione: incerta tra un «gioco» diremmo kantiano, quello della prescrizione normativa di ciò che è scienza, e un altro «gioco» che definiremmo in senso lato hegeliano, quello della descrizione del farsi storico della scienza. Quindi, la new philosophy of science non ha veramente confutato le ricostruzioni empirista e razionalista, ha semplicemente spiazzato la funzione della legittimazione. Non si tratta tanto di uno scontro tra teorie concorrenti, quanto di una concorrenza storica tra due «forme di vita» che la filosofia della scienza qui incarna. Da una parte c’è il filosofo che si autorizza da sé come legislatore, il cui compito sarebbe fornire i criteri formali, universali, per discriminare a priori (senza cioè entrare nel merito delle singole questioni e contenuti) ciò che è morale da ciò che non lo è (vedi Critica della ragion pratica), o ciò che è verificabile e quindi ha senso da ciò che non è verificabile e quindi non ne ha (vedi Carnap), o ciò che è scientifico da ciò che non lo è (vedi Logica della scoperta scientifica di Popper) ecc. Dall'altra c’è il filosofo che in un certo qual modo si include nel proprio oggetto, o che si pone tutt'al più come suo prolungamento, succursale, o contrappunto, in una posizione descrittiva che ha la funzione non di condannare o garantire i discorsi-oggetti ma di risolverli, ovvero di scioglierne la problematica in una ripresa che la annulla e la conserva allo stesso tempo.      

Un ampio dibattito è presente anche all'interno del campo kuhniano — per esempio, attorno alla perspicuità o meno della distinzione tra «scienza normale» e «scienza straordinaria». Non discuterò qui le obiezioni di carattere in qualche modo storiografico avanzate a proposito di questa distinzione. Comunque, credo che Feyerabend, oppositore della nozione di scienza normale, non abbia valutato appieno il valore della differenza. In effetti, è vero che lo storico della scienza può avere delle difficoltà a discriminare con esattezza

 

periodi «straordinari» e periodi «normali»; ma credo che la distinzione kuhniana non abbia un significato solo storiografico, piuttosto andrebbe interpretata come una tensione intrinseca ai discorsi scientifici. Nella speculazione scientifica, probabilmente, esiste un polo «normale» — la soluzione di puzzles all'interno di un paradigma universalmente condiviso — e un polo «straordinario» nella misura in cui lo stesso scienziato può accorgersi che una possibile spiegazione specifica del rompicapo, se portata alle sue estreme conseguenze, se tirata oltre il suo ambito esplicativo specifico, può mettere in questione lo stesso paradigma che gli fa da riferimento.

Feyerabend è d'accordo sul fatto che per lo più gli scienziati mancano di spirito critico (nel senso popperiano) e che sono «normali» nel senso che mancano di audacia innovativa. Ma mentre per Kuhn questo è un dato di fatto storico che fa parte della dinamica stessa della scienza, per Feyerabend si tratta di un limite da contestare. Feyerabend denuncia insomma la scienza normale come un mero conformismo che blocca il progresso della scienza, e accusa Kuhn di aver così concesso un alibi epistemologico agli scienziati sclerotizzati sordi alle novità.

Certo questa critica è moralista — il moralismo dei libertini non è meno ferreo di quello dei censori puritani — e non confuta realmente la tesi kuhniana. In effetti, è vero che Feyerabend non condivide la vocazione prescrittiva delle visioni empirista e popperiana, da qui il suo provocatorio «tutto va bene», che ha questo senso: «il mio compito non è prescrivere alla scienza il suo Metodo, insomma, non accetto il ruolo di giudice della scientificità». Ma d’altro canto è pur vero che egli non rinuncia al ruolo critico della filosofia, anche se «critico» in un senso più vicino a quello della Scuola di Francoforte che al senso popperiano. Non a caso lo stesso Feyerabend (1985) afferma di voler elaborare un'«antropologia» della scienza che stia alla storia delle scienze come il marxismo sta alla storia politica: la sua ricostruzione del cammino della scienza non è imparziale e neutra ma, come il marxismo, si vuole anche e soprattutto critica, predicazione, denuncia, lotta emancipazionista. Questa sua parzialità rende su questo punto il suo discorso commensurabile a quello popperiano, dato che moralismo e immoralismo si determinano entrambi rispetto all'asse morale. Questo messaggio morale diventa esplicito quando Feyerabend ci assicura che il suo anarchismo favorisce il progresso (che però non specifica mai chiaramente) della scienza. La causa del progresso, che giustifica una critica a ciò che lo intralcia, mette in secondo piano, inevitabilmente, la ricostruzione di come la scienza abbia effettivamente proceduto. Ma, come già in autori così diversi come Adorno (1979; 1981) o Foucault, questa critica della mediocrità conservatrice sbocca, in modo piuttosto paradossale, in una rivendicazione squisitamente aristocratica del ruolo predominante del genio nella scienza e nella società. Di fatto, Feyerabend persegue un modello che chiamerei patrizio dell'epistheme.

Tutto procede, insomma, come se Feyerabend considerasse veri scienziati, pienamente degni di questo nome, solo individui della taglia di Galileo, Newton, Planck o Einstein, autori di fondamentali rivoluzioni scientifiche. Una storia della scienza solo di alti profili contrasta però con la tendenza predominante nella storiografia contemporanea in generale, che tende a concentrarsi - al di là della storia diplomatica recitata da sovrani, geni e conquistatori - proprio sulle non meno determinanti «lunghe durate» — sulla «storia normale» oserei dire —, ovvero sulle mentalità che perdurano per secoli, sulle modificazioni lente del costume tra la gente comune. Feyerabend si comporta come uno storico che nell'Antica Atene vedesse solo Pericle, Socrate e Alcibiade, e non anche il ruolo svolto dai meteci, dagli schiavi, dai mercanti, dalle donne. Ora, in questo senso, la scienza normale è la scienza dei meteci, delle talpe spesso ottuse della ricerca — benché, su questo Feyerabend ha probabilmente ragione, sono proprio i «meteci» a occupare la maggior parte delle cattedre scientifiche.

 

Come ogni libertario radical, Feyerabend non ammette che uno sbocco obbligato della Rivoluzione, compresa quella scientifica, sia il potere di una ‘normalità’. Si nota in effetti un parallelismo tra la scienza normale kuhniana — tutta intenta a mettere ordine nelle pratiche esplicative all'interno di paradigmi e regole indiscusse — e la burocrazia; anche se, ahimè, si ha spesso la sensazione che la burocrazia moderna per lo più tenda a creare più rompicapi che a risolverne[14].

Spesso, leggendo Feyerabend, si avrebbe voglia di calmare il suo entusiasmo per la «rivoluzione permanente», o ininterrotta, nella scienza e nella cultura, ricordando le profetiche parole di Kafka a Janouch, quando incrociarono un corteo di operai socialisti:

 

Costoro... credono di dominare il mondo. Ma in realtà s'ingannano. Alle loro spalle ci sono già i segretari, i funzionari, i politici di professione, tutti i sultani moderni ai quali essi spianano la via del potere.[15]

 

I sultani moderni della scienza normale non sono già sempre alle spalle delle grandi figure rivoluzionarie della scienza, come ci sottolinea a modo suo Kuhn?

La feyerabendiana antropologia della scienza, in quanto è una forma di vita particolare tra altre, puntella quindi un progetto di critica emancipativa. Prima che Bild (immagine) dell'effettivo fare scientifico, essa pare proporre una Bildung (edificazione, educazione) del grande scienziato e del cittadino nell'era del predominio della scienza e della tecnica. Lo si vede dal modo in cui Feyerabend fa ricorso al concetto di progresso. Se egli da una parte mette in difficoltà il razionalista critico mostrando che il progresso scientifico non è avvenuto secondo la precettistica razionalista, d'altra parte non mette in dubbio che progresso ci sia stato. Così, da una parte egli sostiene (a ragione) che la fisica di Aristotele e la meccanica galileiana sono incommensurabili - il che non vuol dire tra loro intraducibili o incomparabili, come credono i critici ingenui del «relativismo». D'altra parte egli non nega che da Aristotele fino a oggi progresso ci sia stato. Sembra però che egli non intenda questo progresso né in un senso «realista» né in un senso «strumentalista», non cioè come un aumento della nostra conoscenza oggettiva del mondo, ma nemmeno come un allargamento del nostro potere tecnologico sulla natura. Né in senso popperiano, come aumento del grado di verosimiglianza degli enunciati scientifici. Ma allora, cosa significa «progresso» per lui?

