Flussi di Sergio Benvenuto

Introduzione al libro di Slavoj Zizek e Glyn Daly, "Psicoanalisi e mondo contemporaneo", Dedalo, 200630/giu/2016


 

  1. 1.     Un pop “sublime”

 

 

          Pubblicando questo volume, vogliamo contribuire, tra l’altro, a far conoscere un autore, Slavoj Zizek, la cui crescente popolarità in Italia è ancora inferiore a quella di cui egli gode in altri paesi, anglofoni in particolare. Del resto in Italia, più in generale, tutto il filone di pensiero nel quale il lavoro di iek viene di solito (abusivamente) incasellato - “postmoderno”, “poststrutturalista”, “French thought”, ecc. - non gode del seguito che ha nel mondo anglo-americano. E perché questa minor fortuna (finora) da noi di iek?

          E’ lo stesso Zizek a suggerirci la risposta in queste conversazioni quando sottolinea quanto il successo dei suoi libri nel mondo anglofono sia venuto “dal basso”: i neo-laureati e i giovani a inizio carriera lo hanno “imposto” ai professori con tenure (ordinari). La sua filosofia è stata accolta come giovanile. Ora, è molto più difficile che qualcosa di simile accada in Italia: qui è arduo per un giovane a inizio di carriera accademica proporre un autore che non sia benedetto dal suo “barone”. In America il potere del Professore è limitato: il giovane finisce in università spesso molto lontane da quella originaria e non dipende più granché dalla potenza e dal beneplacito del suo professor. Invece nel sistema universitario italiano – sostanzialmente feudale – la carriera del giovane rischia di coincidere ampiamente con quella del portaborse. Allora il suo atteggiamento nei confronti dei “potenti vecchi” tenderà a essere reverenziale, timido, conformista (ci sono per fortuna anche eccezioni). Da qui l’accumularsi di molta polvere nelle facoltà umanistiche italiane, e la difficoltà di penetrazione del nuovo.

          E in effetti lo stile – ancor prima che il contenuto – degli scritti di iek pare fatto apposta per indignare l’accademico italiano, spesso tuttora ligio alla Scuola di Francoforte o lukacsiano. Ad esempio, il suo prendere sul serio la cultura popolare dell’oggi – il cinema hollywoodiano, la pubblicità e i romanzi bestseller, le mode fatue – insomma tutto ciò che “l’intellettuale” relega con disprezzo nel Kitsch. Bisognerebbe svolgere una ricerca che censisca le citazioni estetiche da parte dei filosofi del Novecento. E’ per loro bon ton evocare le tragedie greche e i grandi poeti romantici, Shakespeare e la pittura rinascimentale, qualcuno si spinge ad evocare Proust, Rilke, Musil, Thomas Mann o Picasso, insomma il modernismo ormai consacrato; ma raramente evocano autori, cineasti o musicisti che nutrono la vita dei loro figli e figlie. Il cinema, poi, non viene mai evocato dal filosofo (a parte Deleuze, Nancy e qualche altro), come se si trattasse ancora di diporto dopolavorista. Invece iek – che si descrive come un cineasta mancato – sciorina continuamente riferimenti al cinema, anche a quello più commerciale e pop. Insomma, lo stile di iek è sublimis nel senso originario del termine: oscilla continuamente tra livelli altissimi e bassissimi - ricorda in questo la musica di Mahler. Passa con nonchalance da Schelling a Spielberg, dalla Vienna di Wittgenstein agli ovetti Kinder, dalla dialettica hegeliana a evocazioni sessuali che ricordano filmini porno. Ma questa scandalosa disinvoltura dei suoi esempi esprime a sua volta un certo ritmo del pensiero che gli è peculiare, e che è tra i motivi del favore incontrato dai suoi libri. Dico subito che non appartengo a nessuna delle tribù intellettuali in cui iek si inscrive con forza – l’idealismo tedesco dell’Ottocento, la psicoanalisi lacaniana, il neo-marxismo - eppure di solito mi diverto a leggerlo. Perché? Per la musica del suo pensiero. Il suo, a differenza di altri filosofi classici, non evoca la sinfonia romantica o il madrigale rinascimentale, la combinatoria brandeburghese o l’austerità dodecafonica, ma piuttosto il rock, il funk e il rap.

