Flussi di Sergio Benvenuto

IL PROGETTO FREUDIANO12/gen/2016


 IL  PROGETTO  FREUDIANO [2006]

    Che ne è della psicoanalisi, un centinaio d’anni dopo che Freud l’ha creata?  Alcuni dicono che è in via di superamento, la psicofarmacologia e le terapie cognitive oggi l’avrebbero soppiantata.  Ma di fatto la pratica analitica si espande – in particolare nei paesi una volta socialisti reali - anche se meno delle altre psicoterapie.  Oggi la cura psicoanalitica ha perso l’esclusiva: è una tra la miriade di “cure dell’anima”.  Solo negli Stati Uniti, si calcola che oggi esistono oltre 450 tipi di psicoterapia.  E allora occorre porsi la domanda: quale specificità la psicoanalisi mantiene nella galassia delle proposte curative?

La cura di sé

    La moltiplicazione dell’offerta psicoterapica segna la popolarizzazione di quella che Michel Foucault ha chiamato “cura di sé”.  Egli ha notato che il motto antico fatto proprio da Socrate, “conosci te stesso”, era una specificazione di una prescrizione più fondamentale che nacque in Grecia: epiméleia heautou, la cura di sé.  Oggi viviamo di nuovo in un’epoca dove ognuno è spinto a “curarsi di sé”.  Promotori di questa cura sui non sono più filosofi, ma specialisti detti psicoterapeuti – insomma, il care-cure psicologico risponde a un bisogno largamente diffuso nei paesi più industrializzati.  Se non ci fosse stato Freud, comunque nel XX° secolo avremmo dovuto inventare la psicoanalisi.  
    Tutti noi tendiamo a psicologizzare i nostri problemi.  Cornelius Castoriadis in una conversazione mi disse disgustato che secondo certi analisti americani la disoccupazione era un sintomo nevrotico, e replicava “ma no, è un problema economico!” Nella realtà ogni fatto sociale ha sempre più dimensioni, quindi anche individuali e soggettive: un’azienda può licenziare perché c’è recessione, ma io posso essere licenziato a preferenza di un altro perché sono nevrotico, o alcolizzato, o troppo aggressivo con capi e colleghi, ecc.  Al contrario di Castoriadis, il soggetto moderno tende a soggettivare il proprio malessere, e ogni psicoterapia si nutre di questa lettura soggettivante: “se le cose mi vanno male, ci deve essere qualcosa di marcio in me”.  La psicoanalisi parte da una posizione che un kleiniano chiamerebbe depressiva: ovvero implica una rinuncia alla posizione paranoide (“sto male perché gli altri mi perseguitano”) e alla posizione che Hegel chiamò dell’Anima Bella (“denuncio il mondo in cui vivo perché è tutto storto”).
    Ma allora, che cosa veramente distingue la psicoanalisi dalle altre psicoterapie? Quale strategia di “cura di sé” caratterizza il gioco analitico? La psicoanalisi ha avuto un grande impatto nella vita del Novecento – quindi, non solo tra i pazienti – perché portava con sé presupposti etici forti che hanno affascinato il nostro secolo.
    A un certo punto l’etica dell’analisi divenne chiara a Freud: l’analista è un paladino di Eros.  Freud nota che le pulsioni, certo, sono molteplici, ma esse sono riassumibili in due pulsioni fondamentali: Eros e Thanatos, amore e morte.  L’analista parteggia per Eros: per ciò che unisce, che fa legame, che porta il soggetto a unirsi con l’altro; mentre Thanatos è lo slegarsi, l’inerzia, la ripetizione, la distruzione.  L’analista non è un osservatore neutro: è un militante di Eros.  Certo, restano da vedere le forme concrete in cui l’analista si mette dalla parte di Eros – e qui etiche e tecniche delle varie scuole si divaricano.
    Questo “essere dalla parte di Eros” si realizza attraverso uno strumento allo stesso tempo etico e tecnico: la parola libera.  La psicoanalisi è liberal.  Lo psicoanalista non prescrive nulla – a parte le regole essenziali del setting.  Queste regole si imperniano attorno a quella che gli Antichi chiamavano parrhesía, la libertas del parlare franco, di aprire il cuore: scommette sul fatto che la libertà di parola, esercitata fino in fondo, liberi dal male.  La psicoanalisi è un’arte liberale secondo cui la parola libera indirizzata a un altro a lungo andare cura, ovvero fa prevalere Eros su Thanatos.  (Da qui la diffidenza dell’analista per tutto ciò che viene chiamato acting out, passare all’atto: la psicoanalisi punta sull’asintotico diradarsi dell’agire per focalizzare la vita del soggetto nell’elaborazione verbale, chiamata da alcune scuole “mentalizzazione”.) Questa parola però è polarizzata da un primato etico della verità (“la verità ci renderà liberi”).  L’analisi è pratica specifica di soggetti a cui non basta essere comunque guariti da sintomi egodistonici, ma che vogliono conoscere anche la verità sul loro malessere.  L’utopia analitica congiunge Eros e parrhesía.  Per l’analista quindi la “cura di sé” è inscindibile dalla cura della verità, intesa come essere veridico.  
    Le ricostruzioni nel corso di un’analisi non sono verificate oggettivamente, ma producono comunque affetti di verità.  L’analizzando ha cioè l’impressione che, assieme all’analista, egli colga delle verità di sé.  Certo, la sensazione della verità non è la verità corroborata in senso scientifico: la psicoanalisi cura attraverso affetti di verità.  Nessuno ha mai dimostrato che un’analisi raggiunge la verità, ma comunque tutto ciò che essa trova lo trova tendendo alla verità.  L’Eros che l’analista promuove è anche una cura per la verità.

