Flussi di Sergio Benvenuto

IL GODIMENTO TRAGICO. Tra Aristotele e Freud30/giu/2016


Pubblicato in Allegoria, anno XVII, 50-51, maggio-dicembre 2005, pp. 95-118.

 

 

Sommario.

 

L’autore si concentra su due autori che più di qualsiasi altro hanno tematizzato lo spettacolo tragico rispetto ai desideri e passioni dello spettatore: Aristotele e Freud. Del primo commenta la Poetica, concentrandosi sugli affetti prodotti dalla rappresentazione: angoscia, pietà, katharsis. L’autore poi commenta alcuni saggi di Freud (Personaggi psicopatologici sulla scena, Aldilà del principio di piacere, Il problema economico del masochismo), in cui questi tematizza il tema del tragico. Per l’autore, l’intero sistema teorico freudiano si basa sull’assioma del Lustprnzip (principio di desiderio-piacere) – anche se poi col tempo Freud stesso corregge la sua impostazione iniziale – e in questa prospettiva il piacere tragico (trarre piacere dalla rappresentazione del dispiacere) costituisce un problema cruciale. Dato che secondo Freud il piacere dello spettacolo tragico attinge a pulsioni masochiste nell’essere umano, l’autore analizza la perversione masochista (Sacher-Masoch, Histoire d’O) interpretandola come una simulazione tragica; c’è del perverso nel tragico, e c’è del tragico nella perversione. Infine, facendo giocare tra loro la teoria di Nietzsche e quella di Freud, interpreta il godimento che dà il tragico in quanto risponde ad una rinuncia al potere e alla padronanza, e l’apertura ad una dimensione signorile di amore per l’altro che non si riduce al potere su un oggetto amoroso. Lo scacco della padronanza rappresentato sulla scena significa la rinuncia a questa padronanza, a quel "voler comandare" al quale in qualche modo obbedivamo; rinuncia che, con poca spesa, ci glorifica.

 

"No, not happiness! Certainly not happiness! Pleasure. One must always set ones heart upon the most tragic.[1]" 
Oscar Wilde (The picture of Dorian Gray)

 

Da alcuni secoli molti pensatori si chiedono: che cosa ci spinge ad assistere a spettacoli tragici e a trarne piacere?[2]

Per tragico intendo un’opera – oggi non più solo teatrale, ma anche cinematografica od operistica o letteraria – dove si rappresentano lutti, infelicità e sconfitte; e dove il finale di solito è triste. In particolare, perché certe catastrofi che, se vissute nella realtà da noi o dai nostri amici, ci susciterebbero unicamente una grande sofferenza, ci danno invece un godimento speciale se rappresentate come finzione? In che cosa consiste insomma questo paradossale bisogno o piacere di piangere?

Nella nostra cultura, comunque, siamo orgogliosi di questo godimento tragico, esso ci distingue dal pubblico immaturo incapace di trarre piacere dal Trauerspiel, dallo spettacolo luttuoso. Infatti, il pubblico più popolare e i bambini non amano i finali tragici. Per più di un secolo i registi inglesi si rifiutarono di rappresentare la morte di Cordelia, modificando la parte finale di King Lear  quel finale per loro mancava di humanitas. Oggi, quando Hollywood rifà un qualche film europeo – e di solito il remake americano incassa molto di più dell’originale europeo – se il film europeo ha un finale triste, gli americani vi incollano un lieto fine; il pubblico di massa esige che alla fine trionfi la Giustizia.

A differenza dunque del pubblico popolare, irretito dal Kitsch, lo spettatore che sa gustare il tragico si sente adulto, maturo, forte, insomma dominatore. E ammiriamo la tragedia greca antica come espressione di una civiltà che abbiamo mitizzata come particolarmente nobile[3].

Si considera il godimento che ci dà il tragico come un piacere sublime nel senso che il Settecento, e Kant in particolare, dette a questo concetto – come distinto dal bello. Nella Critica della capacità di giudicare[4], per sublimi Kant intendeva certe opere già romantiche che rompevano con i criteri della “bella arte”, come la rappresentazione di mari in tempesta, ad esempio. Per Kant il sublime copre l’area del piacere spiacevole, o del dispiacere piacevole. Kant distingueva il ”sublime matematico”, che provoca un piacere che dispiace, dal “sublime dinamico”, che provoca un dispiacere che piace. Sembrerebbe che l’opera tragica sia quindi sul versante del sublime dinamico: dà un dispiacere che piace. Torneremo più avanti su questo bislacco sublime.

 

Resta comunque la domanda: quale godimento, sublime o meno, traiamo dall’assistere alla sofferenza e alla rovina del nostro eroe? Non c’è insomma della perversità, del masochismo, nel nostro gusto del tragico? Le risposte più importanti che siano state proposte per render conto di questo enigma affettivo sono state quelle di Aristotele e Freud. Cominciamo dal primo.

 

  1. 1.    Aristotele: il piacere della finzione

 

Lo scatenamento delle emozioni, con il corredo di equivoco piacere che implicano, è al centro dell'analisi aristotelica della tragedia. Per Aristotele lo spettacolo tragico è una macchina: è poiesis, un produrre. La funzione particolare della macchina tragica è produrre nella gente a teatro del piacere tragico  un piacere connesso alla pietà, all'angoscia e alla katharsis.

          Per Aristotele lo spettacolo tragico era imitazione o simulazione di azione (mímesis práxeos)[5]. Ora, questa simulazione di azioni produce nello spettatore il contrario dell’azione (praxis): del pathos, passione, affetto, passività. Le tragedie non erano tutte a finale catastrofico, ma comunque lo spettatore era affetto da due emozioni o passioni: pietà (eleos) e angoscia (phobos) per l’eroe. Proprio perché vedeva in scena gli errori dell’eroe e sapeva già del penoso destino che lo aspettava, provava pietà e allo stesso tempo angoscia nei suoi confronti. Come dirà Tommaso d’Aquino[6] a proposito del soggetto che soffre per i mali altrui, lo spettatore tragico è misericordioso, il contrario dell’invidioso. Ma anche la misericordia è - come il suo contrario, l’invidia - una passione.

Aristotele avverte lo scrittore che, se nel pubblico vuol produrre piacere pietoso e angoscioso e non ripugnanza, "non bisogna mostrare uomini ottimi che passino dalla felicità all'infelicità". Per esempio, un tragico non avrebbe mai dovuto rappresentare l’uccisione di Socrate – oggi, magari, quella del Mahatma Gandhi. Ma escludeva dalla tragicità anche il caso inverso, quello di "un completo malvagio che precipiti dalla felicità all'infelicità."[7] Nel primo caso la storia è troppo ingiusta, nel secondo caso è troppo giusta. E' miaròn, maledetto o ripugnante, il mutamento che manca di philanthropia[i]. Per Aristotele è accettabile quel che si accorda al nostro “gusto morale”: lo spettacolo non può rappresentare qualcosa di totalmente ingiusto o di troppo giusto. L’estetica tragica scava il suo spazio in una zona grigia di incertezza etica. E l’eroe tragico è uno che sta nel mezzo tra l’infamia e la lode: è un uomo o una donna di mezza tacca morale[8].

 

Comunque, perché pietà e angoscia diventano patimenti piacevoli quando vengono suscitati da una simulazione? Aristotele lega la funzione imitativa o simulativa dell'arte al kairein, al godere. "C'è il godimento che tutti traiamo dalle cose imitate" (kaì tò kaìrein tois mimémasi pàntas), scrive[9] e aggiunge: "Quelle cose che ci fanno soffrire quando le vediamo nella realtà, ne godiamo se le osserviamo in immagini (tas eikonas) che siano il più possibile fedeli". Così i sentimenti suscitati elettivamente dalla tragedia, pietà e angoscia, in sé spiacevoli, proprio perché suscitati da una mimesis ci danno piacere. Il piacere che traiamo dalla rappresentazione di vicende tristi o terrificanti quindi ci è dato proprio da questa rappresentazione. Quel Verfremdung, straniamento, che Brecht voleva opporre all'identificazione classica, in un certo senso è sempre presente a teatro, anzi, è la condizione stessa del divertimento: non è la vicenda penosa a divertirci, ma la sua finzionalità, e quindi la sua (per fortuna!) inattualità. Se però questa vicenda ci appare come una nostra possibilità quasi-attuale (nel passato o nel futuro), la sua rappresentazione ci può ripugnare o sconvolgere. Su questo si basa appunto la tattica di Amleto, quando tenta di far "confessare" al re Claudius il suo delitto rappresentando uno spettacolo teatrale la cui storia è troppo simile alla realtà.

Ovviamente, non tutti gli spettacoli piacevoli sono tragici: "da una tragedia non deve trarsi un piacere qualunque, bensì quello che gli è proprio": essa deve "fornire il piacere che nella simulazione deriva da pietà e angoscia"[10]. Tra tutti i prodotti che fanno godere gli esseri umani, la tragedia si distingue per questo: attraverso procedure imitative o simulative, fornisce un piacere paradossale connesso alla pietà e all'angoscia.

 

  1. 2.    Aristotele: katharsis

 

Ma, aggiunge Aristotele, lo spettatore tragico ricava un piacere che va oltre il piacere di assistere semplicemente a una simulazione riuscita, ed è qui che emerge un’altra specificità del piacere tragico: lo spettatore, di fronte allo scioglimento del dramma, evacua questi affetti di pietà e angoscia – si libera della misericordia. Aristotele chiamò katharsis questa liberazione.