A nostro avviso, riconoscere il successo, per esempio, del galileismo — cioè la veridicità che gli attribuiamo retrospettivamente — equivale a riconoscere la sua capacità di essere diventato appunto scienza normale. Feyerabend ha mostrato come una teoria nuova, e quindi debole — perché manca ancora del tessuto di esperienze corroborative e di scienze ausiliarie indispensabili alla propria affermazione — debba pur barare, ì primi tempi, come barò Galileo, secondo lui, alla sua epoca; se non altro per guadagnare tempo e potersi rafforzare nel frattempo. Ma guadagnare tempo per che cosa, se non per diventare appunto, a sua volta, scienza normale? Se l'anarchico analizza il modo di procedere, alquanto disinvolto metodologicamente, di Galileo, ciò avviene perché il suo avversario — il razionalista e il positivista – riconosce la vittoria di Galileo nella scienza; Feyerabend e il suo avversario condividono questo riconoscimento. Ma se Feyerabend non contesta questa vittoria galileiana, e se d’altra parte egli non crede che la vittoria di una teoria consista nella sua maggiore veridicità oggettiva rispetto a un'altra teoria, allora la conclusione è obbligata: la vittoria consiste nel fatto che teorie audaci e inedite — come quella di Copernico — grazie (anche) a Galileo si sono «normalizzate».

Naturalmente, questo dibattito intorno alle grandi opposizioni – eccentrità versus consuetudine, scienza normale versus straordinaria, gerarchia versus anarchia, ecc. -- investe anche il campo della riflessione critica sulla società. Feyerabend riprende la tesi di J. S. Mill, il quale raccomandò

 

che vi sia la più ampia libertà di svolgere ogni attività inconsueta affinché col tempo emergano chiaramente quelle che meritano di diventare consuetudini[16].

 

A Mill faceva già eco all'epoca il dottor Stockmann di Ibsen (1882) nel dramma Un nemico del popolo, l’«anima bella» che avendo detto ai suoi concittadini delle verità sgradevoli, che non facevano comodo a nessuno di loro, per questo viene bandito dalla maggioranza rumorosa e compatta della sua città. Certo, oggi come allora vanno difesi tutti i Nemici del Popolo — da Sacharov a Chomsky, da Spinoza al marchese de Sade, da L. F. Céline a Ezra Pound, da Solgenitsin a Toni Negri e a Aung San Suu-ky...

 

(Questa simpaticissima difesa del dissenso contro la dittatura delle maggioranze compatte ha se non altro la funzione di gettare qualche dubbio, e non solo di carattere etico, sul senso della radicale svolta pragmatista della nostra cultura, dopo Nietzsche e Dewey. Nell'ottica pragmatista, le verità sgradevoli e spiacevoli tendono a non aver cittadinanza, dato che la verità nella sua essenza è considerata posta al servizio completo della Volontà di Potenza, e quindi dell'utilità, del piacere, del desiderio, ecc., del volente potente — della maggioranza della gente, quando questa ha il potere. Nelle nostre società «post-moderne», la verità sempre più tende a essere percepita come un servizio reso ai consumi e ai pregiudizi delle maggioranze compatte, oltre che silenziose. Il dissenso ha nella nostra forma di vita un ruolo problematico, sia a livello di visioni politiche, sia a livello di epistemologia e filosofia della scienza. Le concezioni della verità (politica e scientifica) come funzione del consenso più largo possibile, e dell'utilità generale, non portano a uno schiacciamento, se non altro filosofico, del dissenso?[17])

 

Eppure, nella ripresa feyerabendiana del Liberty milliano si infiltra un'incoerenza: mentre il «diventar consuetudine» sembra qui essere eletto giudice della validità di certe eccentricità, stranamente però allo stesso tempo il giudice viene condannato. La consuetudine — che poi è la «scienza normale» kuhniana — decreta la vittoria di alcune eccentricità; ma il filosofo, dopo aver riconosciuto questo, pretende poi di condannare la consuetudine stessa come una sconfitta della libertà e un ostacolo al progresso. O diciamo che il progresso consiste solo nella critica e nelle discussioni permanenti (ma nemmeno Mill arriva a tanto, dato che considera le consuetudini future il criterio per giudicare le novità di oggi); oppure diciamo che il progresso consiste nella normalizzazione, in una certa «governabilità» come si dice in politica, anche se provvisoria e parziale. «Normalizzazione» non significa necessariamente fine della critica e del dissenso, ma la loro sospensione di fatto, benché temporanea, all'interno di un paradigma-consuetudine che una comunità assume come proprio. La critica e la discussione non hanno se stesse come fine, almeno nella scienza; esse, per dirla in termini nietzschiani, appaiono finalizzate alla Macht, al potere o potenza. Perciò anche Napoleone, per sconvolgere l'Europa, ebbe bisogno dell’appoggio della Chiesa e delle burocrazie.

La scienza normale, bistrattata da Feyerabend, è quell'umile lavoro di manovalanza che rende poi possibile l'impatto dei geni e delle rivoluzioni scientifiche. È quanto rilevava Giorello (1979, pp. 9-10):

 

Dopotutto, non è Feyerabend che ha davvero preso sul serio gli standard (= i metodi affermati)? ... Feyerabend ha mostrato come ci si libera dalle invisibili mura della «gabbia incantata», cioè ... come Galileo ... si è reso consapevole dello «spessore» delle regole semplicemente infrangendole. Non si dovrebbe ridare ancora questa stessa possibilità, lasciando «proliferare» standard, regole, metodologie?

Forse quel che l’hegeliana «astuzia della ragione» trama attraverso l'ottusa resistenza delle scuole alle novità, è proprio la costruzione di un ambiente adatto alla nascita di «mostri», ovvero di scienziati che sfidino ostinatamente certe leggi affermate. Un mostro infatti può nascere solo sullo sfondo di aspettative piuttosto radicate, e queste ultime non possono che essere il risultato della resistenza accanita ... della comunità scientifica a precedenti «mostri» meno fortunati.

 

Proprio perché la scienza è sempre a un tempo strategia conoscitiva (nel senso che preciseremo più avanti) e istituzione sociale, forma di vita radicata nella società, essa opera in una dialettica tra normalità e straordinarietà, ovvero secondo il doppio registro darwiniano della produzione di mostri o mutanti e della selezione a opera dell'ambiente. E l’ambiente è costituito prima di tutto dai congeneri. L’ambiente a cui ogni scienziato deve adattarsi è la comunità scientifica a cui appartiene o cerca di appartenere.

Del resto proprio Feyerabend ci ricorda che un programma di ricerca può essere attaccato seriamente solo quando è diventato scienza normale, matura: altrimenti sarebbe come organizzare una gara di lotta tra un bambino (la nuova teoria innovativa) e un adulto sano (il vecchio programma di ricerca), e decretare poi la vittoria dell'adulto. Con i bambini -- cioè, con teorie o «scienze» non consolidate, come marxismo, psicoanalisi, certe medicine alternative, ecc. -- è doveroso esercitare meno spirito critico. Giustissimo, il confronto va fatto tra concorrenti alquanto omogenei, tra adulti maturi. Ma che cos'è l'adulto se non la scienza normale? Se questa maturità non esistesse, o se dovesse essere evitata, sarebbe aberrante il principio liberal-anarchico della critica e della controversia incessanti, perché allora assisteremmo solo ad aspri combattimenti tra bambini.

Ne segue che, a mio parere, Kuhn ha ragione contro i suoi critici, non tanto perché i dati storici gli darebbero ragione, ma perché la sua teoria della scienza normale è l'unico modo di garantire quella libertà di dissenso e quel pluralismo che stanno tanto a cuore a certi suoi critici.

 

 

5. Diversità e forme di vita

 

Abbiamo detto che il problema per Feyerabend non è quello della demarcazione né quindi, di conseguenza, della legittimazione filosofica di certe teorie rispetto ad altre. Non a caso, in nome del «Tutto va bene», ha scagliato alcune lance a favore di certe discipline che da tempo si candidano – con successo calante – al club esclusivo delle scienze, marxismo e psicoanalisi. A Feyerabend non interessa affatto discutere se le dottrine leniniste, o di Freud e di Jung siano scientifiche o meno; gli preme solo, in nome del pluralismo, raccomandare che si diano fondi, da parte dei ministeri e delle università, anche a ricerche dì marxisti e freudiani (e quindi reclama anche un taglio di fondi per la fisica delle particelle elementari). E’ vero, «la politica dei cento fiori» nella scienza è mera chiacchiera senza una politica delle cento borse. Ci si chiede però se in Feyerabend la misura politica — dare spazio a teorie deboli, emarginate — non soffochi un'esigenza non meno vitale, che non deve essere confusa con il bisogno poliziesco di demarcare: l'esigenza di chiarificare il modo di procedere di alcune pratiche, più o meno accreditate scientificamente, cercando di delineare la loro specifica diversità rispetto alle altre.

