Flussi di Sergio Benvenuto

Recensione a: Luigi Caramiello, "La droga della modernità. Sociologia e storia di un fenomeno fra devianza e cultura" (UTET, 281 pagine,  21,00) 16/ago/2016


 

Di solito gli intellettuali considerano quello della droga un problema basso. Una questione per politicanti e assistenti sociali. Anche tra psichiatri e psicologi, i colleghi che trattano i tossicodipendenti sono considerati di serie B: si occupano più di un “problema sociale” che di casi “scientifici”. E difatti si preferisce affidare “quei ragazzacci” a parroci di provincia o a guru fondamentalisti, come a S. Patrignano. E’ come se la droga degradasse non solo chi la assume, ma anche chi si occupa di chi l’assume. Tutto il dibattito si riduce allora tra chi vuole depenalizzarne l’uso e chi invece lo vuole reprimere; un dibattito che risorge ciclicamente, praticamente sempre con gli stessi argomenti da una parte e dall’altra. Da psicoanalista, penso invece che la gerarchia dell’interesse clinico dovrebbe ruotare di 180 gradi: le nevrosi, ad esempio, dovrebbero essere ripensate tutte come dipendenze di tipo particolare (da rapporti umani avvolgenti). Dietro ogni inibizione o sofferenza psichica c’è una dipendenza da qualche cosa. L’addiction potrebbe fornire il modello per ripensare l’intera psicopatologia.

E’ merito del libro di Luigi Caramiello, La droga della modernità, mostrare che la questione droga invece ha una dignità teorica e persino filosofica. Caramiello, professore di sociologia all’Università di Napoli, fa proprio un approccio ispirato al decostruzionismo: insiste cioè sulla relatività storica della nozione di droga. Paese o tempo che vai, droga che trovi. Non c’è epoca e cultura, ricorda Caramiello, che non abbia fatto ricorso a sostanze psicoattive; e ogni cultura stabilisce quale sostanza sia lecita e in quali situazioni, e quale no. Tabacco e alcool rendono alcuni dipendenti non meno degli oppiacei o della cocaina, solo che la cultura occidentale ha accettato tabacco e alcool come psicotropi legittimi; gli islamici invece ci considerano tutti spregevoli alcolizzati. Ma l’uso di droghe è un corollario della condizione umana così come lo sono, ad esempio, la pratica musicale o la proibizione degli incesti. E così come ogni cultura decide quale parente considerare sessualmente tabù, altrimenti si commette incesto, analogamente ogni cultura decide quale sostanza legittimare e quale no.

          Di contro a questo relativismo culturale, abbiamo due altri approcci: il proibizionista puro e quel che chiamerei tecnocratico pragmatista. Al proibizionista, che si rifiuta di mettere in questione le scelte della nostra tradizione culturale, c’è poco da dire. Invece, chi adotta il pragmatismo tecnocratico dice: “Se rinunciamo ai nostri pregiudizi culturali, allora quali sostanze possiamo accettare oggi perché oggettivamente meno dannose di altre? Deve essere la scienza a dirci quale consumo possiamo considerare come più o meno pericoloso”. Purtroppo la scienza non può sostituirsi alla decisione etico-politica: essa ci dice solo che gli effetti di ogni sostanza sono molto variabili da individuo a individuo. Ci sono quelli a cui basta bere un quartino di vino al giorno durante i pasti, e quelli che si alcolizzano fino al delirium tremens. In generale, l’esperienza di qualsiasi piacere ha un impatto del tutto diverso da soggetto a soggetto. Il piacere del gioco può portare uno al massimo a giocare a tombola a Natale, mentre porterà un altro a dilapidare le proprie sostanze al casinò. Stessa cosa per il godimento sessuale, e per tutti gli altri piaceri. Alcuni soggetti sono addictive: tendono a legarsi a certi piaceri già provati e non se ne possono più liberare. Dopo tutto, la questione di legittimare o meno il consumo delle sostanze psicotrope non è eticamente o giuridicamente diversa da quella di legittimare o meno il gioco d’azzardo, il porto d’armi da fuoco o l’alpinismo: queste pratiche, come è noto, possono rivelarsi molto pericolose.

          Alcuni si dicono contrari alla depenalizzazione delle sostanze oggi proibite sulla base di un ragionamento apparentemente pragmatico: “la gente non accetterebbe mai la proibizione di alcool o tabacco, ma l’interdizione delle sostanze dette droghe serve se non altro a tenere più basso il consumo di queste ultime”. In fondo, dicono, tutte le sostanze tossiche andrebbero proibite, ma siccome è politicamente impossibile, meglio tenere proibite quelle che già lo sono: la proibizione funziona comunque da deterrente. Si tratta di opportunismo legislativo. Ma la nostra civiltà politica esige che le misure legali non siano arbitrarie, che vadano argomentate. Nella nostra cultura leggi e norme che cozzano con la logica o con i dati scientifici finiscono con il discreditarsi.