          Sempre ci si è fatto credere che quel che determina la fortuna di un testo filosofico è il suo contenuto. Ma mi chiedo invece se in ultima istanza non operi piuttosto la musica delle idee. Certo alcuni pensatori romantici cari a iek si dettero da fare per mostrare quanto la musica sia filosofica – ma sarebbe ora di mostrare come la filosofia sia essa stessa, anche se in modo non acustico, musicale. Ci si chiede se in fondo, nella filosofia, non conti tanto il significato di quel che si dice, quanto il modo di dirlo, la strategia argomentativa (che Platone chiamava dialettica). Continuiamo a leggere Platone, Agostino, Cartesio, Kant o Nietzsche non perché siamo ancora platonici, agostiniani, cartesiani, ecc., ma perché la scrittura di questi pensatori continua a sedurci. E che cosa ci seduce, malgrado la nostra convinzione di vedere i limiti dei loro contenuti concettuali? Direi un ritmo o anche una curvatura del pensiero che ci è difficile pensare, una qualità che non rientra nelle distinzioni canoniche (etica, estetica, sapere, saper fare), una sorta di leggerezza… ovvero la sensazione, dataci dai grandi maestri, che osano pensare qualcosa di impensato, di fresco, che li rende così diversi dai loro seguaci, epigoni, divulgatori.

          Ecco, non credo che tutti quelli che leggano iek condividano tutto il suo pensiero – leggendolo, ci si irrita spesso e volentieri. Ma non ci si annoia, perché si è sedotti da una certa sua grazia. Con iek, insomma, vale la pena dissentire e magari polemizzare. Io stesso, qui, proprio per introdurlo come merita non perderò l’occasione di contestarlo. E se fosse proprio questo l’elogio ultimativo che si possa fare a un pensatore, dirgli “non condivido granché quello che dici; eppure mi interessa argomentare contro quello che dici”?

 

2. Gli alberi e la foresta

 

          Alcuni trovano troppo inflessibile il suo riferimento continuo alla psicoanalisi, nella sua versione lacaniana. Ora, benché iek sia stato un dissidente nella Slovenia ancora iugoslava-comunista, egli stesso – come ammette in queste conversazioni – resta intriso di mentalità stalinista. Non è retaggio stalinista il suo bisogno di assolutamente schierarsi? Non è stalinista anche il suo modo di leggere Freud e Lacan? E del resto, il suo iniziatore al pensiero lacaniano – Jacques-Alain Miller – non veniva egli stesso dal leninismo maoista che dominava negli anni 60 l’élite dell’Ecole Normale Supérieure a Parigi? Indubbiamente, per un anti-leninista e anti-stalinista come me, le prese di posizione di iek talvolta spandono l’odore del manicheismo bolscevico. Insomma, non abito questo tipo di teologia politico-filosofica. Eppure le pagine che iek ha dedicato al funzionamento politico-mentale del socialismo reale – che ha ben conosciuto sulla sua pelle – e all’improvviso spappolarsi di questo sistema sono tra i contributi più vivi e lucidi che siano stati scritti nella letteratura del Tramonto Comunista. iek: “stalinista” si, ma con grazia.

          iek, a differenza di molti altri lacaniani “di scuola”, non è noioso perché si ricorda sempre come i concetti di Lacan - e in genere psicoanalitici - sono stati costruiti: non ci ammannisce la minestra riscaldata di una teoria data per scontata, ma tiene conto dei costi di costruzione della teoria (per costi intendo non la fatica mentale, ma le cecità e gli scotomi che ogni costruzione teorica – anche la migliore - implica, inevitabilmente). Quel che isola tanti lacaniani dal contesto intellettuale più vasto, è che essi sanno spesso saltare bene da un albero all’altro, come Tarzan, nell’intricata foresta freudo-lacaniana, ma non sanno vedere la foresta. Ora, a chi è fuori si deve prima di tutto far vedere la foresta! Da filosofo, iek vede anche la foresta.