Dopo tutto, Feyerabend fa sua una concezione che, anche per l'influsso dell'ecologismo, sta diventando largamente accettata: certi saperi tradizionali (come la magia e l'astrologia) e certi saperi moderni legati a pratiche specifiche di cambiamento (come marxismo e psicoanalisi) sono scienze altre, diverse cioè dalle tecno-scienze ampiamente matematizzate e «calcolative», che fanno perno sulla fisica moderna come spiegazione ultima di tutto. Si tratta di scienze un po' deboli, ma pur sempre scienze, da legittimare nella loro specificità. Ma in questo modo però le diversità si omogenizzano (altro che incommensurabili!), risultano semplici varianti dell'unica forma dì sapere dominante nella nostra «società libera» -- o in procinto di diventare, via America, tale. Tradotto in progetto di analisi epistemologica, l'«anything goes» rischia di sfociare in una pura e semplice indifferenza per la varietà conflittuale delle teorie, omologate proprio in nome del pluralismo -- cosa che fa pensare alla «tolleranza repressiva» di Marcuse. Anche nelle scienze vale ciò che chiamerei «paradosso di Tocqueville», formulato da un europeo venuto a contatto con la società americana nella prima metà dell’Ottocento: che il più ampio pluralismo politico, religioso, culturale, ideologico, ecc., più che a un vivace conflitto creativo permanente porta a un accentuato conformismo universale[18]. L'accettazione delle differenze da parte dell'olimpica indifferenza liberal-democratica o anarco-epistemologica – nel senso che non valorizza le differenze -- spinge all'appiattimento delle differenze, così come l'aumento dell'entropia, del disordine, coincide con un'uniforme monotonia. Proprio in quanto si è tutti diversi, la società (anche quella scientifica) trova un minimo comun denominatore di convivenza, un tacito contratto sociale che poco a poco, spontaneamente, si afferma come grande legge vincolante, come neutra cerimonia amministrativa che omologa tutti in nome della razionalità, cioè dell'in/differenza, della non-differenza. In questo modo le credenze politiche e scientifiche si riducono a parvenze, a «utili idiozie» che permettono alla macchina amministrativa-tecnologica di funzionare: la razionalità weberiana si risolve nell’indifferenza dell'Amministrazione, figura moderna dell’incarnazione della «volontà generale». L'Amministrazione, che istituzionalizza le passioni e le diversità, tutela il dominio di una razionalità etica in un universo solo apparentemente dilaniato da una molteplicità fondamentalmente inoffensiva di credenze e di progetti di vita e di ricerca. Il paradosso tocquevilliano consiste insomma nel fatto che, superata una certa soglia, la tolleranza per le differenze soffoca le differenze, che sopravvivono – soprattutto in certi paesi – tutt'al più come idiosincrasie private, fisime irrilevanti, spazi impenetrabili, quasi psicotici, di fedeltà e

 

identificazione, come gli Hamish della Pennsylvania. Invece, il grande dibattito, tuttora vivace, attorno al marxismo e alla psicoanalisi è stato nutrito proprio dalla pretesa universalizzante, quindi intollerante, da parte di queste discipline, di giudicare le altre teorie e discipline in forza dei propri criteri[19]. Queste due teorie marginali alla scienza sono riuscite, almeno fino a poco tempo fa, a proteggere la loro identità, cioè la loro differenza, proprio nell'attacco a culture e discipline da loro criticate, demistificate, interpretate, decostruite, smascherate, ecc.

Non ci accontenteremo perciò di questa epistemologia dei cento fiori, della sua (già) burocratica indifferenza, e cercheremo di interrogare, con e oltre Feyerabend, le specificità — perché no?, le essenze — delle singole discipline. In quanto, aldilà dei contenuti espliciti, ogni teoria globale, sistematica, rinvia a qualche specifica forma di vita. E l'eterogeneità irriducibile di queste forme è probabilmente a fondamento — ma sarebbe meglio dire: a differenza — di quella incommensurabilità tra paradigmi teorici su cui insiste Kuhn. Feyerabend, patrocinando un’estrema tolleranza epistemologica, sostenendo l’idea della «scienza come arte», finisce col gettare insieme al bambino (l'illusione scientifica dell'oggettività) anche l'acqua sporca (la distinzione tra i «giochi», tra le pratiche, tra le forme di vita). Ora, a chi scrive preme salvare non il bambino dell'oggettività, ma l'acqua sporca delle differenze.

In effetti, chi va da un mago per farsi predire la propria salute futura fa qualcosa di fondamentalmente diverso da quando questo stesso va dal professore all'università per farsi curare. È quanto ci segnalava già Wittgenstein (1967) stroncando l'opera di Frazer, ad esempio. Frazer si sbaglia – insorgeva Wittgenstein -- quando vede in riti e magie dei primitivi forme immature o aberranti di scienza; invece, la fisica di quei selvaggi probabilmente non è radicalmente diversa dalla nostra. Sono diverse dalle nostre la loro magia e ritualità. Il malinteso tra le culture si basa sul fatto che non teniamo conto della diversità dei presupposti culturali, e soprattutto che proiettiamo nell'altra cultura la nostra gerarchia di forme di vita. Wittgenstein spingeva verso una descrizione della diversità delle pratiche, e verso un'antropologia critica basata sulle interrelazioni tra queste diversità, che erano più radicali del pluralismo feyerabendiano.

In un film di Woody Allen, Radio days, si vede una signora che va pazza per un ventriloquo che si esibisce per radio. Invano i familiari le fanno notare che un ventriloquo per radio non può funzionare. E la signora: «e che me ne frega?» In effetti, tra la signora e i suoi familiari c'era un malinteso, che però attraversava lo stesso rapporto della suddetta signora con la radio: solo in apparenza ciò che la divertiva del ventriloquo era il suo ventriloquio, per così dire. Oppure — altra ipotesi — possiamo anche pensare che il suo aver fiducia, la sua credenza, nella ventriloquicità dell'artista radiofonico fosse un elemento imprescindibile del suo spasso. Dietro questo caso apparentemente futile si annida tutto il dibattito, centrale nella filosofia analitica come nella moderna ermeneutica, sul rapporto tra credenza, etica e scienza.

Occorrerebbe radicalizzare, quindi, il principio (ma è esso davvero un principio? o è una generalizzazione descrittiva? un'accortezza metodologica?) dell'incommensurabilità tra paradigmi teorici: certi programmi di ricerca scientifici sono incommensurabili anche se apparentemente parlano delle stesse cose, perché i loro discorsi corrispondono a fare cose diverse. Quando chiamiamo fisica sia la scienza di Aristotele che quella di Galileo e di Einstein, diamo per implicito che tutti e tre facessero qualcosa di simile. Feyerabend, per esempio, che ovviamente sottolinea l'eterogeneità tra le due fisiche, si ferma però alla constatazione che Aristotele descriveva l'universo come fosse un organismo, un'entità biologica, mentre Galileo credeva nel modello platonico di una natura descrivibile geometricamente,

 

per cerchi, linee, quadrati, ecc.; impossibile perciò «tradurre» una concezione nell'altra (Feyerabend, 1975). Scrivo «tradurre» tra virgolette perché in effetti la traduzione tra diverse dottrine scientifiche incommensurabili è sempre possibile: l'incommensurabilità tra teorie non impedisce la loro comparazione. Si tratta però fin qui di una mera differenza di modelli descrittivi, come quella che oggi passa tra il modello dell'intelligenza umana omologata al computer e il modello della mente come un cervello permeato da processi reticolari. Ma che cosa significa questa diversità di modelli?