Dal Cinquecento in poi ci si rompe la testa per capire che cosa Aristotele intendesse veramente per catarsi. Se ne continua ancora a dibattere. Tutti i molteplici sensi di questo termine greco sono stati evocati per interpretare la teoria aristotelica: katharsis come purificazione, purga, separazione, lavaggio, liberazione, persino mestruazione e defecazione[11]. Siccome la katharsis è un concetto medico, essa andrebbe capita in riferimento alla concezione medica dell’epoca, secondo la quale curare era eliminare un eccesso di umori. Allora la katharsis sarebbe un salasso: eliminazione di un eccesso emotivo. Ma proviamo a capire secondo i nostri concetti psicologici moderni quel che la teoria aristotelica implicava.

Oggi diremmo che per Aristotele la katharsis è sì un piacere, ma che porta l’impronta del dolore di cui essa è liberazione. E’ come quando con un massaggio si tocca un punto nevralgico: la stimolazione di questo punto, proprio perché indolenzito, produce un piacere liberatorio, agrodolce, un dolore squisitamente piacevole. Perché si mette in movimento un nodo, qualcosa di rigido.

Una rigidità – non fisica ma psichica - è all’origine della noia: è questa a spingerci ad assistere a spettacoli pietosi e angosciosi[12]. La noia è una pura potenzialità di pietà e angoscia che, non potendosi attualizzare in rapporto a eventi, ci ritorna come un boomerang: puro desiderio di godimento che non trova alcuna sofferenza per goderne. Vediamo la noia già agitare il bambino piccolo, che smania di stimoli per essere distratto dal suo vuoto. Ci annoiamo perché desideriamo che qualcosa di risibile o di angoscioso ci accada. Insomma, i divertimenti – tra cui gli spettacoli tragici – sono una difesa contro la noia, ci distolgono dalla depressione.

          La clinica psichiatrica e psicoanalitica ha descritto le cosiddette “depressioni vuote”, il sentimento del “Sé svuotato”: il soggetto soffre di un vuoto che toglie senso alla sua vita, la sua esistenza è incolore. Questo blank self lamenta il suo sentirsi inaridito, una sua quasi non-esistenza. Ora, chiunque di noi può percepire gli albori di questa depressione: è proprio quella noia vaga, incombente, che ci aizza a volgerci a rappresentazioni eccitanti per ridare vita alla vita. Questo ci porta a teatro, a cinema, o ci inchioda davanti al televisore - in altri porta alla messinscena perversa. Tutti abbiamo bisogno dell’arte per darci una “botta di vita”.

Lo spettacolo col finale triste ci dà comunque un piacere paradossale - katharsis – uno shatzu dell’anima; un piacere diverso da quello datoci dai racconti d’avventure ad esempio. Anche questi suscitano pietà e angoscia – il nostro eroe ne passa di brutte - ma alla fine esse risultano molto rumore per nulla: il lieto fine ci solleva da pietà e angoscia. Nella tragedia, invece, l’evacuazione di questi affetti misericordiosi si produce proprio confermando le ragioni della pietà e dell’angoscia: da questa conferma sorge lo specifico godimento tragico.

Perché ci sia piacere catartico, occorre quindi che l’azione rappresentata mobiliti prima delle passioni, che subiamo senza poter reagire veramente. La tragedia deve farci ammalare per guarirci.

Comunque il piacere tragico è una cura provvisoria: per tutta la vita possiamo continuare a godere di spettacoli tragici, perché - per fortuna! - non guariamo mai da quello che ce li rende godibili. La catarsi non è una guarigione definitiva: finiamo col tornare a teatro, a cinema, perché abbiamo periodicamente bisogno di quel massaggio. E qual’è questa ferita o nodo che il tragico massaggia, dandoci un piacere purgativo, liberatorio? Aristotele non lo dice, ma oggi possiamo arrischiare qualche ipotesi.

Probabilmente la noia depressiva di sfondo risponde all’ingiustizia originaria della condizione umana - alla delusione che, ben presto, ogni soggetto prova nei confronti di una promessa che le prime cure da parte dei genitori sembravano implicare: che nella vita si meritino sempre gratificazioni, che insomma la grazia sia con noi. La promessa che si sarà aiutati solo per amore, gratuitamente, è chiaramente smentita dalla realtà – e dai genitori stessi, primi tra tutti. Inoltre, non è vero che si gode o si soffre perché, in entrambi i casi, lo si merita. Questo ingiusto, insensato dolore degli esseri umani è il nodo rigido che molte arti, senza posa, ci massaggiano. Gran parte dell’arte, in fondo, ci aggiusta all’ingiustizia essenziale del mondo – regalandoci il contentino, la consolazione di un brivido estetico piacevole.

 

  1. 3.    Freud: Il principe del piacere

 

Vediamo ora Freud. Heidegger[13] invitava a ritrovare in ogni grande pensatore un unico grande pensiero che organizza la complessa architettura del suo discorso. Quale è allora il grande pensiero di Freud, che rende conto del suo travaglio, delle sue difficoltà, delle ramificazioni della sua teoria - e del suo interesse per il tragico?

Mi pare che il suo grande pensiero fosse die Lust – tradotto in modo unilaterale con “piacere” - come causa ultima (ad un tempo efficiente e finale[14]) della mente umana. In effetti tutta l’energia esplicativa della dottrina freudiana deriva da una sorta di ambiguità fondamentale di Lust, che è sin dall’inizio uno e bino: in tedesco Lust difatti significa sì piacere, ma anche ciò che Freud considera il suo contrario, vale a dire la brama, il desiderio, l’aver voglia (tensioni per lui spiacevoli). Der Lustprinzip freudiano – il principio di piacere - potrebbe difatti essere inteso anche come "principio del desiderio" e quindi come "principio del dispiacere"!

Per Freud la verità dell’uomo è die Lust, ovvero l’uomo è fondamentalmente un ente mosso da desideri o pulsioni che tendono al piacere, ovvero al minor dispiacere possibile. L’essenza dell’essere umano – come di ogni organismo vivente – è desiderare per avere piacere[15]. Possiamo anche chiamare questo principio regolatore, in termini antichi, arché e telos. Arché in quanto è all’origine dell’agire umano  ragion per cui la psicoanalisi pretende di essere una Genealogia della psiche umana, e non solo una semplice teoria psichiatrica. Arché presuppone il telos (il fine e la fine, la causa finale) di questo agire, e ciò che comanda questo agire. Se mi si consente il gioco di parole, die Lust come principio è Principe dell’umanità.

          Freud aveva ereditato questo Prinzip o Prinz, principio o principe, dall’empirismo utilitarista britannico  tradizione di pensiero da cui lui pensava di derivare le premesse della sua ricerca. “La natura – garantiva Bentham - ha posto l’umanità sotto il dominio (governance) di due padroni sovrani, dolore e piacere”[16]. Per l’utilitarista l’uomo, come l’Arlecchino di Goldoni, è servitore di questi due padroni  che per Freud sono in realtà due facce dello stesso principe, Lust. Questo perché il piacere in Freud equivale alla riduzione del desiderio, e per lui questo desiderio è dolore; il miglior piacere che ci si possa aspettare è di diminuire il nostro dispiacere.

Nel quadro di questa scommessa teorica freudiana, dove die Lust è il nome dell’essenza dell’uomo  ad un tempo ciò che lo muove come desiderio, e ciò a cui tende come meta  il tragico costitusce problema. Il presupposto freudiano rende interessante la domanda: "allora perché l’uomo non si limita a soddisfarsi con spettacoli tutti rose e fiori, perché cerca un’esaltazione tragica nella sconfitta?"  Se l’angoscia e la pietà, a teatro o a cinema, producono uno specifico piacere, che tipo di piacere è questo, che esige come condizione una certa angoscia e pietà?

 

  1. 4.    “Il dramma psicopatologico”

 

In un articolo del 1905[17], Freud provò a definire le condizioni del piacere tragico. Per lui l’adulto dal dramma ricava un piacere analogo a quello che il bambino trae dal gioco: mentre il bambino gioca a fare l’adulto, l’adulto a teatro gioca a fare il grande eroe. “Lo spettatore vive troppo poco intensamente, si sente ‘misero, al quale nulla di grande può accadere’”[18]: il dramma ci dà il godimento di sentirci “grandi”.

Il punto è che nella tragedia l’eroe è grande soprattutto perché affronta un grande conflitto con qualche altra cosa. Se l’eroe è in lotta contro la divinità, abbiamo la tragedia religiosa. Quando poi l’eroe si volge essenzialmente contro l’ordinamento della società umana, abbiamo la tragedia borghese. Se il conflitto è tra eroi, abbiamo la tragedia di carattere. Se il conflitto poi è essenzialmente tra impulsi diversi all’interno della psiche dell’eroe, abbiamo il dramma psicologico.

Il dramma da psicologico diventa psicopatologico quando il conflitto non è tra due impulsi consci, ma tra uno conscio e l’altro inconscio. Abbiamo qui allora la tragedia moderna, il cui primo esemplare sarebbe Hamlet. In effetti per Freud le due tragedie più eloquenti sono Edipo Tiranno di Sofocle e Hamlet. In ambedue i casi vi aveva letto una messa in scena di desideri primordiali: il desiderio di uccidere il padre e quello di fare l’amore con la madre. Ma in che senso il dramma ci fa riconoscere questi desideri rimossi? Per esempio, nel caso di Amleto, in che senso l’interesse del dramma per noi consisterebbe nel farci riconoscere i nostri stessi desideri di incesto e parricidio?  Freud, nello sforzo di render conto di come si possa trarre piacere da questo riconoscimento, oscilla.