Egli ha capito una cosa fondamentale di Lacan: che si è trattato dell’unico tentativo non ingenuo, serio, di riarticolare l’intera teoria psicoanalitica in termini hegeliani. Per essere più precisi: Lacan ha riletto Freud applicandogli il filtro che Alexandre Kojève gli aveva fornito attraverso i suoi famosi seminari su Hegel[2], lettura che doveva molto al primo Heidegger. Andrei oltre: in fondo quasi tutta la grande cultura francese dagli anni ‘30 fino a oggi è stata plasmata da Hegel e Kojève – è tutta hegejeviana direi. Da Kojève furono influenzati Sartre, Bataille, Lévi-Strauss, Merleau-Ponty, Klossovski, Breton, Aron, ecc. – e quelli venuti dopo sono spesso hegejeviani senza saperlo. Tutto il pensiero di Lacan fino agli anni ‘60 sviluppa temi e nozioni che si trovano tal quali nei seminari di Kojève: come il desiderio di riconoscimento, il desiderio dell’Altro, la dialettica del soggetto e la sua alienazione costitutiva, ecc. Insomma, per capire a fondo Lacan occorre aver capito Hegel e Heidegger, un po’ come Kojève li ha capiti: se non li si è capiti, asserti e grafi lacaniani resteranno solo formule catechistiche per discepoli salmodianti. La teoria lacaniana è una psicoanalisi hegeliana e fenomenologica: questa è la sua forza, e anche – ai miei occhi – il suo limite.

          Ma, dirà il lettore che la sa lunga, come costruire oggi un discorso filosofico su una disciplina oggi in crisi come la psicoanalisi? Non potrebbe essere l’esuberanza di iek una specie di Indian Summer, un’estate di S. Martino, della dottrina di Freud? E probabilmente è la crescente diffidenza di molti intellettuali italiani nei confronti della psicoanalisi, sia come terapia che come visione dell’uomo, ad aver fatto relegare iek in spazi fringe da noi. Negli ultimi 25-30 anni è avvenuta una mutazione dello status della psicoanalisi (più negli Stati Uniti che in Europa) di cui proprio la fortuna di iek è un sintomo eloquente. E cioè, la psicoanalisi è stata in larga parte abbandonata dai medici psichiatri e in generale dalle “scienze” (in psichiatria dominano l’organicismo biologico o le scienze cognitive), ha perso insomma gran parte della sua rispettabilità accademico-scientifica. Ma non è scomparsa per questo. E’ divenuta invece pensiero di riferimento nelle facoltà che gli americani chiamano Humanities, incluse le nuove discipline alla moda: storia dell’arte e del cinema, letterature comparate, Cultural Studies, Gender Studies, Queer Studies, discipline della comunicazione, ecc. Studenti e professori dei campus e i cosiddetti “public intellectuals” che portano avanti questo tipo di koiné sono spesso fans di iek – insomma, la psicoanalisi è sempre meno cosa di psichiatri e psicoterapisti e sempre più cosa di femministe, critici letterari, filosofi “continentali”, storici del cinema e del costume, antropologi ermeneutici, ecc.

A questo si accompagna una mutazione della funzione etico-esistenziale della cura analitica. Si va dallo psichiatra o dallo psicoterapeuta cognitivo per guarire in fretta del sintomo insopportabile, e ci si imbarca in una lunga analisi in un percorso di metanoia - come diceva S. Paolo - cioè di conversione o riconversione spirituale del proprio essere-nel-mondo. I giornalisti scrivono spesso che ormai la cura psicoanalitica è stata soppiantata dagli psicofarmaci, ma non è vero: molto spesso chi è in analisi prende anche psicofarmaci (psicofarmacologia e psicoanalisi si sostengono segretamente a vicenda). La psicoanalisi in Occidente tende a trasformarsi da terapia specialistica, quale si voleva un tempo, in strumento, ritmo e supporto di un lifestyle.