Aristotele e Galileo facevano giochi linguistici diversi: il primo cercava un'immagine vera della struttura visibile del mondo, il secondo già si preoccupava piuttosto di operare certe predizioni more geometrico, su base calcolativa. Benché il pragmatismo sia fiorito in America tre secoli dopo Galileo, quest'ultimo, a differenza di Aristotele, era già pragmatista. Non basta nemmeno dire che la scienza greca antica era fondata su una strategia della «scatola bianca» (cioè trasparente), mentre la fisica galileiana assumeva già una metodologia della «scatola nera» (dove non si vede nulla all’interno). Il sapere greco è sempre rimasto un potere contemplativo, anche in astronomia: i sistemi astronomici antichi erano previsioni visive. Nascevano sulla base della forma di vita dell'agricoltore, del navigatore senza bussola che si orientava nello spazio e nel tempo guardando le stelle; egli doveva sapere dove e come domani avrebbe visto con i suoi occhi Venere in cielo. Da Galileo in poi le stelle diventano già dei luoghi dove l'uomo muore dalla voglia di andare, per colonizzarle e «terrizzarle». Non è un caso, credo, che dopo soli tre secoli di scienza galileiana l'uomo sia riuscito ad andare sulla luna. Tutta l'astronomia post-copernicana tendeva, segretamente, a questo. Perché, aldilà delle apparenze, è un'astronomia che sin dall'inizio ha compiuto il Gran Rifiuto, quello della divisione irriducibile tra le due «fisiche», la sub-lunare e la meta-lunare[20]. Rifiutandosi di elaborare due scienze, una dell'habitat terrestre dell'uomo e un'altra del gran teatro visivo del cielo, la scienza calcolativa ha testimoniato della diversità del suo fare rispetto al passato: il suo è il progetto prometeico dell'espansione ed esportazione del suo sapere dall’oikos originario dal quale era sorto, nei luoghi più estranei e lontani dello spazio.

 

(La fisica classica, almeno fino a prima di Einstein e della meccanica quantistica, si è basata sul gioco cartesiano-kantiano che chiamerei della geometrizzazione calcolabile del cosmo. Puntava a costruire un'immagine (un'intuizione) del mondo, ma in modo che questa immagine definisse questo mondo come calcolabile, attraverso equazioni differenziali. La causa efficiente della fisica classica coincideva quindi con la causa formale, benché delle cause aristoteliche essa avesse adottato unicamente il tipo di causalità legato alla locomozione. La causalità galileiana, infatti, implica una struttura essenzialmente geometrica [e quindi anche metrica, quantificabile] del cosmo. Questo gioco di «Immagine + Calcolo» è stato messo in questione, ancor prima della relatività e della meccanica quantistica, già dalle geometrie non-euclidee di Loba?evskij e Riemann. Queste geometrie hanno sconnesso il calcolo dall'immagine del mondo. L'intuizione geometrica euclidea dello spazio — sulla cui unicità e necessità si basava l'Estetica trascendentale kantiana (nella Critica della ragion pura) — a un certo punto è apparsa un'interpretazione, tra tante possibili, dello spazio percepibile.

La fisica moderna, poi, ha cambiato ulteriormente gioco: ha rinunciato a connettere la struttura calcolativa [e in larga parte sempre più probabilistica] a un'immagine meccanica del mondo. Ciò si lega a una riconsiderazione degli stessi criteri di spiegazione causale di un fenomeno: così i fisici moderni possono riconoscere tranquillamente, per esempio, che il tempo in cui una particella alfa lascia un nucleo è un fenomeno senza causa – e una teoria che lo spiegasse confuterebbe la teoria dei quanti. Siamo passati cioè da una scienza dove predominavano modelli meccanici — un'immagine di «mondo» descritta da equazioni differenziali — a una scienza dove predominano modelli matematici. A partire dal campo elettromagnetico, e poi attribuendo via via alla materia stessa proprietà formali non immaginabili meccanicamente [come lo spin, la parità, la stranezza], la scienza contemporanea ha optato per una sorta di primato della causa formale in senso aristotelico: le equazioni matematiche tendono a coincidere con il mondo. Ma questo è avvenuto perché il concetto stesso di «spiegazione» si è trasformato: si è passati non tanto da una teoria all'altra, quanto da un tipo di causalità all'altra, cioè da un gioco all'altro. A mio avviso, il gioco della scienza contemporanea è ricostruito nel modo più adeguato dalle filosofie pragmatiste, è un gioco «Azione + Calcolo». Le immagini del mondo, riciclate come «modelli», funzionano ormai essenzialmente come stimoli per l'ispirazione scientifica, per la formulazione di ipotesi e teorie, non sono più la causa finale del lavoro scientifico.)

 

Spesso si ha l'impressione che lo storico della scienza commetta lo stesso errore di un antropologo il quale, studiando la società europea, pensasse che lo scopone e la divinazione con i tarocchi siano uno stesso gioco, semplicemente perché i quattro semi delle carte napoletane sono gli stessi nei due giochi. Le carte sono le stesse, ma i giochi sono diversi, non solo perché ubbidiscono a regole diverse, ma perché, più radicalmente, corrispondono a due forme di vita eterogenee: giocando a scopone cerco di vincere l'avversario, giocando con i tarocchi cerco di divinare il futuro. Tener conto della diversità delle forme di vita significa cogliere in modo più perspicuo lo slittamento storico di saperi e teorie. Del resto, cambiando il loro frame paradigmatico, gli scienziati solo raramente si rendono conto che così facendo si adeguano, senza saperlo, a un cambiamento di interessi e di forme di vita della loro società, o della scienza in generale. Questo perché stranamente rendersi conto che si cambia teoria, nel proprio lavoro scientifico giorno per giorno, è molto più facile che capire che si sta cambiando forma di vita.

 

(Significa questo che aderiamo alla tesi di Habermas [1973, p. 188], quando questi distingue la ricerca empirico-analitica [cioè le scienze esatte] in quanto appartenente alla sfera funzionale dell'agire strumentale, dalla ricerca ermeneutica, in quanto questa si baserebbe sulla connessione tradizionale di interazioni mediate simbolicamente? Secondo Habermas le scienze ermeneutiche mirano alla spiegazione di sapere praticamente efficace, le scienze empirico-analitiche mirano alla produzione di sapere tecnicamente utilizzabile. Questa sembrerebbe una ripresa della riflessione di Heidegger sull'essenza della tecnica, dove la scienza moderna viene descritta come essenzialmente legata alla modalità tecnica. Ma, a mio avviso, quella di Habermas appare una semplificazione inaccettabile della tesi heideggeriana. Anche noi pensiamo che il sapere scientifico non sia un sapere contemplativo, costruito da un soggetto che ha messo asceticamente tra parentesi tutti i suoi interessi strumentali, ma dire che le scienze empirico-analitiche «colgono la realtà in vista di una disposizione tecnica, possibile sempre e dovunque sotto condizioni specificate» [ibid., p. 192] ci sembra una unilateralizzazione del rapporto tra scienza e tecnica. Anche io penso che il sapere scientifico sia una forma di azione, cioè un dialogo-gioco con regole caratteristiche intrecciato tra gli umani e Natura — e questo dialogo-gioco mira alla previsione delle «mosse» della natura date certe condizioni specificate; ma questa azione non è riducibile a un sapere definito come tecnicamente utilizzabile. C'è anzi il sospetto che qui il problema del rapporto scienza/tecnica venga risolto tautologicamente: la scienza moderna suscita una pletora di applicazioni tecniche perché essa è, per essenza, sapere la cui condizione trascendentale è la tecnica stessa.)

 

Così, il rigetto della grande Divisione tra scienza e non-scienza (arte, letteratura, etica, ecc.) da parte di Feyerabend ha valore solo se, di contraccolpo, questo attacco mette in rilievo altre divisioni, più piccole, più fini, all'interno della scienza stessa — nel senso che il campo della scienza si rivela plurale, attraversato da una miriade di forme di vita e dall’intreccio dei loro incontri e scontri. Se avessimo spazio, mostreremmo come anche la nozione di verità, come aveva già messo in evidenza Foucault[21], va relativizzata in rapporto a determinati «programmi di verità» -- la diversità dei programmi di ricerca spesso implica una diversità dei programmi di verità. Questi programmi di verità attraversano le scienze portati da forme di vita che suggeriscono alle singole discipline metodi, obiettivi, strumenti privilegiati, standard. In questo senso, la «propaganda» feyerabendiana è solo l'inizio di un lavoro che

 

dovrà scavare nelle diversità e nelle differenze, un lavoro capace di chiarirci i grandi malintesi che costituiscono e nutrono il dialogo tra scienze, discipline, dottrine, progetti etico-politici.

Perciò l'epopea dello scontro impari del cardinale Bellarmino con Bruno e Galileo rappresenta un momento esemplare del grande sforzo dell'intera civiltà cristiana — per la cultura protestante uno scontro non meno fondamentale fu ed è tuttora quello con il darwinismo — nel modificare, e soprattutto nel dividere, il proprio concetto di Verità. Sappiamo che il cattolicesimo ci ha messo 300 anni – fino alla solenne riabilitazione di Galileo da parte di papa Giovanni Paolo II negli anni 80 -- per dividere il proprio concetto di verità, separando finalmente la verità metodologica-pragmatica delle scienze dalla verità di ordine mistico e religioso[22]. Ma anche al di fuori dell'intellighenzia cattolica, ogni uomo è confrontato, in modo talvolta pressoché quotidiano, a questa fluidificazione drammatica dei propri concetti di verità. Anche la signora che, innocentemente, si divertiva ad ascoltare il ventriloquo per radio è un esempio di questa incertezza permanente sulla funzione e il senso della Verità.