In effetti, per poter apprezzare drammi psicopatologici come Hamlet occorre che il pubblico moderno sia nevrotico – tutti ormai siamo in qualche modo “amletici”. Ovvero, la nostra rimozione di moderni è fragile. Ma il ritorno del rimosso di solito induce dispiacere, angoscia, non piacere. Da dove viene allora il piacere di mettere in scena certi nostri conflitti fondamentali?

Da questi conflitti nei quali l’eroe soccombe, dice Freud, scaturisce piacere in virtù 1) del soddisfacimento masochistico dello spettatore (che analizzeremo più avanti) e 2) "del godimento insito nella personalità la cui eroica grandezza è pur sempre esaltata"[19]. Occorre però che lo spettatore non soffra troppo, che l’autore sappia "compensare, mediante i soddisfacimenti resi in tal modo possibili [or ora citati, nota mia], la pietà suscitata.[20]"

Ma il punto essenziale è che la rappresentazione drammatica rivela, fa riconoscere anche allo spettatore un impulso rimosso. Questo riconoscimento, che spiegherebbe il fascino del dramma per noi, deve essere però parziale, anzi mancato: perché se il desiderio rimosso venisse svelato chiaramente, il risultato sarebbe la ripugnanza e non il piacere.

In effetti, per altri versi Freud ammette che la tragedia non porta alla presa di coscienza di un bel nulla. E difatti, "in Hamlet il conflitto è tanto ben nascosto che è toccato a me indovinarlo per primo."[21]

 

“[per la riuscita della tragedia occorre che] tanto più l’impulso che lotta per emergere nella coscienza è riconoscibile con certezza, tanto meno venga chiamato chiaramente per nome, così che nel pubblico il processo si compia di nuovo mentre la sua attenzione è distratta..."[22]

 

Il processo a cui si riferisce è evidentemente il lavoro del desiderio per farsi riconoscere.  Lo spettacolo funziona perché allo stesso tempo vela e svela: non ci sarebbe arte e piacere dello spettatore se la verità completa venisse detta. L’arte ha bisogno di penombra per la verità. Da una parte fa emergere la verità, ma dall’altra ci distrae dalla sua visione.

Come si vede, Freud in sostanza descrive il dramma tragico come un sintomo nevrotico – ed è simile anche al motto di spirito, dato che questo, diversamente dal sintomo, procura piacere e non sofferenza. Il tragico è un godimento egosintonico, non egodistonico. Come ogni sintomo o sogno, il dramma fa apparire il rimosso, senza però mai dirlo  e questo non dire è la resistenza che l’autore deve assicurare allo spettatore, affinché il processo tragico procuri piacere e non ripugnanza. Ma questo godimento del tragico è possibile in quanto Freud, come abbiamo visto, considera lo spettatore moderno più nevrotico di quello antico. In Edipo Tiranno i desideri rimossi  incesto, parricidio  potevano essere mostrati in forma più aperta, anche se proiettati nel reale: non si diceva che Edipo desiderasse uccidere il padre e giacere con la madre, si diceva solo che lo aveva fatto perché questo era il suo destino. Nell’equivalente moderno della tragedia di Edipo, Hamlet, i desideri fondamentali fanno capolino in modo molto più indiretto. Il teatro e il cinema, che incantano l’uomo moderno, massimizzano allo stesso tempo sia il riconoscimento della verità soggettiva che il suo disconoscimento.

E comunque: che differenza passa tra questo riconoscimento attraverso l’arte e quello reso possibile da un’interpretazione giusta fatta da un analista al suo paziente? Se l’interpretazione edipica del dramma di Amleto, per esempio, è corretta, il condividerla non dovrebbe portarci a perdere qualsiasi interesse per quel dramma, così come il nevrotico perde interesse per il sintomo – ovvero guarisce - quando questo è correttamente interpretato? In altre parole, l’interpretazione psicoanalitica non dovrebbe guarirci dal fascino tragico? Eppure - per nostra fortuna - mai ci guarisce. Freud non prende in considerazione questa eventuale obiezione.

In generale, la tesi di Freud sul dramma tragico  come del resto tutte le sue teorie principali  ruota attorno a ciò che Lacan ha interpretato come una dialettica del riconoscimento[23]. Il rimosso preme per farsi riconoscere – e si esprime in sogni, sintomi nevrotici, motti di spirito, atti mancati, opere artistiche; ma tutte queste formazioni, proprio perché esprimono il rimosso, in qualche modo lo camuffano e lo velano. Nello spettacolo drammatico si rivela una verità dei nostri desideri, ma l’arte riesce ad occultarci per altri versi questa verità. Resta allora aperto il problema di come riconoscere il vero o giusto riconoscimento. Il conflitto tra le varie scuole psicoanalitiche si impernia in effetti attorno alla difficoltà di render conto degli effetti (terapeutici, rivelativi, conoscitivi, euforizzanti, ecc.) delle varie interpretazioni in quanto pretesi riconoscimenti della verità dei nostri desideri. Infatti ogni disvelamento interpretativo a sua volta può essere visto come un’altra interpretazione mitica aggiuntiva, come una narrazione che, pur svelando, ancora una volta vela.

Platone predicava il riconoscimento filosofico del fatto che il mondo sensibile è apparenza e che il vero reale è altrove. Ora, in Platone colui che riesce a uscire dalla caverna non si limita a vedere le cose vere in piena luce: torna nella caverna buia per svolgere la sua paideia, per far sì che i prigionieri riconoscano che ciò che vedono sul fondo sono ombre e non realtà. Questa paideia è diventata poi la Bildung dei tedeschi: un processo di formazione che è anche di riconoscimento. Ora, in quella paideia o Bildung che è la cura analitica, Freud applica il modello platonizzante del riconoscimento del desiderio rimosso. Come abbiamo detto, per Freud questa è la verità: che (almeno prima facie) il Principe del DesiderioPiacere ci regola. Ma l’essere umano è chiamato anche a riconoscere questo dominio del Lustprinzip come la sua propria verità. E’ in questo riconoscimento della propria passione  in questa sottomissione a Lust – che l’uomo freudiano si libera della alienazione nevrotica, la quale si fondava sul misconoscimento dei conflitti che si dispiegano in questo dominio. Il soggetto, riconoscendo la verità dei propri desideri (rimossi dai propri Ideali), guarisce e si rasserena. Da Platone a Freud si dispiega una terapia dell’anima attraverso il riconoscimento della verità. Ma il punto è che questo riconoscimento non deve mai essere completo: altrimenti farebbe sorgere una resistenza eccessiva. Il che apre difficoltà irrisolte.

E’ possibile allora un’analisi dell’effetto tragico che eviti il presupposto  fondamentalmente platonizzante  del riconoscimento o della rivelazione della verità dell’eros, dell’anima, del soggetto? E’ quel che in qualche modo Freud stesso tenta in Aldilà del principio di desiderio-piacere[24], un testo che può essere letto, tra le altre cose, come una teoria del tragico.

 

  1. 5.    Il bambino “tragico”

 

In Aldilà… Freud si interroga su casi che paiono mettere a dura prova la sovranità del principio di desiderio-piacere, che paiono smentirne il potere assoluto: evoca i sogni traumatici, i giochi infantili che mettono in scena situazioni spiacevoli, le ripetizioni nel transfert e nelle nevrosi di destino.

I sogni traumatici sono incubi in cui il soggetto rivive ripetutamente una scena drammatica che ha realmente vissuto, senza alcuna deformazione metaforica di questa. Ad esempio, sogna sempre la scena in cui egli stava per essere investito da un camion, più o meno come essa si svolse realmente. Le nevrosi di destino sono quelle per cui certe persone si trovano sempre in situazioni penose e frustranti, falliscono sempre ripetendo gli stessi errori. Anche il transfert è una ripetizione: il paziente ripete nei confronti dell’analista atteggiamenti e sentimenti che aveva già nutrito nei confronti di personaggi cruciali della propria infanzia. Tutti questi esempi di ripetizioni possono essere infatti invocati come contraddittori con il Lustprinz(ip): il soggetto pare perseguire il dispiacere piuttosto che il piacere, insomma, egli sembra ribellarsi al Principe del Piacere.

In questo testo, Freud analizza un gioco che faceva suo nipote, un piccolo di 18 mesi: gettava continuamente oggetti di ogni genere sotto i mobili gridando Ooo  per dire (in tedesco) Fort! (Via!)[25]. Freud giunge alla conclusione che questi oggetti fatti sparire erano simboli  nel senso direi etimologico del termine, da syn ballein, come ciò che si getta assieme nello stesso momento. Assieme agli oggetti, il  bimbo getta via, simbolicamente, sua madre. Con questo gioco ripetitivo, il bambino rappresenta insomma l’assentarsi dell’oggetto amato, la madre - anche la madre più premurosa qualche volta si allontana - vale a dire mette in scena proprio ciò ch’egli paventa di più. Insomma, l’enigmatico piacere di questo gioco è il prototipo arcaico del piacere tragico: il gioco centrifugo del Fort consiste infatti nella rappresentazione di ciò che per il bambino è più che mai spiacevole, la separazione dalla madre.