 

  1. 3.    Lo spettro di Hegel

 

In questo contesto, come leggere allora la ripresa dell’hegelismo da parte di iek? A tanti intellettuali italiani – convertitisi negli ultimi decenni al razionalismo e liberalismo positivisti – l’idea che si possa oggi ancora utilizzare Hegel fa semplicemente ridere. Eppure negli ultimi decenni abbiamo assistito a una nuova vitalità dell’hegelismo in campi lontani dalla filosofia. Non mi riferisco quindi solo al conclamato Ritorno a Hegel di neo-pragmatisti americani come Richard Rorty, i quali ci hanno ricordato le matrici hegeliane del pensiero pragmatista americano, da Royce a Dewey. L’epistemologo e storico delle scienze oggi più citato, T.S. Kuhn, ha proposto una teoria hegelianeggiante del progresso della scienza che ha impressionato la nostra epoca[3]. Esplicitamente hegeliane sono la ricostruzione dello sviluppo della matematica e della conoscenza scientifica da parte di I. Lakatos, così come l’anti-epistemologia anarchica di P. Feyerabend. Ma non è difficile veder profilarsi l’ombra di Hegel dietro sviluppi molto interessanti delle scienze dell’evoluzione e della biologia (S. Gould, N. Eldredge. S. Oyama, e soprattutto R. Lewontin). Più di Marx, Hegel mi pare essere lo spettro che si aggira per l’Occidente[4]. Quindi l’opera di Lacan si inserisce in un movimento più vasto di sfida hegeliana. E coloro che rigettano Lacan con disprezzo perché lo trovano fumoso, oscuro, mistico – insomma, un ciarlatano[5] – in realtà sono respinti, anche se non lo sanno, dalla temperie hegeliana, o meglio hegejeviana, del suo pensare.

          Lacan ha ritrascritto la psicoanalisi nell’ottica della filosofia trascendentale, ovvero secondo la linea che da Kant va a Hegel, Husserl e Heidegger. Questa trascrizione inevitabilmente mette il lacanismo in tensione con gran parte dell’establishment psicoanalitico, tuttora dominato dal pensiero anglosassone che è, per tradizione, piuttosto un pensiero empirista-positivista - la linea Locke-Hume-Benthan-Mill fino alla recente philosophy of mind.

 

Si pensa che il nocciolo della teoria di Lacan sia “l’inconscio strutturato come un linguaggio”. Un apoftegma dal tenore squisitamente hegeliano. Lacan in sostanza dice: se la psicoanalisi opera di fatto essenzialmente attraverso il linguaggio (ogni psicoterapia, del resto, è per definizione logoterapia), e se questo processo linguistico è in grado di ottenere effetti anche vistosi sulla vita di un analizzante[6], perché pensare che il linguaggio sia solo uno strumento per operare sull’inconscio? L’inconscio, piuttosto, è della stessa sostanza di quella cosa con cui operiamo su di esso, il linguaggio.

Un’argomentazione simile era stata portata avanti dal vescovo Berkeley[7], considerato capostipite dell’idealismo: perché pensare che le percezioni siano un modo per entrare in contatto con la realtà (la materia), e non pensare invece che quella che chiamiamo realtà non sia altro, in fin dei conti, che nostre percezioni? Ma Hegel è andato oltre: il nostro approccio con la realtà percettiva avviene sempre attraverso concetti – possiamo parlare di questo tavolo perché abbiamo elaborato il concetto di tavolo. Quindi, conclude Hegel, noi filosofi possiamo accontentarci del concetto di tavolo, non abbiamo bisogno di considerare il tavolo concreto, contingente. Lacan ha compiuto un'operazione analoga in campo psicoanalitico: siccome l'analista opera attraverso il linguaggio, se ne conclude che l'inconscio è cosa fondamentalmente di linguaggio. L’inconscio è ça parle [questo parla], che è un modo di dire ça pense [questo pensa] – insomma, l’inconscio è pensiero. Non è qualcosa a cui si pensa, è ciò che pensa. Esso è Pensiero Oggettivo, Objektive Geist nel senso hegeliano (un pensiero senza soggetto specifico, “pensiero senza pensatore” direbbe W.R. Bion).