Analisi come atto

    La psicoanalisi, disse Freud, è una costruzione o ricostruzione che mira alla veridicità: ovvero, ristabilire la verità (storica) comporta un effetto terapeutico.  Questo però cozza con la visione moderna della scienza: per la tecnoscienza non basta conoscere la verità (le leggi meccaniche che regolano una certa classe di fenomeni), occorre anche che poi una tecnologia intervenga sulle cose per modificarle nel senso auspicato.  Non basta scoprire le leggi dell’idraulica per modificare il corso di un fiume: occorre che poi un ingegnere, tenendo conto di queste leggi, costruisca un marchingegno.  La psicoanalisi invece è molto più sulla linea della paideía (formazione) socratico-platonica che della tecnoscienza moderna: essa pensa che la ricostruzione veridica comporti ipso facto una mutazione nel senso giusto, che sia trasformativa direbbe Wilfred Bion.  Da qui un certo sospetto di intellettualismo della pratica analitica, almeno nella sua forma classica.  L’analista scommette sul fatto che l’insight della verità intima sia ipso facto una prassi tecnica: per lui scoperta (accesso alla verità) e (ri)costruzione tecnica coincidono.
    Un altro punto essenziale della psicoanalisi è la sua scommessa per la storicità: parte dall’assunto che gran parte dei nostri problemi e malesseri non siano effetti insignificanti di processi organici, né l’implementazione fenotipica di un genotipo, ma siano tracce, effetti e costi di una costruzione storica della soggettività.  La psicoanalisi ricostruisce come un soggetto si è costruito storicamente – e i prezzi che questa costruzione ha comportato.  Anche se in molte scuole oggi tende a prevalere l’analisi dell’hic et nunc, nell’insieme l’analisi resta una pratica di ricostruzione.  
    Questa ricostruzione non è però pura storiografia, essa si articola nel transfert, cioè nel crogiuolo di processi affettivi e pulsionali: essa finisce quindi con il modificare la posizione di un soggetto rispetto ad alcuni oggetti fondamentali, che strutturano la sua vita libidica e passionale sin dall’infanzia.  La ricostruzione analitica spesso produce un abbandono di forme primordiali; se vogliamo, è uno svezzamento - ci si svezza da un tipo di godimento strutturatosi in età precoce.  Quindi, il sapere prodotto dall’analisi non è di tipo descrittivo ma è un essere-altrimenti, práxis, è una riconversione della propria economia libidica.  
Quindi la ricostruzione psicoanalitica non è mai semplice descrizione: è un fare, un modificare affetti e passioni.  La psicoanalisi non è solo raccontare, è agire.