Ma come può accadere che ci si possa procacciare un piacere ludico ripetendo la rappresentazione di un evento spiacevole? E’ il problema del godimento tragico.

 

Freud offre intanto, in questo saggio, delle risposte provvisorie a questi problemi da lui stesso posti. Nel caso del nipotino, ricostruisce un suo gioco più precoce. Lo stesso bambino si divertiva con un rocchetto di legno attorno a cui era attorcigliato uno spago, lo gettava all’interno della culla esclamando "Fort" tenendo un capo dello spago tra le dita, e poi faceva riapparire il rocchetto tirando lo spago ed esclamando quindi "Da" (Ecco). Questo rudimentale teatro di marionette, dove alternativamente il rocchetto scompare e riappare, fornirebbe la chiave del giocoazione di cui sopra, dove appariva solo la parte centrifuga, "tragica", del pendolo rappresentativo. Col gioco del rocchetto, il bambino mette in scena la sparizione della madre come se egli stesso la rigettasse, per farla poi subito dopo ritornare  la sequenza è a lieto fine.

Giochi tipo rocchetto sono la matrice di ogni fiction con happy end: l’eroe a cui ci identifichiamo corre vari pericoli – fort! - ma alla fine si salva e trionfa - da. Ma il gioco successivo, quello in cui il bambino getta gli oggetti senza farli ricomparire, appare una primitiva tragedia: la storia non finisce bene, l’eroe alla fine soccombe. La fase tragica  del fort senza da, della deiezione – può essere interpretata come una commedia monca. Possiamo dire insomma che la tragedia è tutta una commedia? E’ cioè il tragico una sineddoche [la parte per il tutto] di una commedia, ovvero, una commedia interrotta? Nel senso che il tragico presuppone il lieto fine ma non lo pone nella rappresentazione? Del resto, le tragedie più antiche si concludevano di solito con una riconciliazione – come nelle Eumenidi di Eschilo[26]. Attraverso questi giochi infantili, possiamo allora vedere la tragedia come un gioco del fort dove la fase del da, della riconciliazione o ricongiunzione, non si dà più sulla scena ma, forse, solo nell’anima dello spettatore. Lo spettatore del tragico completa allora nella propria anima un processo che sulla scena resta incompleto?

In realtà, il prosieguo dell’analisi di Freud in Aldilà… ci porterà esempi ancora più inquietanti di "tragedie", questa volta davvero irriducibili a commedie inconcluse  e tali da sfuggire veramente alla giurisdizione del Principe. Questi casi più radicali  come la cosiddetta risposta terapeutica negativa[27]  gettano un’ombra retroattiva sui casi apparentemente risolti, come appunto il gioco del fort, risolti in quanto parevano riconducibili alla dialettica del Lustprinzip. In questa nuova luce, anche la questione del piacere tragico si riapre... tragicamente.

          In fondo, il saggio freudiano che stiamo esaminando è una palinodia, ovvero un canto di ritrattazione della fedeltà al Principe. In particolare: anche nel tragico, pur così piacevole, c’è dell’irriducibile al Lustprinz(ip). E' un suo aldilà, un esser oltre che non significa assenza di piacere, ma la possibilità di attività umane pur piacevoli che non abbiano il piacere come principio e fine.

 

Abbiamo detto che Freud riprende l’idea del Piacere - come causa prima dell’agire umano - dall’etica dell’empirismo britannico. Per questo filone di pensiero, la massimizzazione del piacere - o la minimizzazione del dispiacere, come piuttosto Freud precisa - è a fondamento della morale. Mentre le percezioni "esterne" sarebbero a fondamento delle scienze, la sensazione “interna” del piacere sarebbe a fondamento dei sistemi morali – il cui fine sarebbe appunto, sempre, la massimizzazione della felicità di ciascuno. Sentimenti e percezioni hanno difatti un carattere di certezza: le cose incerte (scienze, etica) si basano su qualcosa di certo, ovvero di soggettivo.

Il paradosso però è che Freud ha seminato dubbi sull’evidenza e certezza dell’impression del piacere e del dispiacere. Nella sua riflessione sull’angoscia, Angst - che per lui è desiderio slegato e non padroneggiato - Freud nota un’ambiguità radicale di questa: ciò che a una parte dell’anima (che poi chiamerà das Ich, l’Io) risulta spiacevole, a un’altra parte (che poi chiamerà Es) risulta piacevole. L’angoscia e l’orrore sono il godimento del soggetto desiderante.

In altre parole, pur partendo dal fondamento del piacere, Freud finisce con lo sfaldare questo fondamento, introducendo un dubbio distruttivo sul piacere come certezza. Dopo Freud, non possiamo dare più a "piacere" o a "desiderio" lo stesso significato che avevano prima. La sua manovra nasceva facendo di Lust, con tutta la sua ambiguità, il Principe che dà valore ai valori, ma sottraendoLo alle evidenze sentimentali della coscienza. E proprio nel corso di questa manovra egli deve riconoscere che alcuni piaceri sono irriducibili al Cesare del Piacere, così come all’Augusto del Desiderio.

 

  1. 6.    Dall’evento alla rappresentazione

 

          Per Freud, sin dalla nascita ci confrontiamo con eventi traumatici. Come allora padroneggiamo il trauma attraverso la ripetizione? Elaborando lo spavento in angoscia.

Come abbiamo detto, Freud si chiede il perché dei sogni traumatici. In effetti, la teoria del sogno di Freud – “il sogno è sempre la realizzazione immaginaria di desideri” - adotta la teoria popolare sugli stessi, che si esprime anche nel linguaggio comune: diciamo “sogno un mondo giusto” e intendiamo “desidero un mondo giusto”. Insomma, il sogno è regolato anch’esso dal principio di desiderio-piacere: esso ci permette di continuare a dormire dando i nostri desideri come se fossero realizzati. Ma i sogni in cui riviviamo un trauma reale che abbiamo subito non confutano questa teoria del sogno come realizzazione immaginaria di desideri? come un trauma può essere desiderabile e quindi sognato?

Ora, per Freud gli incubi notturni svolgono una funzione: ripetendo oniricamente la scena del trauma, il soggetto lega l’evento trasformandolo in rappresentazione. Non è più il camion che ci investe: è la sua immagine. Quel che la psiche aveva subìto passivamente, ora, grazie alla ripetizione della sua rappresentazione, diviene una figura minacciosa che il soggetto può controllare ativamente come rappresentazioni. Questa rappresentazione può divenire anche inconscia: in questo caso la paura evolve in angoscia – è quel che oggi viene chiamato “attacco di panico”. Ma anche l’angoscia per una rappresentazione inconscia – come quando siamo in ansia ma non sappiamo bene perché – è parte di questo progressivo lavoro di Bindung, legamento, dell’evento che ci fa soffrire.

          Quindi, il passaggio dallo spavento all’angoscia è un passaggio dall’evento alla rappresentazione:

 

1)    lo spavento (Schreck) è l’effetto di un evento privo di qualsiasi rappresentazione, e quindi, anche per questo, altamente traumatico;

2)    la paura (Furcht) è il timore di fronte a un evento questa volta invece rappresentato, come possibile nel futuro;

3)    l’angoscia (Angst) è il timore per una rappresentazione che ormai non rimanda più ad alcun evento.

 

[I + designano la presenza del tratto in questione, i – la sua assenza.]

 

L’angoscia, come si vede dalla figura, riguarda rappresentazioni sia consce che inconsce, e del resto la differenza tra le due può essere sottile. L’agorafobico, ad esempio, è angosciato da una rappresentazione conscia, manifesta: gli spazi pubblici. Ma allo stesso tempo, secondo Freud, la situazione fobica è un sostituto di un’altra rappresentazione, inconscia. L’angoscia sarebbe una paura il cui oggetto originario scivola nell’inconscio.

          L’angoscia quindi è un meno-peggio per il soggetto: ciò che lo fa soffrire diventa rappresentabile, perciò prevedibile, allora psichicamente elaborabile e quindi evitabile[28]. Non posso disfarmi dell’evento traumatico – è accaduto ormai – ma posso disfarmi delle sue rappresentazioni. L’angoscia è un lavoro come il lutto; nel lutto mi separo dalla cosa amata che ho perso - e nell’angoscia mi separo, lentamente, da ciò che mi terrorizza, e quindi, col tempo, dall’angoscia stessa. Certo l’angoscia è una medicina che darà anche giovamento, ma che resta molto amara.

          Che relazione c’è tra l’angoscia (Angst) di Freud e quella (phobos) di Aristotele? Volendo freudianizzare Aristotele, potremmo dire che per lo Stagirita il piacere tragico è catartico in quanto esso guariva proprio dall’Angst (oltre che dalla pietà – dall’identificazione al personaggio diremmo oggi), perché opera una riconversione dalla rappresentazione all’evento, rovesciando quindi la progressione illustrata nella figura qui sopra. (Una riconversione che però non corrispondeva a una semplice regressione allo spavento.) Lo spettacolo riattualizza rappresentazioni.

Quindi, secondo Freud la ripetizione e rappresentazione dell’evento angoscioso è già un inizio di superamento dell’angoscia. La ripetizione allora, in linea generale, serve a binden, a legare il processo primario, la fuga sfrenata delle rappresentazioni. Si tratta però di vedere se questa Bindung servile si faccia in accordo o no con il Principe di piacere. C’è incertezza in Freud nel distinguere la ripetizione che lega da quella che slega  quella che serve il Principe da quella autonoma, anarchica.