          Notiamo che l’idealismo, da Hegel a Lacan, è inconfutabile: è indubbio che qualsiasi cosa potremo dire attorno alla realtà anche più unica, contingente o a noi estranea, la diremo sempre grazie a concetti e quindi attraverso il linguaggio. Anche se sosterremo che il linguaggio non è importante, che siamo animali, ecc. potremo dirlo solo linguisticamente. Su questa base, nella seconda metà del Novecento il tema del linguaggio ha polarizzato il pensiero occidentale - linguistic turn lo si è chiamato; in effetti, il linguaggio ha una connotazione meno “spiritualista” dello Spirito hegeliano. Questo logocentrismo della seconda metà del XX° secolo implica una decisione fondamentale: quella di escludere le cose contingenti dalla considerazione teorica. Il contingente, “l’osso” come dice iek, non conta.

Krug, un filosofo contemporaneo di Hegel, lanciò a Hegel la sfida di dedurre dal movimento logico dell’Assoluto la penna con cui stava scrivendo in quel preciso istante. Hegel rispose che la sua filosofia speculativa ammetteva la nozione di “caso assoluto”, includendo già nella concezione dell’essenza la contingenza. “La contingenza, non il contingente, è necessaria. Per tale ragione il determinato contingente non è oggetto di sostanziale interesse”[8], e quindi non ci interessa nemmeno la penna di Krug. Questa indifferenza al contingente, risucchiato nel concetto che ne determina la possibilità, è spesso ribadita da Hegel[9]. Vedremo poi come questa indifferenza idealista nei confronti del contingente ponga problemi cruciali quando iek concettualizza la nozione di Reale. Chi non è hegeliano, infatti, pensa che alla fin fine sia il contingente – proprio perché “lasciato libero dall’idea” - a fare la differenza, insomma, a fare Storia.

 

4. Una denuncia romantica

 

Comunque, questo neo-idealismo psicoanalitico a un certo punto si torce e si contorce. Se da una parte per Lacan l’inconscio è strutturato come un linguaggio – insomma la realtà umana è strutturata a priori, prima ancora che gli esseri umani contingenti e stupidi diano carne a questa struttura –, d’altra parte quel che conta per Lacan è la perdita che l’irruzione e il primato del linguaggio producono. Proprio perché l’essere umano è una creatura del linguaggio è una creatura alienata. Nostra madre (l’Altro) ci insegna a parlare; ovvero, se da lattanti strilliamo disperati, la mamma ci dice ad esempio “vuoi il ciucciotto!”; dà al desiderio che ci fa urlare un significante, il ciucciotto. Da allora, sapremo che ciò che desideravamo era questo significante: un sapere che ci proviene dall’Altro. Ma che cosa veramente desideravamo prima che ci venisse detto che cosa desideravamo? Quale oggetto primordiale, oscuro, ci agitava? Non lo sapremo mai. Il linguaggio ci umanizza, ma a prezzo di una distorsione fondamentale che polarizzerà la nostra esistenza. Perché la vera cosa a cui miravamo sarà sempre al di qua e al di là del linguaggio che ci umanizza. Come si vede, questa psicoanalisi hegeliana di fatto poggia su una sorta di denuncia romantica.   

          La qualifica di romantica data a questa psicoanalisi farà storcere il naso a molti suoi esponenti. Ma chiamo romantici alcuni filoni fondamentali della cultura occidentale, lacanismo incluso, non per dileggiarli. Anch’io sono (in parte) incorreggibilmente romantico - altrimenti perché leggerei iek? Del resto tutti siamo, almeno in parte, romantici[10]. Magari non in filosofia, ma nei nostri gusti estetici, nei rapporti amorosi, con i figli, in politica, ecc. Non si vive solo di pane e Ragione. Del resto, non è romantico il messaggio fondamentale di Freud “le cul a ses raisons que la Raison ne connaît pas[11]? Le ragioni della libido non sono in fondo romantiche? Il romanticismo d’oggi è l’idea dell’essere umano come di un ente che manca fondamentalmente di un qualcosa che non potrà mai avere, che vive la propria umanità come malattia inguaribile, esaltante.