Eros e verità

    Per tutte queste ragioni, la psicoanalisi è un “partito” psicoterapico che non usa qualsiasi mezzo per raggiungere qualsiasi fine il cliente richieda: auto-limita la sua potenza terapeutica.  Si sa che certe strategie suggestive portano a una rapida risoluzione di certi sintomi, o che la prescrizione di certi comportamenti può avere risultati molto positivi - ma l’analista vi rinuncia perché la sua etica non glielo consente.  Per l’analista non ogni mezzo è buono per raggiungere il fine desiderato (che per lui non è la guarigione in sé, ma l’apertura erotica al mondo).  Il contrasto tra psicoanalisi e psicoterapie cognitive è solo in apparenza tecnico: di fatto esso è etico.
    Ad esempio, alcune ricerche mostrerebbero che chi gode della fede religiosa in media vive più a lungo e ha meno probabilità di far fronte a sofferenze fisiche e mentali.  Supponiamo che questa tesi sia stata dimostrata: questo dato oggettivo non convincerebbe mai un vero analista a spingere un paziente in crisi ad abbracciare un credo religioso per stare meglio.  E questo anche se l’analista fosse egli stesso un fervente cattolico ad esempio.  Perché l’analista non si basa sul principio “qualsiasi cosa va bene pur di essere più felici o meno infelici”, per lui conta che si sia soddisfatti in accordo con la verità - soprattutto in accordo con la verità soggettiva, con ciò che un soggetto considera “autentico”.  In psicoanalisi, l’etica della verità sovrasta quella della felicità.  Da qui il successo di certe categorie, come quella del true Self di Winnicott (che deve subentrare al posto del false Self) o della parola piena secondo Lacan (che deve subentrare al posto della parola vuota): l’analista mira a qualcosa di autentico che deve prendere il posto di un modo di essere inautentico.  La psicoanalisi dà corpo alla prescrizione, tipicamente moderna, di Nietzsche: “diventa ciò che tu sei”.  Mentre le “tecnoscienze umane” si vogliono delle tecnologie utilitariste della felicità, o per assicurarsi il godimento.  Anche la psicoanalisi parteggia per la felicità, ma per una compatibile con la verità di Eros.
    In un film, Gina Lollobrigida diceva: “Meglio essere infelici con un uomo che si ama, anziché essere felici con un uomo che non si ama!” Ecco, resta una discrasia tra felicità e amore – o, se si vuole, tra due registri di felicità.  La psicoanalisi preferisce il registro dell’amore.
    Questo primato della verità di Eros come autenticità è in sintonia con la categoria più importante che le filosofie maggiori del Novecento hanno promosso: quella di apertura.  Heidegger ha descritto l’esserci (Dasein) umano come Aperto; e, in un contesto intellettuale del tutto diverso, Popper ha celebrato la società aperta.  La scienza stessa viene descritta come continua apertura alle risposte che la Natura dà alle domande dello scienziato.  Se il Novecento avesse avuto un suo dio preferito, questo certo sarebbe stato Apertura.  Ora la psicoanalisi, con la sua militanza per il legame sociale contro ogni forma di slegamento solitario, ha fornito all’uomo e alla donna moderni – che vivono nelle società industriali democratico-liberali dominate dalle tecnoscienze – il risvolto psicoterapico di Apertura come presupposto etico fondamentale dei nostri tempi: la psicoanalisi non punta a una felicità solipsistica e introversa, ma spinge il soggetto all’apertura come condizione dei legami sociali.
 