 

 

  1. 7.    Il piacevole scacco della padronanza

 

          Il punto però è che la tragedia non ripete nulla – quindi, non serve a legare lo slegato, il traumatico. Anzi, la rappresentazione tragica interrompe la ripetizione, ovvero la serie mitica o il gioco infantile. E’ vero, lo spettacolo tragico antico di solito metteva in scena miti, vale a dire storie tante volte ripetute[29]: ma le metteva in scena come processi fulminei, attuali, come se quegli episodi accadessero là, davanti a tutti, per la prima volta. La catastrofe, raccontata o rappresentata tante volte, nella tragedia antica veniva incontro al suo pubblico con una inattesa freschezza. Quando rivediamo, per l'ennesima volta, la storia di Medea o di re Lear, non può interessarci il piacere di tipo fort  vale a dire non ci divertiamo a dominare, simbolicamente, l'errore (amartia) dell'eroina o dell’eroe in cui riconosceremmo qualche nostro errore. E' raro che i nostri errori siano del tipo di quelli di Medea o di Lear. Ci commuove piuttosto, attraverso la progressiva metabasi – il mutamento di fortuna - dell'eroe, il patetico scacco della sua padronanza.

Ci identifichiamo  nel senso comune del termine  a re Lear, ad esempio, in quanto, in fondo, ci colpisce, malgrado i suoi errori, il carattere fatale della sua decadenza: la tragedia come evento mette in scena essenzialmente non tanto, ripetendolo, lo spiacevole, quanto piuttosto la non-padronanza dello spiacevole. La tragedia ripresenta non laripetizionechelega, ma l'evento che ci slega dalla ripetizione. Le rappresentazioni tragiche funzionano proprio perché non ripetono, non servono a renderci più padroni, non ci servono: eppure ci fanno godere.

Ma allora la pratica  pur così socializzata, mondana, apparentemente ben poco demoniaca  della rappresentazione tragica nelle sue varie forme non è irriducibile al principio o principe di piacere? Il piacere tragico sarebbe insomma qualcosa di analogo ai due processi che Freud evoca proprio come del tutto irriducibili al principio di piacere: le nevrosi di destino e la ripetizione nel transfert analitico. Freud  ad una certa tappa della sua argomentazione – dà questa soluzione al problema costituito da questi due esempi: le nevrosi di destino e la ripetizione nel transfert mostrerebbero all'opera una pulsione di morte, cioè l'impulso a una ripetizione che slega, una tendenza innata a una frammentazione irreversibile del vivente – oggi diremmo: trionfo dell’entropia, del caos.

Anche nel tragico ci sarebbe allora dell'irriducibile al Lustprinzip, e non perché alla fine restano solitamente in scena dei cadaveri: il tragico è "al di là del principio di piacere" non perché manchi di dare brividi di piacere al pubblico, ma perché adombra la possibilità di un piacere che non abbia Piacere come suo principio e fine. Il tragico – come il transfert e gli scacchi del destino – fa ombra al Principe.

Abbiamo visto che Freud chiama masochistico questo piacere – noi lo abbiamo chiamato sublime – che traiamo dalla rappresentazione luttuosa. Ma cosa significa che la rappresentazione tragica soddisfa il masochismo del pubblico? Semplicemente, che il pubblico trae piacere dal suo dispiacere, che è appunto anche la caratteristica del tragico: dire che il tragico è masochistico equivale insomma a dire che… il tragico è tragico. Non è una vera spiegazione, è una tautologia. Prima di scartarla definitivamente, però, sarà bene esaminare un po' il ricorso freudiano al masochismo, e al bisogno di autopunizione che gli si connette, e in che senso esso sia molla del tragico.

 

  1. 8.    Potere masochistico

 

Freud distingue tre tipi di masochismo: erogeno, femmineo e morale[30]. Consideriamo qui solo le pratiche masochiste erogene. Prima facie il masochismo erogeno non pare creare soverchi problemi teorici: esso è un modo come un altro, benché sghembo, di procacciarsi piacere da parte di un soggetto[31]. E' vero che per godere il masochista deve farsi malmenare e umiliare da una donna, ma quel che conta è che egli miri, come tutti, al sacrosanto godimento. Il masochista sembra non sottrarsi affatto al dominio dialettico di Lust: il suo sarebbe solo un modo di dare il contentino, per così dire, al proprio "bisogno di punizione" o senso di colpa. Il suo Super-Io gode nel punirlo perché lo considera colpevole. Tutto nel soggetto gode: il Super-Io in quanto sadico, l’Io punito in quanto masochista. Ora però, al Freud più maturo questo modo di vedere è apparso inadeguato: il masochismo, almeno quello che lui chiama primario, non è soggetto del tutto al principio di piacere.

Certo, una linea interpretativa reintegra il masochismo nel Lustprinzip facendone innanzitutto una strategia di padronanza. Il masochismo sarebbe solo una conferma per absurdum che nelle perversioni è in gioco il potere del/sull'altro: benché i maltrattamenti concupiti dal masochista siano ben reali, per altri versi essi non sono veri come i maltrattamenti di chi li subisce senza averli richiesti. Il masochista rappresenterebbe la propria impotenza proprio come mezzo e disciplina per realizzare il suo potere sull’altro e su se stesso. Come nel gioco del fort (senza da) il bambino mette in scena spavento e solitudine per superarli – per padroneggiarli -, così il masochista attraverso il suo cerimoniale confermerebbe la sua padronanza sul suo compiacente aguzzino: è nella misura in cui lo nomina proprio padrone per contratto[32] che di fatto lo asservisce alle sue voglie. C'è qui un'analogia con la tragedia  come rappresentazione dell'impotenza dell'eroe  in quanto questa ripeterebbe la rappresentazione dello scacco al fine di dominarlo spiritualmente. Masochismo, pathos tragico, gioco deiettivo (fort) infantile: tre esempi della vertiginosa dialettica grazie a cui l'essere umano gode nel significare die Lust mettendone in scena il contrario: il dispiacere, Unlust.

Il masochismo erotico sarebbe quindi uno spettacolo di padronanza del/sul dolore e del/sull'altro, padronanza che deve però cimentarsi, per esser tale, con la sua antitesi. E appunto, lo spettacolo perverso è il darsi in spettacolo di un rischio. Ma se la perversione è comunque una forma della Volontà di Potenza – nel senso di Nietzsche -, perché questa Volontà si afferma proprio attraverso la messinscena dell’impotenza del soggetto nei confronti dell’altro?

Consideriamo la biografia di Leopold von Sacher-Masoch (1836-1895), dato che da lui viene il termine masochismo[33]. Sacher-Masoch era figlio di un capo della polizia austro-ungarica, membro prestigioso della classe alta, scrittore di successo. Eppure egli si faceva frustare e umiliare dalla sedicente Wanda Dunaieff  sua moglie, una cacciatrice di dote  in forza di un "contratto" in cui egli si impegnava a essere suo schiavo. Lo scrittore faceva così perché, attraverso l'antitesi della rappresentazione, otteneva potere su di lei? In realtà Masoch era già, praticamente, il signore di Wanda; se non lo fosse stato, si può star certi che si sarebbe ben guardato dal giocare a farle da schiavo.

E' vero, il masochista talvolta gioca al limite, fino al punto dove l'artefatto minaccia di scivolare in realtà (in vera servitù). Ma bada anche sempre a che questo limite, benché sempre di più accostato, non venga sorpassato. Il masochista è come un pièveloce Achille che si servisse di Zenone Eleatico per non raggiungere mai la tartaruga. Occorre che egli, di questo limite, ne abbia in ultima istanza il controllo. Come diceva Theodor Reik[34], “il masochista perde tutte le battaglie tranne l’ultima”. Il masochista è insomma più uno che si serve del suo potere per imbastire le sue scene erotiche, che uno che si serva delle scene erotiche per imporre il suo potere sull’altro.

Gli scrittori o registi che hanno descritto grandezze e miserie della vita libertina ci propongono un'immagine convincente del masochista da bordello: questi per lo più è un uomo "arrivato", rispettato - proprio come era Sacher-Masoch. Facendosi frustare da una povera prostituta, egli rivela una faccia antitetica del proprio benessere sociale, una cupidigia ben poco umile per la propria abiezione. Insomma, la messinscena masochista dà una soddisfazione squisitamente erotica perché è un atto di signoria, ma di tipo diverso da quella esaltata dall'esercizio del potere sugli altri e dalla padronanza su se stessi. Anche se, certo, questa altra soddisfazione richiede sia padronanza delle proprie fantasie che potere sui complici della messinscena. Ma allora, se il fine del masochista non è ottenere potere sull’altro e su se stesso, che cosa è egli mai? Quale esigenza l’artefatto masochista soddisfa?

Si prenda un altro rake's progress, quello del romanzo Histoire d'O[35], che celebra il masochismo della donna. Qui la bella O compie una diligente carriera di schiava, si lascia trattare come un semplice oggetto di piacere, fino al punto da farsi regalare dal fidanzato a un altro, che farà di lei quello che vorrà. Perché O si sottomette come una cagna, anzi peggio? Perché così ottiene un qualche potere, anche se spirituale, sull'amato? Niente affatto: si tratta solo di un’elevazione spirituale, la quale va aldilà del piacere sessuale in senso stretto. La losca ascesi di O consiste nella rinuncia a qualsiasi potere sull'amato; una rinuncia che comporta, al limite, il non dover più amare l'amato, che è poi il bordo più sublime  e l'aporia  del vero amore. "Sia fatta la tua volontà!", così dice il vero amante  anche se questa volontà dell’amato gli arreca dolore; ma, soprattutto, anche se questa volontà dell’amato richiede persino la cessazione del suo amore.