Il romanticismo lacaniano è diverso dall’approccio ermeneutico proprio perché tematizza una mancanza reale, extra-soggettiva, come origine e fulcro della soggettività. L’ermeneutica, invece, ha fatto proprio il motto (ironico) di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni” per affermare il trionfo (direi maniacale) della soggettività: il Reale e l’Essere si sciolgono nella dinamica storica – umana, troppo umana - delle interpretazioni. L’ermeneutica si risolve quindi nell’avallo dato a ogni ideologia e credenza che sia attuale, in atto, purché cioè abbia kairós, tempestività e successo storico. Questa concezione trionfa oggi in un ampio settore della psicoanalisi contemporanea (anche in Italia), che è divenuta quindi “narratologica”, “relazionale”, “ermeneutica”, sulla scia di Shafer, Spence, Stolorow, Renik, Ferro, ecc. In sostanza, l’inconscio si riduce a una relazione intersoggettiva, o meglio, a una relazione tra discorsi: l’analista altro non fa che aiutare il soggetto a trovare per sé una narrazione migliore, insomma, a interpretarsi in modo nuovo e più felice. Come si vede, in questa impostazione è evacuata definitivamente la dimensione del Reale: l’analisi è solo discorso che modifica, elabora, altri discorsi. L’analisi non è altro che trasformazione, ovvero dare nuove forme alle proprie vite interpretanti.

           Ora, considero l’hegelismo di Lacan ben più perspicuo della melassa ermeneutica prevalente in Italia. Per parafrasare il motto ermeneutico fondamentale, Lacan direbbe piuttosto “non esistono fatti, ma interpretazioni della Cosa”. Insomma, il reale non è evacuato, anzi, diventa il fulcro stesso della soggettività. Da qui l’importanza che i lacaniani tendono a dare al trauma: essi scommettono sul fatto che ogni soggettività si costruisce e si dispone attorno a un trauma, attorno a qualcosa che rompe la nostra soggettività, la scardina e la costringe a ricostituirsi secondo altri equilibri (e per trauma si intende anche e soprattutto l’esperienza di un godimento eccessivo, devastante). Perciò la telenovela narratologica – per cui la cura consisterebbe nel sostituire un mito felice che il soggetto si racconterà al posto di un mito infelice (nevrotico o altro) – schiva questo fulcro di Reale con cui ogni soggettività invece, prima o poi, deve fare i conti. Paradossalmente, proprio la teoria dell’”inconscio strutturato come un linguaggio” si risolve in una visione trascendentalista, trans-psicologica, per cui in fin dei conti ogni soggettività ruota attorno a un Reale che non sarà mai simbolizzato né discorsivizzato. E’ quel che Lacan stesso chiamava il suo “misticismo”.

 

5. Parlare di ciò di cui bisogna tacere

 

          Da un paio di secoli, la cultura occidentale appare scissa tra due tendenze. Una è generalmente positivista (“scientista” dai suoi oppositori) e include certo razionalismo metodologico (Popper ad esempio). Positivista perché non ammette che nel mondo lavori il negativo – e la negatività è portata nel mondo dal soggetto (pensante, desiderante, parlante, sofferente). Certo il positivismo ammette che tutto ciò che possiamo pensare o sapere è correlato a un Io che resta trascendentale: ogni conoscenza è sapere-per-qualcuno. Ma il punto è che per il positivismo questo Io trascendentale, comunque presup-posto, posto-su e posto prima, non può mai essere posto da alcun discorso sensato. Questo impegno è stato espresso apoditticamente da Wittgenstein nell’ultima frase del Tractatus: “Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”[12]. Ciò di cui non si può parlare, prima di tutto, è il soggetto per il quale il mondo si manifesta e che lo pensa come mondo – di questo si deve tacere. Lacan dice che questa concezione implica una Verwerfung, forclusion, una preclusione[13] del soggetto: come sua conseguenza il soggetto non può essere, in quanto tale, oggetto di sapere e di discorso sensati.