A mio parere, il vero cuore del dibattito — e non solo nell'ambito della filosofia della scienza — non è tra un pensiero della differenza (pensata in senso trascendentalista kantiano) di contro a un'ontologia monista che punterebbe all'unicità assoluta del fondamento; è piuttosto tra un pensiero della Grande Differenza, che permane nei settori filosofici e culturali più diversi, e un pensiero della molteplicità incalcolabile delle differenze. Ma proprio questa valorizzazione delle specifiche differenze fa sì che vada riproposto, aldilà del «tutto va bene» e del pluralismo feyerabendiano, la questione della specificità della scienza moderna. Ben presto lo stesso Kuhn si è accorto che il suo modello di ricostruzione della storia della scienza andrebbe altrettanto bene per la storia delle arti e delle ideologie politiche, per esempio[23]. Dire che da questo punto di vista non c'è differenza radicale tra Scienza e Arte è importante, ma non basta. Questo perché il filosofo è in quanto tale curioso, non può accontentarsi di una precettistica, foss’anche pluralista. Il filosofo non potrà mai impedirsi di riformulare le scomode domande: in che cosa consiste la specificità del sapere detto oggi scientifico? in che cosa consiste il suo «gioco»? qual è il segreto del suo successo aldilà delle legittimazioni metafisiche? I kuhniana per lo più irridono queste domande perché sarebbero legate alla vecchia problematica dell'induzione, cioè dell'origine del sapere scientifico. Derisione sacrosanta se il nostro intento fosse quello di una demarcazione definitiva. Ma non è il nostro intento.

 

Qualcuno ha osservato che certi aspetti delle tesi «romantiche» di Feyerabend aprono a una considerazione che possiamo definire ermeneutica in senso lato — vedremo in che misura «lato» — della scienza. Con la new philosophy of science in effetti epistemologia ed ermeneutica si trovano connesse, reciprocamente interrogate — cosa che non succedeva in termini così netti da tempo, da dopo la divaricazione ottocentesca tra discorso romantico sullo spirito oggettivo e discorso della legittimazione positivista dello spirito soggettivo in quanto calcolativo. Mettendo subito l'accento sulla disputa, sulla retorica persuasiva, sulla controversia critica, sul pluralismo irriducibile matrice di ogni conversazione, come funzioni strutturanti il sapere scientifico, Feyerabend si trova in un'oggettiva convergenza con la discussione, interna al campo ermeneutico, sulla funzione strutturante del dialogo e della controversia, come presupposti della produzione di testi e della loro interpretazione.

Un'altra cultura filosofica — da cui in parte Feyerabend ha preso le mosse — con cui la nuova filosofia della scienza si trova in rotta di convergenza è quella post-wittgensteiniana: quella parte della filosofia soprattutto anglo-americana che riflette sui «giochi

 

linguistici» e le loro regole. Si ha spesso l'impressione però che Feyerabend, pur essendo vicinissimo a questi due filoni (del resto anch'essi, per loro conto, in qualche modo convergenti), preso com'è dalla sua campagna libertaria ed emancipativa contro il Metodo e l'autorità della Scienza, non osi entrare in un confronto diretto con essi. Come Annibale, sembra indugiare nella Capua della polemica politica piuttosto che attaccare subito la Roma di una possibile teoria chiarificatrice del «gioco» della scienza.

Vorremmo qui provare non certo a costruire, finalmente, quest'epistemologia ermeneutica, ma semplicemente approfittare della discussione attorno a questi temi per suggerire la direzione possibile di una considerazione ermeneutica del lavoro scientifico.

Quando Leibniz introduce il suo concetto matematico di optimum, in quanto esso si determina a partire dalla distinzione tra minimum e maximum, egli afferma che la sua determinazione coincide con il nostro mondo, che è il migliore dei mondi possibili in quanto mondo logicamente ottimale. Ora, questa determinazione non rende affatto «impossibile ciò che è distinto dal migliore», anche se però il filosofo deve escludere questa possibilità in quanto «contraire à l’honneur de Dieu»[24], contrario all’onore di Dio. In altre parole, se il nostro mondo è il migliore dei mondi possìbili, questo avviene perché bisogna fidarsi di Dio, il quale non avrebbe mai scelto un mondo contingente peggiore dell'optimum.

Oggi, certo, non ci basta più questo appello «all'onore di Dio», ma se analizziamo molte epistemologie contemporanee, ci renderemo presto conto che esse scommettono su una sorta di «onore della Natura», che si riassume nel leibniziano principio di ragion sufficiente (cioè, nihil est sine ratione, non c’è nulla che non abbia una ragione). In questo senso il principio di ragion sufficiente, malgrado le apparenze, continua a dominare molte metafisiche epistemologiche — compresa quella di Popper. In effetti, quest’ultimo ammette che il risultato di un esperimento cruciale, eseguito al fine di falsificare una data teoria, se non la falsifica allora la corrobora. Ma che cosa mi assicura che il risultato di oggi varrà anche domani, o dopodomani, se ripetessi l'esperimento? Alla base c'è sempre il presupposto metafisico secondo il quale signora Natura non può dirci una cosa oggi, e un'altra domani. Il popperismo dà dogmaticamente per scontato che se in Natura l’acqua bolle a 100° oggi, bollirà sempre a questo grado. Persino nell'empirismo sensista, il presupposto metafisico è che Natura non si smentisca, ma si auto-regga secondo leggi costanti, come avviene in una monarchia costituzionale ben ordinata.

Eppure occorrerebbe ricostruire in modo chiarificatore il lavoro scientifico moderno senza far ricorso a presupposti o a dogmi a carattere metafisico — senza fare appello all’«onore della Natura». Questo appello fu già presupposto al Metodo di Bacone; Descartes preferì invece l'appello all'onore di un Dio che non può ingannarci; ma anche il metodo di Popper fa appello a questa onorabilità. È una fiducia metafisica, in quanto essa si basa su di un presupposto esterno all'operare immanente dello scienziato; questa fiducia trascende le stesse regole che di volta in volta il soggetto del sapere si dà per costruire questo sapere. Detto brevemente, è il presupposto — da cui lo scienziato non può non partire — secondo cui Natura è una sorta di mente, che essa segue cioè sue proprie regole. (Lasciamo stare la questione se queste regole gliele avrebbe date Dio, o se Essa se le sia date da sé). È strano comunque che questa metafisica delle «regole naturali» regga ancora oggi, in un secolo che pure ha visto il fiorire della meccanica quantistica, del principio di indeterminazione per non parlare del molto discusso principio di complementarità di Bohr, di teorie e paradigmi cioè che inevitabilmente tendono a fare apparire questa signora Natura piuttosto come una capricciosa isterica, per non dire una sgualdrina — almeno agli occhi arcigni dei dogmi razionalisti e delle metafisiche empiriste. Sembra quasi che alcuni epistemologi, piuttosto che trarre le dovute conseguenze da queste teorie che concedono in ogni caso a Natura un ampio spazio di libertinaggio, si siano dedicati a salvare comunque l'onore


perduto della Natura, dopo lo scempio fattone da certa fisica moderna. Cercano di convincerci che la scienza può coabitare tranquillamente con questa Natura, che ci si può fidare di Lei, nel senso che Essa seguirà comunque regolarmente le proprie leggi (nel senso ambiguo che il termine regolarmente ha). Allora, le regole della razionalità scientifica irrise da Feyerabend non sono altro che la proiezione metodologica di un presupposto metafisico secondo cui ancor prima che dallo scienziato, certe regole sono seguite dalla sua partner, Lady Natura.

Un modo per evitare ogni presupposto metafisico nella ricostruzione filosofica può essere quello di utilizzare il concetto wittgensteiniano di «gioco linguistico». Da notare che oggi, comunque, molti logici tendono a considerare i «giochi linguistici» non solo nel senso generale datogli da Wittgenstein (1953), ma anche nel senso preciso della teoria matematica dei giochi. Il modello dei giochi è stato applicato nel campo generale dei «giochi logici» (Luce e Raiffa, 1957), e in particolare nel campo delle quantificazioni in linguaggi del primo ordine (Hintikka, 1975, capp. II-III-V). A ogni enunciato di un linguaggio del prim'ordine (quantificazionale) può essere applicato un gioco a due ‘persone’, per esempio «Logico» e «Natura»; il gioco è con informazione perfetta e può essere considerato a somma zero. Occorre che, in un numero finito di mosse, venga raggiunta una espressione tale che essa sarà vera o falsa. Se è vera, ha vinto Logico e Natura ha perso; se è falsa, Natura ha vinto e Logico ha perso (ibid; pp. 115-117). Se gioca correttamente, Logico può — e deve — vincere sempre.