Jean Paulhan (a cui il libro era segretamente dedicato dall’autrice[36]), nella sua introduzione a Histoire d'O qualifica questo libretto da sex-shop un'imbarazzante e insolente "lettre d'amour". L'amore, se è vero  purificato da ogni narcisismo (cosa, ahimé, rara) , può dichiararsi solo come, al limite, rinuncia all’amore stesso. Quando appunto l’amato richiede come prezzo, come "prova", la cessazione di questo amore ("se mi ami davvero, cessa di amarmi!"). Rinunciare al potere sull'amato significa innanzitutto rinunciare al supremo potere di poter amare.

Questo smascheramento della "lettera d'amore" nel masochismo ci aiuta a dare la risposta alla nostra domanda su quale sia la soddisfazione in gioco in esso. E cioè, l'allegoria masochista dà la soddisfazione non di controllare e dominare, e nemmeno quella di cessare di controllare e dominare: dà la soddisfazione di significare questa cessazione. Perché questa cessazione è il marchio, l’aureola, del vero amore. Il masochismo è rappresentazione dell’amore, di una felicità che può essere qui vissuta solo come messinscena ossimorica: ogni cosiddetto perverso può solo sognare l'amore attraverso la cerimonia raccapricciante della rinuncia al proprio dominio sull’altro. "L'amore vero" è utopia e molla della perversione. In altre parole, l’atto perverso mette in scena l’impotenza del soggetto ad amare: esso, attraverso una retorica a rotta di collo, significa una potenza d’amore che al soggetto, del tutto assoggettato a Lust, manca.

          Ma che cosa significa questo per la teoria di Freud, e soprattutto per il principio che la regola, quello del desiderio-piacere?

 

  1. 9.    Eros ekstatico

 

Come è noto, in Aldilà.... Freud isola due princìpi opposti: pulsioni di morte (Thanatos) e pulsioni di vita (Eros). In definitiva, la vera originalità di questo saggio non consiste, contrariamente a quel che ripete la Vulgata, nell’introduzione della pulsione di morte: piuttosto è nell’introdurre la pulsione di vita. In effetti, la pulsione di morte (Todestrieb) è un nome diverso per indicare quel che era già presente nella teoria come il suo assioma: il Lustprinzip. Questo in effetti regola ogni pulsione come tensione che va azzerata o ridotta alla ”costanza”, ovvero a mantenere costante e minimo il livello di tensione psichica dell’organismo: insomma, il piacere tende allo zero – al Nirvana, come dice Freud - alla morte. Ciò che invece appare inedito, fino a questo saggio, è l’ipotesi di una pulsione - di vita -  il cui fine non è quello/a di annullarsi, bensì di creare nuove tensioni, nuovi scarti energetici, nuove differenze di potenziale, quindi nuovo dispiacere. Insomma, c’è nell’essere umano un’irriducibile tendenza a cercare guai… Scrive Freud:

 

”….Il processo vitale dell’individuo, per ragioni interne, tende ad abolire le tensioni chimiche, cioè tende alla morte, mentre l’unione con la sostanza vivente di un individuo diverso accresce le sue tensioni, introducendo per così dire nuove differenze vitali che dovranno essere livellate dalla morte.”[37]

 

Vita o Eros è quindi una pulsione centrifuga disposta a far pagare al soggetto il prezzo del dispiacere al fine di ”legarlo”, cioè di unirlo a oggetti (così li si chiama in psicoanalisi), cioè agli altri. Possiamo dire che grazie a Eros l’altro[38] non è più oggetto, nel senso di strumento della pulsione per soddisfarsi e quindi azzerarsi: l’altro a questo punto è una vera e propria causa teleologica – ovvero, causa finale - della pulsione stessa.

L’introduzione di Eros – come aldilà del Lustprinzip – risponde insomma all’esigenza di introdurre in generale ”un altro” che sia causa e meta della pulsione, ciò che la sferra e ciò a cui mira. Questo altro è innanzitutto un altro organismo con il quale il primo vuole congiungersi - istinto quasi politico di unire a partire da separati. Cogliamo qui una circolarità – fondamentale in tutta la teoria analitica – tra causa efficiente e causa finale, ambedue ”incarnate” nell’altro. Prima di Aldilà... sola vera meta della pulsione pareva essere il piacere e non l’altro – o tutt’al più erano mete gli atti che occorre compiere per ottenere piacere (succhiare, mordere, aggredire, evacuare, penetrare, sfregare – e anche guardare, parlare). In questo saggio si compie quindi un rivolgimento essenziale.

E’ Eros infatti a introdurre disturbi sulla via del piacere; ovvero, è Eros che ci sveglia dal letargo psichico della riduzione del disturbo e della strategia del piacere come minimo dispiacere, e ci butta nella mischia degli intrighi sociali e amorosi. L’altro, investito dalla vocazione ekstatica[39] di Vita (che porta ogni soggetto fuori di sé), è anche ciò che ad un tempo esalta e rinvia il piacere. Ma la spinta centrifuga di Eros si accompagna sempre alla tendenza centripeta di Thanatos: la nostra generosità vitale non è mai pura, è sempre inquinata dall’egoismo della morte.

La pulsione di morte è l’affrettarsi occultante della vita verso la sua verità, che è per Freud ad un tempo il fine e la fine della vita: la morte. Benché certo andiamo verso la morte, verità del vivente, grazie a Eros però non ci precipitiamo più verso di essa: perdiamo un po’ di tempo ad amare. Possiamo allora concepire la pulsione di morte come una fretta eccessiva verso la verità, senza passare attraverso il lungo zig-zag dell’amore per l’altro.

 

10.  Vittoria signorile

 

Allora l’amore, Eros, è molla e utopia anche della tragedia.

Possiamo vedere, per buona parte, la rappresentazione tragica nell'antica Grecia come un atto ritualizzato di rinuncia alla padronanza, di congedo dall'autarchia (autarkeia) il cui principio reggeva la sua esistenza. Il pubblico si commuoveva per la peripezia di Edipo  figlio dell'Evento, solutore di Enigmi, coronato di Potere, campione illustre della padronanza umana sulla vita  proprio perché essa ripeteva lo scacco più radicale e paradossale dell'umano potere. Edipo scopre la causa della peste diventando così ipso facto il pharmakos (capro espiatorio – letteralmente farmaco, ma anche veleno) della peste stessa; egli si scopre come l'artefice ingegnoso ma ignaro della propria rovina. Si credeva vincente, e invece il suo destino lo perdeva. La sua peripezia svela il paradosso del potere intellettuale e politico dell'uomo: al culmine dell'idillio con la propria azione e dominazione, l'uomo tragico riconosce la propria impotenza. Ma – come vedeva già Nietzsche – questo riconoscimento di impotenza messa in scena dalla tragedia è esso stesso manifestazione della volontà di potenza!

Mettendo in scena questo rovesciamento della potenza in impotenza, la tragedia antica faceva probabilmente da contrappunto a quel pericoloso esperimento storico che fu la democrazia: rappresentando lo scacco della potenza, la tragedia svolgeva la sua "lezione d'amore" rivolta al signore, che era il pubblico democraticamente sovrano degli uomini liberi di Atene. E per amore intendiamo qui l'auto-rinuncia signorile al dominio e alla padronanza: amore che la tragedia non scatena, ma disperatamente significa, attraverso l’ascesa e la caduta della pietà e del terrore. Molti – e lo stesso Freud - hanno insistito sul sacrificio come origine e significato della tragedia antica[40]: a teatro non si sacrifica più l’animale, ma l’eroe, divenuto capro espiatorio. Comunque, la tragedia antica rappresentava soprattutto il sacrificio immaginario di un ideale padronale, la rinuncia alla padronanza: il godimento tragico è il piacere per il proprio sacrificio come padrone.

 

Allora, ciò che la riflessione antica chiamò catarsi forse è l’effetto del mostrare la vanità di quel gioco conflittuale in cui, attraverso l’identificazione all’eroe, eravamo entrati. Identificandoci all’eroe, giochiamo con lui nella sua lotta – come ricordava Freud - contro la divinità o gli altri o la società o se stesso. Ma nella misura in cui abbiamo pietà e angoscia per lui, capiamo che si sta giocando un altro gioco in cui l’eroe è giocato. Eppure questo cambio di gioco in cui consiste l’agnizione catastrofica (il potente si rivela impotente, il felice lavora alla propria infelicità senza saperlo), la fine dell’accecamento, non porta a una nuova padronanza  politica, educativa o terapeutica  delle passioni dell’anima propria o degli altri, magari a livello più alto. Se così fosse, la tragedia sarebbe piaciuta anche a Platone, preoccupato di promuovere un predominio della ratio sulle illusorie apparenze sensibili e sulle passioni.