Scientia e prudentia

    Certamente la psicoanalisi persegue un’utopia.  Si sceglie la psicoanalisi per ragioni spirituali: perché si cerca la verità storica del proprio disagio.  La psicoanalisi esprime un desiderio utopico nel mondo dominato dalle tecnoscienze: quello di vivere secondo verità e in apertura verso l’altro.
    In effetti la prassi del tecnico si basa su quella che i greci antichi chiamarono epistéme: il sapere che inaugura un saper-fare.  Invece lo psicoanalista e il politico non tecnocrate operano con ciò che Aristotele – nel Libro Z dell’Etica Nicomachea - isolò come phrónesis, e che i latini chiamarono prudentia.  Ovvero una pratica a metà strada tra le scienze e le arti, come scriveva Aristotele.  Gadamer lo traduce con Vernunftigkeit, ragionevolezza.  E’ il senso che ancora vive nel nostro termine giurisprudenza: il buon giudice non è chi sa scientificamente, ma chi, conoscendo bene le leggi, avendo senso della giustizia ed esperienza della vita, di caso in caso elabora sentenze “prudenti”.  Il politico vincente è chi ha phrónesis o prudentia, un sapere pratico: non basta che dica la verità, occorre che la dica in modo convincente.  Certo il politico spesso mente, ma se dice la verità deve dirla in modo persuasivo.
    Si dirà: di solito si convincono le masse con la retorica.  Il politico è sempre tentato dalla demagogia, cioè dal dire alla gente quello che questa pensa di voler sentire: perciò i filosofi ateniesi, confrontati alla democrazia, svilupparono una riflessione sull’ars retorica.  In verità il buon politico deve anche sapere, deve avere epistéme.  Se deve prendere delle misure economiche, deve avere l’epistéme dei meccanismi economici.  Ma deve creare consenso attorno a queste misure economiche attraverso la persuasione retorica: appelli alla nazione, uso dei media, ecc.  Ma tra l’epistéme e la retorica, l’uomo e la donna praxici funzionano secondo la phrónesis, ovvero attraverso un saper fare specifico che non è propriamente scienza né tecnica ma il saper essere nella grazia dell’occasione, dire o fare la cosa giusta al momento giusto, cogliere il kaíros.
    L’analista bravo è uno psicoprudente, chi sa essere tempestivo.  La psicoanalisi non è una pratica puramente creativa come quella degli artisti, ma non è nemmeno un sapere oggettivo come la chimica o la sociologia: è una pratica di “cura di sé” che, pur senza essere in sé scientifica né democratica, esprime la spiritualità dell’epoca dominata dalla scienza e dalle democrazie liberali.
    Di rado gli analisti scrivono sulla retorica analitica, perché la retorica appare riprovevole.  Eppure anche l’analista più puro conquista il suo paziente grazie a marchingegni retorici: attraverso la struttura e l’arredamento del suo studio, la laurea o dottorato appesi al muro, le connotazioni discrete ma decisive del suo status sociale e culturale, la foto di Freud incorniciata, ecc.  Ed è retorica molto di quello che dice: l’analista ricorre a una sorta d’ipnosi, a rassicurazione suggestiva, holding, empatia, ecc.  Certo un analista navigato non usa la retorica in modo rozzo, palese – è una retorica per l’élite ma sempre retorica è.  Fino al punto che alcuni dicono: la psicoanalisi è solo un’ars retorica – o, come suol dirsi oggi, placebo.  Io spero di no.  Certo l’analisi è un’ars retorica, ma non lo è totalmente.  C’è anche phrónesis, quindi rapporto non epistemico alla verità.  Certo la psicoanalisi aspetta il suo Machiavelli (che iniziò la scienza politica).
    Ora, ogni phrónesis forma attorno a sé anche un alone di sapere.  In un secolo, gli analisti hanno elaborato un certo sapere, che però, a differenza di quello delle scienze di base, ha un carattere eminentemente pratico, anche se svolge una funzione euristica per la ricerca scientifica.  Chi critica la pratica psicoanalitica perché la prende per un’episthéme, dice: “le teorie psicoanalitiche non sono corroborate scientificamente”.  In realtà, nella nostra vita quotidiana continuamente elaboriamo ipotesi che ci permettono di vivere, e quasi mai verificate scientificamente: teorie che ci permettono di capire più o meno quello che gli altri pensano, sentono, se amano od odiano, se mentono o sono sinceri, ecc.  Ogni pratica, col tempo, finisce col produrre un sapere, anche se spesso non formalizzato o tacito (quel che Michael Polanyi chiamava personal knowledge).  
    Comunque, la pratica analitica nel corso di un secolo ha permesso di elaborare ipotesi e modelli spesso altamente sofisticati dei processi psichici.  Quest’aura di sapere non si pone come verità accertata ma come linee-guida per la ricerca.  L’analista è soprattutto uno che ci sa fare, ma è ingiusto dire che non sa nulla.  Sarà compito di una nuova scienza – che tenga conto della natura reticolare e complessa della mente, che abbandoni il linearismo ingenuo di certa psicologia tradizionale – trarre tesoro dall’esperienza analitica per costruire un nuovo sapere.

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