Per questa ragione, tralasciamo una discussione sul significato filosofico del termine «gioco linguistico» e prendiamo come esempio qualche gioco concreto e il più possibile semplice. Per esempio, l’umile gioco della morra.

Che cosa fa sì che, per esempio, la morra detta cinese — dove forbice batte carta, carta batte pietra, e pietra batte forbice — non sia un puro e semplice gioco d'azzardo? Come avviene che certe persone siano molto brave a morra e altre invece perdano sempre con le brave? Si ricorderà che questa domanda se la sono posta non solo matematici, ma anche uno scrittore, E. A. Poe, che in La lettera intercettata mette in bocca al suo detective Dupin una ricostruzione del gioco pari/dispari[25]. La prima risposta, ovvia, è che si vince a morra non gettando segni a caso, ma cercando di ricostruire il ragionamento dell'avversario; che bisogna in qualche modo «comprendere» questo ragionamento, sia nel senso di verstehen, sia nel senso di umfassen, come comprendere in senso quasi spaziale, di contenerlo dall'esterno, superandolo così di fatto. Questa ricostruzione del ragionamento (conscio o inconscio che sia) mi sarà utile se perverrò – intuitivamente, certo, non necessariamente in modo chiaro e consapevole – a ri-conoscere, «svelare», un'implicita «legge» che guida le mosse dell'altro. Ovvero, per essere un buon giocatore di morra non posso essere carnapiano — la computazione di certe regolarità nelle mosse dell'altro mi è utile, ma non basta. Dovrò piuttosto operare delle abduzioni peirciane: sulla base di un numero limitato di mosse dell'altro, devo essere in grado di ipotizzare una qualche «regola» implicita delle sue scelte a lui stesso ignota, che possa rendere le sue mosse successive prevedibili. Solo se prevedo — almeno a un grado di alta probabilità — le mosse dell'avversario, posso sperare di batterlo in modo non puramente casuale. Le mosse già effettuate possono istruirmi su quelle a venire solo se le interpreto come elementi di una serie virtuale, alla quale l'altro, per mia ipotesi, è «soggetto».

Ora, nei giochi del tipo morra gli esseri umani si assoggettano spontaneamente, per lo più senza saperlo, a certe «regole»; e grazie a questa soggezione è possibile superarli regolarmente nella competizione. Per esempio, un buon giocatore di morra aveva notato che quando l'altro comincia a perdere, tende a giocare più spesso del solito «forbice», dando così sfogo alla sua ansia e aggressività; e lui si comportava di conseguenza, giocando più spesso del solito «pietra».

Ovviamente, decidere di giocare «a caso» è una trappola, perché in questo modo si dà via libera a «regole» inconsce che l'altro potrebbe sempre essere in grado di riconoscere o di ricostruire. Posso però giocare a morra in modo realmente casuale, cioè applicando un codice così arbitrario eppur preciso da renderlo praticamente inaccessibile all'altro. Eppure le esperienze di decifrazione di codici segreti militari, dei messaggi cifrati, ci mostrano che nessun codice, per quanto complesso, arbitrario e

 

sofisticato, è veramente inaccessibile. Questo perché a partire da ogni pur minima regolarità in certe occorrenze testuali, io posso sempre ri­costruire le «regole» implicite che organizzano la successione dei segni.

Ma non è possibile concepire l'esecuzione di una serie dì mosse veramente casuale, irriducibile a qualsiasi regola/regolarità, priva insomma di qualsiasi struttura? Non è possibile elaborare dei meccanismi randomizzatori[26] che generino una serie del tutto «anarchica»? Ora, la maggior parte dei matematici non pensano che esistano serie del genere. Come ha fatto notare G.S. Brown (1953, p. 105), è una contraddizione matematica dire che una serie è priva di struttura; tutt'al più possiamo dire che non ha una struttura facilmente riconoscibile. Il concetto di casualità ha significato soltanto in rapporto all'osservatore; se due osservatori cercano determinati tipi di struttura, devono dissentire inevitabilmente sulla serie che chiamano casuale.

Ad esempio, mi imbatto nella serie

 

«4, 1, 5, 9, 2, 6, 5, 3...»

 

Anche da questa posso sempre proseguire la serie, applicando una legge interna foss’anche molto complessa, che mi permetta di determinare la nona cifra, e così via. Questo se sarò capace di scoprire che la sequenza qui sopra fa parte del numero irrazionale π (3,1…), dalla seconda alla decima cifra decimale. Si tratta anche qui, insomma, di una serie rigidamente ordinata, e ogni cifra successiva è completamente prevedibile, all’infinito.

Insomma, la mente umana riuscirà sempre a dare senso a qualsiasi apparente accozzaglia casuale di colpi o di segni.

Non si tratta di un sofisma, ma di un'evidenza matematica: è sempre possibile costruire una serie, con una sua legge specifica, a partire da alcuni elementi casuali dati. Per cui, volendo, posso trovare comunque un «senso» alla serie di numeri del lotto usciti sulla ruota di Napoli negli ultimi anni e, se sono animista — se penso cioè che il Lotto sia un demone maligno che gioca con me avendo un suo progetto — posso giocare il prossimo numero verificando così se la mia legge è vera o meno. Per inciso, è proprio un esempio del genere che ci fa capire l'importanza dell'idea di Popper, secondo la quale la scienza procede man mano che le teorie ci permettono di ipotizzare l'occorrenza di avvenimenti sempre più precisi e determinati, cioè sempre più improbabili. Ciò che l'empirismo logico non riesce a vedere è che una teoria che ci permetta di dire «il prossimo numero che uscirà sulla ruota di Napoli sarà 12» è molto più scientifica -- proprio perché rischia fortemente di essere falsificata -- di una teoria che ci permetta di dire solo «il prossimo numero che uscirà sarà pari».

 

7. L'onore della Natura

 

Assimiliamo ora, quasi per gioco, l'indagine scientifica a un gioco dì morra che Epistemico, l'uomo di scienza, gioca con Natura. Come nella morra, anche nella scienza interessa prevedere le prossime mosse della Natura. Questo significa che gli enunciati della scienza sono incompleti: sono delle specie di equazioni con posti incogniti che vanno «riempiti». E’ quanto faceva osservare Wittgenstein (Waismann,1979, p. 101) ai suoi amici del Wienerkreis, il Circolo di Vienna:

 

... Le equazioni della fisica non possono essere vere né false. Solo le scoperte nel corso di una verifica, cioè enunciati fenomenologici, possono essere vere o false. La fisica non è storia. La fisica profetizza [corsivo del curatore]. Se cercavate di concepire la fisica come una mera registrazione su dati osservati fino a oggi, manchereste il suo elemento più essenziale, la sua relazione al futuro. Sarebbe allora come la narrazione di un sogno.

Gli enunciati della fisica non sono mai completi. Assurdo pensare che siano completi.

 

Lo scienziato è certo interessato, «storicamente», alle mosse già effettuate, ma il suo gioco specifico — base di ogni tecnologia sviluppata a partire dal sapere scientifico — consiste nel prevedere le

 

ulteriori mosse. «Il ponte non deve crollare». Il sapere dello scienziato teorico è assimilabile a quello dell'ingegnere, non a quello dello storico. Come nella morra, io ignoro se Natura sia una persona onorata o una bugiarda, se sia coerente con le proprie regole o meno, o se addirittura ne abbia. Se però voglio vincere, devo scoprire queste regole, anche e soprattutto se, direi, non esistono. Devo «interpretare» Natura.