In effetti la conclusione tragica ci fa esclamare, come nell’Ecclesiaste: "Tutto è vanità!" Ciò ha fatto pensare a molti che il capovolgimento finale ci libererebbe dalle nostre illusioni: che la tragedia, come la filosofia, ci porterebbe fuori della caverna platonica, verso il reale e la luce. Ma non è così. In effetti, lo sguardo tragico ci fa percepire come illusoria l’azione umana, ma senza farci veramente intravedere un’azione che non sia illusoria. Per questa ragione i grandi riformatori e i rivoluzionari spesso diffidavano del tragico. La tragedia, per quanto sia inscindibile dalla polis, non è veramente un atto politico riformatore. Dopo la batosta tragica, pare che nulla possa essere più serio, tutto pare sprofondare in una sorta di mesta fatuità. Insomma, la tragedia pare vanificare i valori degli uomini, in particolare i valori di padronanza (in chiave freudiana, i valori dipendenti dal Principe del piacere). Abbiamo visto che il Principe o principio ci addestra a padroneggiare i dispiaceri proprio per sottometterci alla sua sovranità. Nella misura in cui ogni tragedia svalorizza i valori, ci ispira un sospetto di nichilismo.

Il tragico è "nichilismo incompiuto" – usando al negativo la terminologia di Nietzsche  in quanto esso ci converte o riconverte alla vanità dei valori (e soprattutto alla vanità del potere come valore). Ma allora, da che cosa è generato il piacere liberatorio di questa vanificazione?  In effetti, lo spettacolo ci rende spettatori di uno scacco della padronanza, ci illustra la rovina del signor governante in quanto questi vuol comandare. Assistendo allo spettacolo tragico, abbiamo l’illusione di una più profonda vittoria, che chiameremo allora, questa volta sì, signorile. Una vittoria sull’asservimento alla volontà di padronanza da cui dipende l’eroe, il principe, al quale noi spettatori ci siamo identificati. Comprendiamo così che lo scacco della padronanza rappresentato sulla scena significa la rinuncia a questa padronanza, a quel voler comandare al quale in qualche modo obbedivamo. Una rinuncia che, con poca spesa, ci glorifica.

 

11.  Signoria e signorilità

 

"Sulla scena, gli attori imitano gli eroi perché, nei tempi antichi, solo gli eroi erano anche capi e regnanti; il popolo era l'umanità volgare, quella che compone il coro", scrive Aristotele[41]. Non avrebbe potuto essere più chiaro: la tragedia non rappresentava i governanti perché intendeva in realtà rappresentare gli eroi leggendari, ma rappresentava gli eroi di un tempo perché si interessava ai governanti dell’oggi. Questa passione per i reggitori  per chi ha kratos, potere  sarà caratteristica anche del tragico moderno[42]. La tragedia spinge a identificarci con chi ha potere. E secondo Aristotele chi ha potere politico è migliore di "noi", uomini comuni (filosofi compresi?).  Scrive Aristotele[43]:

 

"Ora, siccome oggetto dell'imitazione poetica sono individui che agiscono e questi debbono necessariamente essere uomini elevati o di bassa indole (toutous è spoudaìous è faùlous) [...], i poeti imiteranno o persone migliori di noi, o peggiori, o eguali a noi… [...] Questa stessa differenza separa la tragedia dalla commedia, perché questa vuole imitare uomini peggiori di noi, quella uomini migliori."

 

Quindi, gli eroi tragici  i governanti  sono comunque migliori, nel senso di più spoudaìous (più seri, più nobili) di noi cittadini o sudditi. Al contrario, la commedia rappresenterà di solito contadini, borghesi, arricchiti, servi - gente che occupa un livello basso nel prestigio sociale. Ma questi “noi”, gli spettatori, chi sono oggi?

          Oggi lo spettatore è il pubblico borghese  vero consumatore finale di spettacoli tragici – ovvero il citoyen che ha preso il potere con le Rivoluzioni del tardo Settecento. Ora il borghese non è il governante, il grande eroe: sia secondo Hegel che secondo Nietzsche, il borghese – l’uomo moderno - era in qualche modo il servo[44]. Questi, agitato dal nietzscheano voler comandare, è diventato la signora o il signore che ormai tutti noi siamo. Nella nostra società il popolo è sovrano, ovvero, sono sovrani gli insiemi delle signore e signori. E in che cosa consiste allora questa vittoria signorile, questa diversa vanità, di cui godono tragicamente questa serva e questo servo che sono diventati la signora e il signore?

Il borghese, come servo che oggi comanda, sotto sotto pensa che sia da veri signori il doversi battere non solo per i deboli, ma soprattutto per le cause perse. Non a caso oggi al termine signorilità diamo un significato inverso a quello della signoria: si dice appunto di qualcuno che non è certo "signore della stampa", né "signore della guerra", né "signore del petrolio", ecc., ma che è semplicemente un signore. "Un vero signore" quasi non può essere un padrone. Ma allora, chi è un “vero signore”, quello capace di trarre godimento dal tragico? E’ qualcuno che si appassiona alle cause perse. Ovvero, molto semplicemente, è colui o colei che, rinunciando alla signoria sull’altro, è capace finalmente di amarlo. Il “vero signore” è chi, sottraendosi al comando del Principe del Piacere, non rinuncia mai veramente a Eros, a costo della vita. Il signore è quel che, con i suoi giochi, Sacher Masoch non riusciva mai a essere: un uomo capace di amare veramente la sua donna.

Così il tragico allude alla conversione della volontà di signoria (Macht) come padronanza alla semplicità dell’essere signori (Herrschaft): ci fa sentire un gentleman o una gentlewoman  in qualche modo, come certi ministri, senza portafoglio.

 

Così cogliamo un'ultima analogia tra il piacere tragico  che completa con un ordine di sogno il disordine rappresentato  e il masochismo. In quest'ultimo si rivela la scissione catastrofica tra sensualità e amore, tra l’egoismo "naturale" della sessualità e l’altruità "nomica"  l’eteronomia  della tenerezza. In effetti: se desidero andare a letto con una donna non implica che la ami, né che mi importi darle piacere. Attraverso l’atto masochistico, allora, il soggetto simula i segni di una rinuncia alla padronanza che vale come prova ed evidenza dell’amore per l’altro. Il masochista, giocando a farsi punire dalla donna che egli desidera, mette in scena quell’eteronomia amorosa nei confronti della donna senza la quale egli, comunque, non potrebbe godere sessualmente, pur in modo egoistico e solitario.

Il masochismo è l’uso sfacciato che il piacere erotico fa della moralità punitiva al fine di assicurarsi. Il masochista mette in scena in modo iperbolico, ironico quella sottomissione all’altro che caratterizza l’amore. Analogamente lo spettatore tragico rappresenta iperbolicamente quella rinuncia al Potere e alla Giustizia che, ai suoi occhi, lo fanno accedere alla signorilità.

 

12. Lo scarafaggio nobile

 

          La qualità tragica de La metamorfosi di Kafka[45] rasenta, francamente, il limite del sopportabile. Il commesso viaggiatore Gregorio Samsa all’improvviso si trova trasformato in uno scarafaggio; e in questa qualità egli è costretto a vivere in casa con i genitori e la sorella. Questi hanno disgusto di lui e se ne vergognano, finché il padre non lo colpisce a morte. Scomparso Gregorio, la famiglia è risollevata e felice.

Indubbiamente si tratta di una storia sublimis nel senso latino del termine: come ciò che è più in basso oppure più in alto, come ciò che è più lontano dal piano normale, medio, in cui sta l’Ego. Gregorio sprofonda ai livelli più bassi della dignità biologica e sociale – diventa uno scarafaggio –, eppure questo racconto ci rende più leggeri, ci solleva molto in alto, insomma ci fa sentire più signori. Perché? Perché al contrario della famiglia di Gregorio – che ingiustamente lo rigetta – noi adottiamo il suo punto di vista, ci identifichiamo in lui (uno scarafaggio!), insomma, riusciamo ad amarlo e ad amarci anche così. Sentendo come ingiusta la sorte di Gregorio, ci manteniamo pateticamente fedeli alla giustizia. Attraverso questo personaggio, viviamo il culmine dell’impotenza: ma questo identificarci all’impotente Gregorio senza esserlo ci arricchisce di quest’altra possibilità. Come Orfeo, Ulisse, Enea, Dante e Rimbaud, abbiamo avuto il privilegio di scendere nell’inferno (nel caso specifico, di Gregorio) senza esserci rimasti. Il signore hegeliano è tale proprio perché affronta la morte o l’inferno, considera entrambi una possibilità sempre attuale. Analogamente, il signore tragico deve sempre considerare la possibilità di essere scarafaggio.

La storia di Gregorio Samsa può essere letta anche come una lettera d’amore “masochista” nei confronti dei familiari che lo respingono, e in particolare nei confronti dell’ammirata e sospirata sorella, che lo seduce con la sua musica. In Gregorio, viviamo il massimo dell’impotenza – cosa c’è di più impotente di un insetto? -, ma grazie a questo vivere pietosamente e angosciosamente lo scacco radicale della padronanza, qualcosa ci commuove, ci fa godere: assaporiamo la paradossale vittoria della nostra signorilità. Ci apriamo ad Eros, alla vita nel senso di Freud.

          La purgazione della famiglia di Gregorio – che finalmente si libera del proprio schifo – è quindi del tutto diversa dalla nostra catarsi di lettori. Gregorio è stato sacrificato – come ogni eroe tragico lo è – ma noi abbiamo sacrificato qualche altra cosa: la nostra Bemächtigung, la nostra padronanza. Questo sacrificio ci alleggerisce. Non sacrifichiamo però la nostra reale padronanza come persone, ma quella nostra come lettori: non saremo per questo necessariamente più buoni – un malvagio può gustare il tragico? – ma certo più nobili. E questa rinuncia al potere – questa esperienza di signorilità – ci dà un brivido struggente di godimento.