          Caramiello propone anche lui una soluzione politica: la riduzione del rischio. In breve: dobbiamo accettare di convivere con la droga, dato che una certa parte della popolazione si drogherà sempre; possiamo solo limitare i danni dell’abuso. E’ la linea prevalente in paesi come Gran Bretagna e Olanda. In Inghilterra, dei funzionari di polizia vanno nelle scuole medie e insegnano ai ragazzini come drogarsi. Infatti, lo stato britannico dà per scontato che prima o poi i teen agers peccheranno, quindi tanto meglio istruirli su come evitare le overdose e restarci secchi. Questa “terza via” – tra il proibizionismo acritico da una parte e la liberalizzazione selvaggia predicata da liberisti d’acciaio come Friedman dall’altra - probabilmente finirà col prevalere anche nel resto dell’Occidente. Se l’imbecillità non l’avrà vinta.

 

          Quanto alle cause del consumo, si affrontano due tesi: l’offertista e la domandista. Alcuni dicono che se la droga non venisse offerta, allora non esisterebbe la domanda: quindi bisogna combattere soprattutto l’offerta, ovvero eliminare produttori e mercanti di droga. Altri dicono che finché ci sarà una domanda di droga si troverà sempre qualcuno per fornirla: quindi bisogna puntare sulla propaganda anti-droga nella popolazione. In realtà domanda e offerta sono due facce della stessa medaglia: ognuna è causa dell’altra, circolarmente. E' come il problema di chi è nato prima, l'uovo o la gallina.

Spesso i “domandisti” mettono l’uso delle droghe in relazione a uno specifico malessere giovanile della nostra epoca. In realtà il malessere giovanile è sempre esistito, solo che nel passato trovava altri sbocchi. Alla fine del Settecento, dopo il successo de I Dolori del Giovane Werther di Goethe molti giovani europei si suicidarono; in altre epoche si arruolavano in qualche esercito, o emigravano in Africa come Rimbaud. Oggi il mercato degli stupefacenti fa sì che la voglia del giovane, soprattutto maschio, di mettere alla prova il Destino – “soccomberò o diventerò uomo?” - si esprima anche in questo consumo.

          Gli “offertisti” invece sono convinti che è l’offerta di droga a creare la domanda. Non diversamente dal mercato dei cellulari: prima che i cellulari venissero offerti, ovviamente non c’era questa domanda. Il consumo di massa delle droghe proibite sarebbe insomma l’effetto di una scelta strategica delle mafie: vendere ai giovani delle società prospere un prodotto piacevole e proibito.

Ad esempio, perché i consumi delle droghe pesanti tendono a concentrarsi, in Occidente, in alcune capitali, come New York, Londra, Berlino, e poche altre? Rispondere che nelle grandi capitali i giovani vivono un disagio maggiore che nelle città di provincia è una sciocchezza, dicono gli offertisti: nelle capitali ci si diverte di più e si trova prima lavoro. La ragione è semplicemente nella strategia di distribuzione del dope: conviene concentrare lo smercio in grandi città ricche, dove è più difficile essere beccati dalla polizia e dove il mercato potenziale è più fitto. Le ragioni per cui gran parte del consumo delle droghe avviene a Londra e non nel Lancashire non sono diverse dalle ragioni per cui la stragrande maggioranza degli psicoanalisti britannici esercitano a Londra: è qui che si trova il bacino più largo e benestante dei propri potenziali clienti.

          Per questa ragione gli “offertisti” pensano che il solo modo di sconfiggere la droga sia di eliminarne l’offerta alla fonte, dato che la domanda, malgrado tutte le prediche e campagne edificanti, non verrà mai meno finché la droga verrà offerta. Il progetto di alcuni esperti ONU – come Di Gennaro o Arlacchi - era di convincere i contadini che producono oppio o coca a convertire le loro culture a prodotti più innocui. Mi pare che questa strategia sia fallita: i contadini del terzo mondo sono troppo poveri, la coltivazione delle piante proibite è di gran lunga più redditizia. Come dice Caramiello, voler eliminare le droghe dal mondo è un’utopia non realistica.

           I “domandisti” invece amano dire che l’abuso delle droghe è solo una parte di una cultura consumista, ghiotta in particolare di psicostimolanti. C’è chi fa uso permanente di videogiochi, altri di psicofarmaci, e altri di droghe legali e non. In realtà i moderni farmaci psicotropi, così come le droghe sintetiche, sono la prolunga tecnologica della tendenza, presente in ogni essere umano in qualsiasi epoca e latitudine, a modificare il proprio stato psichico per via artificiale. Beviamo caffè e the per eccitarci, camomilla la sera per calmarci, vino per anestetizzarci o essere più disinibiti, fumiamo per concentrarci, per non parlare dei cibi afrodisiaci. Psicofarmaci e droghe sono la prosecuzione biotecnologica delle vecchie protesi, un po’ come l’auto è una prosecuzione del cavallo e internet è un perfezionamento dei servizi postali. La differenza è che caffè, camomilla, tabacco e vino sono anche piacevoli da consumare, mentre le pillole sono asettiche, an-edoniche. Ma come si potrà mai impedire agli esseri umani di tentare di acchiappare, per qualsiasi via, uno straccio di soddisfazione?

          Insomma, offerta e domanda di droga sono inscindibili, una rafforza circolarmente l’altra. Per questa ragione non esistono soluzioni semplici, lineari, come quelle vantate da millantatori politici. Anche riflettendo sulla droga, possiamo guarire dal fascino tossico che le semplificazioni esercitano su ognuno di noi.

 

Pubblicato come: “Droga, paradigma di tutte le dipendenze”, Reset, maggio-giugno 2004.

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