Ovviamente, dopo le prime ipotesi, avrò amare delusioni. Alcuni fenomeni naturali sono banalmente prevedibili — quelli oggetto del sapere terra terra — altri appaiono del tutto casuali, come il disporsi caotico dei granelli di polvere sul mio tavolo, ecc. Ma la cosa importante è che, pur continuando a smentire le mie previsioni con le sue mosse inaspettate, Natura «muova», giochi. Che nutra cioè di dati ulteriori il mio stock di dati, a partire dai quali potrò elaborare teorie sempre più complesse e sempre più ampie. Per esempio, dopo avermi fatto vedere solo corvi neri, un bel giorno Natura mi sbatte sotto gli occhi un corvo bianco. Epistemico non si arrenderà per questo: sarà sempre in grado di inserire il nuovo fenomeno in serie più ampie, magari ristrutturando l'assetto concettuale del suo sapere, modificando i suoi paradigmi classificatori, ecc. In un certo senso, proprio rispondendo picche a Epistemico, Natura, poco a poco, si caccia nella trappola di Episteme. La scienza non si smonta per le continue confutazioni delle sue previsioni, le basta che Natura «parli», che Essa cioè dia delle risposte, qualunque esse siano, ogni qualvolta viene interrogata nel modo dovuto (risposte in relazione a una griglia di domande estremamente specifiche). Questa è stata l’astuzia del metodo sperimentale di Galileo: la sperimentazione galileiana non significa andare a misurare uno dopo l'altro i fenomeni, non significa accostare eventi e vedere poi quali effetti si producono, ma è qualcosa come l'istituzione di un dialogo regolato tra Epistemico e Natura — l'istituzione di un gioco. Il gioco è scientifico se però Natura resta libera, se cioè le domande che l'essere umano Le pone siano formulate in modo che Natura sia libera dì rispondere in modo del tutto diverso da come Epistemico si aspetta; e qui consiste tutta la pregnanza del criterio popperiano della falsificabilità. Questa libertà è però vigilata, nel senso che fare scienza non significa osservare disordinatamente fenomeni, non significa stare all'ascolto delle «parole» sorgive di Natura, ma imporLe regole o convenzioni di conversazione. Se si tratta di parlare a vanvera, è probabile che Natura lo faccia spesso, ma ciò non ha rilevanza scientifica. Per esempio, chi mi dice che il modo in cui brucia il ciocco di legno nel mio caminetto segua esattamente o meno le teorie fisiche e chimiche della combustione più accreditate? Solo approntando settings particolari, concepiti attraverso la metodologia sperimentale, posso rendere scientificamente rilevante la descrizione della combustione di un legno. Le procedure sperimentali sono assimilabili, in un'epistemologia ermeneutica, alle regole del «domandare», che prevedono anche griglie e modi entro cui Natura potrà (e dovrà) darci le Sue risposte.

Questo riconoscimento del «dialogo» scientifico, in effetti, ci libera dal pregiudizio metafisico secondo cui la nostra partner nel gioco-dialogo, Natura, debba essere ligia a leggi che essa si sarebbe data spontaneamente o per imposizione divina. La struttura della conversazione epistemica è tale che la costruzione dì queste regole è la posta stessa del gioco.

È in questo senso che bisogna prendere la frase di Wittgenstein del Tractatus (1922):

 

L'esplorazione della logica significa l'esplorazione di ogni conformità a leggi. E fuori dalla logica tutto è accidente (T, 6.3).

 

La conformità a leggi è il requisito della logica, Natura non è tenuta a tanto. Anche se Natura seguisse costantemente delle leggi, il filosofo — non necessariamente l'uomo di scienza, come vedremo — non può non pensare che comunque tutto in Essa è accidente. Natura è evento. Le leggi naturali solo in apparenza sono supposizioni ontologiche; all'occhio di lince filosofico appaiono prodotti specifici del gioco

 

della scienza, cioè applicazioni della logica a Natura. Il problema di sapere se queste leggi sono della natura oppure se siamo noi ad attribuirgliele, diventa qui irrisolvibile, anzi irrilevante: di Natura sappiamo solo ciò che Lei ci ha risposto; sappiamo non ciò che Lei «è» -- il noumeno della fenomenologia del sapere, in quanto tale inconoscibile, impenetrabile -- ma ciò che Essa ci ha detto.

          Delle volte Natura non solo risponde picche ad Epistemico, ma gli fa intendere che Le ha posto le domande sbagliate. In questa chiave va vista la storia secolare dell’ottica ad esempio. In fisica si sono affrontate due teorie sulla natura della luce: per una – che derivava da Newton – la luce è fatta di corpuscoli che si muovono nello spazio, e che verranno chiamati poi fotoni; per l’altra – derivata da Huygens – la luce è come le onde del mare, ovvero consiste in un mutamento di forma del mezzo, etere o aria. La teoria corpuscolare spiegava bene certi fenomeni luminosi, la teoria ondulatoria ne spiegava bene altri; per cui in certe epoche ha prevalso la teoria corpuscolare, in altre quella ondulatoria. Ma per la scienza avere due teorie incompatibili che spiegano manifestazioni diverse dello stesso fenomeno è uno scacco dell’intelligibilità. Bisognerà aspettare la meccanica quantistica per trovare in qualche modo la sintesi, e cioè: la luce ha varie epifanie, per cui delle volte si manifesta come onde, altre volte come mitragliata di particelle. Questo significa, in termini filosofici, che per secoli gli scienziati hanno posto alla luce le domande sbagliate, ovvero. «Luce, di cosa sei fatta, di corpuscoli o di onde? » La luce ha dato risposte contraddittorie a questa domanda perché non era la domanda buona. Sarebbe come aver posto ad Antigone la domanda: «Tu sei figlia o sorella di Edipo? » Sappiamo che lei era l’uno e l’altro. «Io luce sono la luce», ha risposto Natura. Ma ci sono voluti tre secoli perché la scienza abbia potuto ammettere il suo pre-giudizio, il giudizio previo, secondo cui due erano le teorie possibili della luce: una di tipo atomistico (come in Democrito ed Epicuro), l’altra di tipo ‘platonico’ (effetto di causa formale) e tertium non datur.

 

Quindi, l'hegelismo feyerabendiano, secondo il quale la storia della scienza determina il suo stesso oggetto, non è una mera provocazione anti-positivista. Proprio perché sappiamo qualcosa di «scientifico» di Natura solo in quanto l'abbiamo costretta a giocare con noi, questo qualcosa che sappiamo di Essa non è altro che la controfigura, la silhouette tracciata dal procedere storico delle nostre domande, anche e soprattutto quando abbiamo capito, tardi, che erano le domande sbagliate. Anche se i manuali scientifici, come ci ricorda Kuhn, sono «sincronizzanti», nel senso che scotomizzano il processo nel tempo (non di accumulo, ma di setacciamento del sapere) ciò che oggi ci appare il corpus più o meno definito delle nostre conoscenze non è altro che la sedimentazione del setacciamento o filtraggio attraverso il dialogo epistemico con Natura, vale a dire l'insieme di ciò che è sopravvissuto, attraverso la selezione nel corso del tempo, delle nostre ipotesi, teorie, miti, congetture, ecc. Il nostro sapere scientifico è quindi come le impronte di piedi sulla sabbia: è sabbia (cioè forme di Natura) ma la sua configurazione è determinata dal nostro camminarci sopra – fuor di metafora, è determinata dalla storia, dalla diacronia delle nostre interrogazioni.

E diventa quindi anche più comprensibile la rivendicazione feyerabendiana del pluralismo scientifico oltre che culturale: quella sezione o estensione di Natura che la scienza moderna crede di conoscere (nel senso che riesce a prevedere certe «repliche» naturali date certe condizioni specificate) ci appare oggettivamente omogenea solo perché è omogeneo il discorso scientifico che la descrive — discorso omogenizzato dai manuali scientifici, che certo non si occupano della storia delle scoperte. In realtà, questa tranche di Natura è la Gestalt disegnata sullo schermo del mondo dalla sedimentazione del nostro dialogo dispiegato con Essa chiamato scienza. Immaginiamo che una grande costruzione fatta tutta a spigoli, rientranze, travi, piloni aggettanti, ecc., proietti la propria ombra sul selciato in modo che risulti un quadrato regolare e uniforme.

Altre tradizioni di sapere hanno elaborato una serie di conoscenze di cui noi occidentali dobbiamo ammettere talvolta la giustezza e la misteriosa efficienza, ma che restano incommensurabili, nel senso kuhniano-feyerabendiano del termine, al nostro sistema di sapere. Ciò è dimostrato dal fallimento di quegli sforzi che cercano di render conto dei risultati di certi saperi e tecniche esotiche — per esempio dell'agopuntura — nei termini dell'apparato del sapere occidentale. Spesso ci sono dei punti di contatto, più o meno erratici, qualche concetto dell'agopuntura sembra essere traducibile in qualche concetto della medicina occidentale, ma l'insieme del sapere agopunturale resta non traducibile nei termini del nostro sapere fisiologico.