 

 



[1] “No, non la felicità! Certo non la felicità, ma il piacere. Bisogna sempre spingere il proprio cuore verso il più tragico.”

 

[2] “Noi” siamo i cittadini occidentali dell’oggi, ma anche i cittadini liberi della Grecia antica, o i sudditi delle monarchie d’un tempo.

 

[3] Nella realtà invece le tragedie ateniesi erano spettacoli popolari, che piacevano soprattutto ai giovani, alle donne e alla maggioranza della popolazione. Cantate e danzate, erano simili ai nostri musical. Non a caso l’aristocratico Platone rigetta lo spettacolo tragico come volgare ed esalta al suo posto la poesia epica perché “è preferita dagli anziani” (Leggi, 2.658). La tragedia greca era l’Hollywood dell’epoca  - forme malviste quindi, ieri e oggi, dai filosofi austeri.

 

[4] Emmanuel Kant, Kritik der Urtheilskraft, 1790, parte I, sez. 1, libri primo e secondo. 

 

[5] Poetica, XXIV, 49b.

 

[6] Summa Theologica, Prima Secundae Partis.

 

[7]Poetica, XIII, 2, 518.

 

[8] Gli eroi tragici "stanno nel mezzo, e cioè non hanno qualità eccezionali di virtù e di giustizia, e piombano sì nell'infelicità, ma... non per viltà o per malvagità" (Poet., XIII, 3, 1924).

[9] Poetica, IV, 5.

 

[10] Poetica, XIV, 2, 1014.

 

[11] Sulla catarsi aristotelica, vedi J. Lear, “Katharsis” in A. Oksenberg Rorty, ed., Aristotle’s Poetics, Princeton University Press, Princeton, 1992, pp. 315-340; e R. Janko, “From Catharsis to the Aristotelian Mean”, in Rorty, ed., Aristotle’s Poetics, cit., pp. 341-358.

 

[12] La relazione tra tragico e noia fu già messa in evidenza dall’abate Dubos e da D. Hume (“Of Tragedy”, Essays, 1742; tr.it. Opere, Laterza, Roma-Bari 1987): è più piacevole essere addolorati che annoiati. Secondo Hume, nell’attività dell’immaginazione, in quanto rispecchia la vita, traiamo piacere; e tanto più quanto più l’immaginazione rispecchia uno dei lati più intensi della vita, ad esempio le catastrofi. La bellezza immaginativa del dramma ci commuove proprio nella misura in cui il soggetto è orribile. 

 

[13] Martin Heidegger, Nietzsche, a cura di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 1994, pp. 394-395: “Diamo il nome di "pensatori" a quegli eletti tra gli uomini che sono destinati a pensare un unico pensiero -  e questo sempre "sull´" ente nel suo insieme. Ogni pensatore pensa soltanto un unico pensiero.”

 

[14] Aristotele nella Fisica aveva distinto quattro cause: efficiente (ciò da cui), finale (verso cui), materiale (di che cosa) e formale (come).

 

[15] O piuttosto è desiderio di essere felici? La felicità si risolve in una forma di piacere più completa, più mentale, più duratura? Da millenni i filosofi ne discutono.

 

[16] Jeremy Bentham, An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, edited by J.H. Burns and H.L.A. Hart (London: 1970), p. 1.

[17] “Personaggi psicopatici sulla scena” in S. Freud, Opere, 5, Bollati Boringhieri, Torino 1972, pp. 231-6.

 

[18] Ibidem, p. 231.

 

 

[19] Ibidem, p. 232.

 

[20] Ibid.

 

[21] Ibidem, p. 235.

 

[22] Ibid.

 

[23] J. Lacan, Ecrits, Seuil, Paris 1966. Sulla trascrizione della teoria di Freud in termini di riconoscimento da parte di Lacan, cfr. M. Borch-Jakobsen, Lacan, il maestro assoluto, Einaudi, Torino 1999.

[24] Correggo qui il titolo italiano del saggio “Aldilà del principio di piacere” (1920) (Opere, 9, pp.193-253; GW, 13, pp. 3-70) per le ragioni che ho esplicitato prima.

[25] “Aldilà del principio di piacere”, Opere, p. 200-203; GW, cit., p. 11-15.

 

[26] Ovviamente nella vita il finale, lieto o triste, è sempre relativo: dipende da dove decidiamo di mettere il punto finale. In un certo senso, ogni vita è una storia sempre tragica, dato che finisce con la morte del protagonista…. Ma è anche un’eterna Commedia, dato che…. la vita del genere umano comunque continua.

 

[27] E’ quando un’analisi, benché condotta correttamente, non dà risultati terapeutici significativi: il soggetto “preferisce” la nevrosi.

 

[28] Da notare che Freud modifica la sua teoria dell’angoscia nel 1925 (“Inibizione, sintomo e angoscia”, Opere, vol. 10, pp. 237-315; GW, 14, pp. 113-203), nel senso che essa appare un segnale che avverte l’Io per un pericolo esterno o interno al soggetto stesso. L’angoscia quindi è uno strumento che serve all’Io per evitare i traumi, svolge insomma una funzione positiva per l’organismo e la psiche.

 

[29] Del resto, i miti di solito sono seriali, si prolungano in varianti senza fine. Cfr. C. Lévi-Strauss, “La struttura dei miti”, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966, cap. XI. Un corrispettivo moderno dei miti antichi sono i serials, le soap operas e le telenovele che non hanno mai una fine determinata. Il mito, come il gioco, è illimitato, cronico.

[30] S. Freud (1924) “Il problema economico del masochismo”, Opere, 10, pp. 5-16. GW, 13, pp. 371-383. Cfr. S. Benvenuto, “Freud and Masochism”, Journal of European Psychoanalysis, 16, Winter-Spring 2003, pp. 57-80; Perversioni. Sessualità etica psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2005.

 

[31] E’ questa la riposta rassicurante data ad esempio da T. Reik, Il masochismo nell’uomo moderno, Sugar, Milano 1963.

[32] Spesso i masochisti godono nel redigere contratti con la loro tormentatrice, nei quali stabiliscono limiti e modi della loro sottomissione a lei. Un contratto in cui un soggetto liberamente si impegna alla schiavitù! un double bind, un’ironica provocazione ad ogni logica giuridica.

 

[33] Vedi in particolare Gilles Deleuze, Presentazione di Sacher Masoch, Bompiani, Milano 1978.

 

[34] Reik, op.cit., p.213.

 

[35] Pauline Réage, Histoire d’O, Suivi de Retour à Roissy, Livre de Poche, Paris 1999.

 

[36] Dal 1994 sappiamo che la vera autrice era Dominique Aury, la segretaria di Paulhan.

 

[37] S. Freud, Aldilà del pirncipio di piacere, Opere, 9, p. 241 [nostra traduzione]; GW, 13, p. 59-60.

 

[38] Per Freud l’altro è già una cellula per un’altra cellula, un organismo per un altro organismo; salendo su su nei livelli di complessità, l’altro è ”il prossimo tuo”. L’altro per lui non è solo un ente dotato di psiche: è tutto ciò con cui uno può unirsi.

 

[39] Ekstasis: essere fuori di sé.

 

[40] Questa interpretazione si è consolidata col lavoro di W. Burkert, "Greek Tragedy and Sacrifical Ritual", Greek, Roman and Byzantinian Studies, 1966, pp. 87-121; Homo necans. Antropologia dei sacrifici cruentï nella Grecia antica, Boringhieri, Torino 1981; Mito e rituale in Grecia, Laterza, Bari-Roma 1987.  Secondo questa ricostruzione, la tragedia attica sarebbe una "commedia dell’innocenza”: la comunità che originariamente sacrificava un "capro espiatorio”, nella forma dello spettacolo tragico maschera l’omicidio sacrificale. Cfr. i lavori ormai classici di R. Girard: La violence et le sacré‚ Grasset, Paris 1972; Des choses cachées depuis la fondation du monde, Grasset, Paris 1978. G. Carchia, Orfismo e tragedia. Il mito trasfigurato, Celuc, Milano 1979.

 

[41] Problemata, XIX, 48.

 

[42] Finché non diventeranno eroi tragici anche dei borghesi, e poi finalmente gente del popolo, proletari. Ma questo accade perché il kratos nel mondo moderno appartiene sempre più a questi ultimi: i potenti si diranno servitori dei loro concittadini, i veri signori. I principi di oggi si vantano sempre, soprattutto, di “servire il popolo”.

 

[43] Poet., II, 1448a.

 

[44] Mi riferisco qui alla celebre dialettica del padrone e del servo descritta da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito (1830; §§ 433-5). Il padrone è chi, rischiando la vita, accetta la lotta di puro prestigio per il riconoscimento da parte dell’altro; il servo è chi non rischia la vita e si sottomette al padrone. Ma col tempo, attraverso il lavoro e la scienza, è il servo a diventare padrone.

 

[45] Kafka, Die Verwandlung, 1935; tr.it. Metamorfosi, BUR, Milano 1975.

 



[i] Poet. XIII, 2, 12 (Bekker 1452b, 40); XIII, 2, 14 (Bekker 1453a 3); XVIII, 5, 36 (Bekker 1456a 23)

 

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