Questa libertà pluralista delle forme di sapere è solo un aspetto trasversale di una libertà dell'interrogazione scientifica che ha anche una sua dimensione longitudinale. Proprio perché la scienza post-galileiana si è imposta come regola il lasciar parlare Natura, il non presupporLe nessuna fedeltà eterna alle regole (alle leggi scientifiche) che noi siamo tenuti a supporLe, allora possiamo dire che la conoscenza scientifica si progetta come virtualmente infinita — cioè infinitamente correggibile e modificabile. Occorre rinunciare all’indiscutibilità del presupposto secondo cui siccome finora è avvenuto questo, allora questo «questo» dovrà ripetersi per sempre. La scienza non ci garantisce affatto che, siccome fino a oggi il sole è sorto di mattina, secondo certi ritmi regolari ben noti, il sole sorgerà anche domattina. Natura è libera, appunto — anche se non è affatto libera di non partecipare al gioco della scienza; è regola di questo perfido gioco, infatti, che anche il silenzio è una risposta. La smentita alle nostre previsioni è sempre possibile non solo nel futuro, ma anche retroattivamente — per esempio, riconsiderando diversamente esperimenti e dati raccolti nel passato. Insomma, Natura è franca — ed è in risonanza con questo affrancamento che lo scienziato può allora rivendicare, come riflesso della libertà costituzionale della sua interrogazione, la libertà della ricerca scientifica nella società. Certo Natura può «divertirsi» a confermare tutte le nostre previsioni - e se questo avvenisse, la scienza avrebbe finito di progredire. Ma può anche smentire certe nostre previsioni precedentemente realizzate. In questo senso, il vecchio razionalismo filosofico — Descartes, Spinoza, Leibniz — in fondo ha reagito a questo nuovo «liberalismo» istituito dalla scienza galileiana, cercando di imbrigliare o contenere quella nuova pericolosa libertà obbligata regalata da Epistemico a Natura così emancipata. (E’ vero che il razionalismo di quell'epoca riflette bene lo sviluppo della scienza a esso contemporanea, ma forse in un senso molto più dialettico di quanto non appaia: il razionalismo ha cercato di restaurare un assoggettamento epistemico di Natura che la nuova fisica aveva spezzato). Il razionalismo ha reagito facendo ri-convergere regolarità e regole, decretando che Natura non poteva fare certe cose, e non poteva non farne altre, per il suo «onore». Ha voluto vincolare di nuovo Natura, promossa a interlocutrice au pair dell'uomo e della donna del sapere, alle ferree griglie della Logica.

Gli enunciati logici sono costruiti sulla base di un criterio di certezza: essi vengono congegnati in modo tale che Natura non possa falsificarli mai, se sono veri («veri in tutti i mondi possibili»), e non li possa verificare mai, se sono falsi («falsi in tutti i mondi possibili», l'impossibilità logica). L'inferenza logica è congegnata in modo tale che Natura non possa comunque interferirvi: «piove o non piove» appunto, un enunciato logicamente vero perché in qualsiasi mondo io possa immaginare non avverrà mai che questo enunciato venga falsificato.

Da qui il candore di quei giornalisti – ahimè, talvolta anche di scienziati - i quali si chiedono se ormai la scienza non sappia tutte le cose essenziali, se non altro quelle riguardanti la struttura fondamentale dell'universo e della materia. La vittoria di una scienza che arrivasse a spiegare tutto — cioè che costringesse Natura a confermare qualsiasi previsione, togliendoLe di fatto ogni potere di deluderci — sarebbe una vittoria derisoria, perché significherebbe che le sue teorie sono ormai insignificanti e tautologiche. Significherebbe che l'Episteme — il «linguaggio

 

significante» per il Wittgenstein del Tractatus — ha raggiunto la Logica, diventando come quest'ultima finalmente insignificante. Wittgenstein ci aveva già fatto notare[27] che una proposizione necessariamente vera, come «piove o non piove», è sinnlos, senza senso – ma non unsinnig, non è semplicemente insensata. Insomma, la logica non ha alcun valore informativo né esplicativo. Se Epistemico giungesse a spiegare tutto, avrebbe descritto allora tutti i mondi possibili, avrebbe cioè fatto coincidere in un unico «mondo» le modalità del possibile, del contingente e del necessario. Ma perciò il suo discorso sarebbe sinnlos, non spiegherebbe più nulla.

Tutto ciò non toglie però che Epistemico cerchi lo stesso di «spiegare tutto»: il suo gioco consiste infatti nel «trovare» la regola a cui è soggetta Natura, scommettendo sulla sua lealtà, dato che questa lealtà è indimostrabile. In termini più kantiani: la causalità in generale non è un fatto sperimentalmente verificabile. Possiamo allora dire addirittura che la scienza moderna è rimasta per certi versi animistica e metafisica, nel senso che pre-suppone ai colpi di Natura una certa regola, la quale può rendere conto anche della massima irregolarità dei fenomeni naturali. SupponendoLa soggetta a leggi, Epistemico fa di Natura un soggetto. In altre parole, la scissione positivista tra ordine delle regole e ordine delle regolarità non è operativa nel campo dell'immaginazione scientifica, dove l'Epistemico deve sempre supporre una regola, un nomos naturale, per dar senso causale alle regolarità fenomeniche — e il fallimento di questo suo sterminato lavoro di Sisifo produce il suo trionfo. La scienza, fallendo la sua riduzione delle regolarità a Regole, procede alla progressiva regolarizzazione dell'irregolare, del raro e dell'improbabile, insomma fa retrocedere il caos. «Ordine mascherato da caos» dicono, non a caso, le moderne teorie del caos. Così la scienza, come Achille pieveloce, insegue la tartaruga della necessità (della regola che amministra la regolarità), senza però — per sua fortuna — mai raggiungerla; ovvero, la scienza avanza nella direzione di questo avvicinamento asintotico alla tautologia. E in effetti, con la matematizzazione della fisica il sapere scientifico è un rapporto amoroso sempre promesso — ma sempre anche non consumato — con la geometria.

 

 

 



[1] Cfr. per esempio in Feyerabend, 1985a. Tr. it. «Due modelli di mutamento epistemico: Mill e Hegel», Lettera internazionale, 14, 1987.

 

[2] Sulla logica induttiva, cfr. Carnap, 1928; 1982; Popper, 1963; 1987.

 

[3] Cfr. White, 1952; Quine, 19612.

 

[4] Cfr. Feigl, 1956; Kripke, 1972; Putnam, 1975; 1977; Boyd, 1983.

 

[5]  Löwinger, 1941.

[6]  Cfr. Waismann, 1979.

[7] Su questo punto, cfr. il dibattito sviluppato in Geymonat e Giorello, 1986.

 

[8] Cfr. Collected Papers di Peirce (1958). Su Peirce e l'abduzione, cfr. Bonfantini, Grassi e Grazia, 1980; Bonfantini e Proni, 1983; Bonfantini, 1984.

 

[9] Cfr. Bonfantini, 1984, pp. 12-13.

 

[10] Cfr. Lakatos, 1976, p. 239.

 

[11] Cfr. Benvenuto, 1980, pp. 137-138.

 

[12] Cfr. Putnam, 1969; Jauch, 1971; Dalla Chiara Scabia e Toraldo di Francia, 1973.

 

[13] Per esempio, Pera, 1981; 1982.

 

[14] Sulla burocrazia, cfr. Weber, 1981.

 

 

[15] Cfr. Janouch, 1972, p. 1108.

[16] Mill, 1981, p. 97. Cfr. Giorello e Mondadori, 1979; 1981.

 

[17] Su questi temi, cfr. Rorty, 1986.

 

[18] Tocqueville, 1971. Cfr. Aron, 1962; 1965.

 

[19] A questo proposito: Benvenuto, 1984.

 

[20] Cfr. Koyré, 1966; 1984.

 

[21] Vedi il capitolo 3 di questo libro. Cfr. Veyne (1983), / Greci hanno creduto ai loro miti?

[22] Sul tema dello splitting, o schisi, tipico della moderna secolarizzazione, tra ordini eterogenei di «verità», tra sapere e valori, rimando a Benvenuto, 1988.

 

[23] Kuhn, 1969; Feyerabend, 1984.

 

[24] Théodicée, par. 41.

[25] In The Purloined Letter (Poe, 1985). Il riferimento all'esempio ludico di Poe, così come parte dell'elaborazione formale derivata da questo esempio, ci sono stati ispirati dal seminario di Lacan (1966; 1978, pp. 207-300) su La lettera rubata. Anche la dimostrazione di Lacan si basa sull'assunto matematico secondo cui sarà sempre possibile trovare una legge che descriva e preveda le mosse dell'altro, qualunque queste siano. Vedere anche i commenti e le critiche di Derrida (1975) a questo testo.

[26] Cfr. Gardner, 1968.

 

[27] Tractatus, 4.461, 4.4611.

 

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