Ora, questo precludersi, da parte del positivismo, della possibilità di tematizzare la soggettività si acuisce quando esso, negli ultimi decenni, attraverso le neuroscienze e le psicologie cognitive, osa finalmente la scalata al Cielo: sviluppare una scienza della mente. Le scienze cognitive sono il tentativo di fare del pensiero stesso oggetto di pensiero scientifico[14]. Ma le preferenze terminologiche non sono mai irrilevanti: lo scienziato cognitivo parla sempre di mind, mente, su cui costruire teorie verificabili o falsificabili, non parla mai di soggetto. Parlarne resta precluso. La mente, insomma, è la soggettività nella misura in cui diventa oggetto di scienza: ma ovviamente lo scienziato, se vuol restare positivo – ovvero uno con la testa sulle spalle – non potrà mai tematizzare se stesso come soggetto che studia e congettura sulla mente[15].

          L’altro filone – nel quale la psicoanalisi lacaniana si inscrive – può essere definito romantico e trascendentalista, a dispetto di un suo certo sbandierato materialismo. Questo filone pone ciò che va presupposto a ogni atto di pensiero e di sapere - il soggetto - e su quest’ultimo non intende affatto tacere. Ma non per porlo a sua volta come mente o come cervello, insomma non come proprio oggetto di conoscenza. Da Kant fino a Lacan, si scommette sul fatto che si possa tematizzare rigorosamente la soggettività trascendentale (la negatività auto-relativa assoluta degli idealisti) senza ridurla a oggetto di conoscenza. Ma questo impegno sfocia in un’immagine – anzi: in un panegirico – della soggettività come eterna mina vagante nell’ordine degli enti (nell’ordine ontico). Proprio perché il romantico si rifiuta di pensare il soggetto come presenza tra presenze, cosa tra cose  - foss’anche cosa di una sostanza speciale, cogitans e non extensa -, il soggetto viene esaltato come ciò che introduce la mancanza, la negatività, il vuoto, l’imprevedibile, anzi l’abisso, la notte, l’ineffabile (il divino? è la soggettività la nuova divinità di noi moderni?) nel registro positivo, senza faglie, delle cose. Abbiamo qui molte parole-chiavi del pensiero lacaniano.

In effetti, quando iek e altri[16] ricordano che in Lacan si tratta di una rielaborazione hegeliana di Freud, non bisogna prendere questo hegelismo in senso letterale, pedantesco, da manuale; non si tratta di un’applicazione del modulo triadico tesi-antitesi-sintesi. L’Aufhebung hegeliana – come sorpassamento, cancellazione, conservazione di ciò che è cancellato – viene ridimensionata. La dialettica lacaniana è una dialettica piuttosto della mancanza e della sua rappresentazione - ma pur sempre dialettica è. Ovvero, in questo neo-hegelismo psicoanalitico la mancanza originaria non viene mai superata-cancellata-conservata in qualche sintesi superiore: essa produce la storia soggettiva come tentativo, epopea, di superarla. Lacan è certo molto più romantico (più moderno) di Hegel: il soggetto come evento introduce nel mondo denso, senza vuoti, delle cose la mancanza – e per questa ragione il soggetto si definirà sempre come scisso. Quella soggettività che il positivismo manca di tematizzare viene descritta dal romanticismo moderno come qualcosa che mancherà sempre di qualche cosa, e soprattutto di se stessa come “cosa” da cogliere e possedere.

          Questo romanticismo hegejeviano che seduce l’intellettualità non-positivista delle due sponde dell’Atlantico è stato bene espresso da una frase scritta da un giornalista, Massimo Nava, in un necrologio di Paul Ricoeur: che per Ricoeur “l’uomo si distingue dagli animali per la propria crudeltà, cova passioni tristi, come l’invidia, l’odio. E che in fondo l’essere umano è l’unico essere che si è affrancato dall’istinto di sopravvivenza”[17]. Una frase del genere dice, con sfrontatezza giornalistica, il fondo del pensiero romantico contemporaneo: che l’uomo non è solo un essere naturale[18]. E non lo è proprio per le sue “passioni tristi”. Questo non per tornare a uno spiritualismo outdated, ma per affermare una sorta di progetto a un tempo etico, estetico e politico: che l’essere umano è disfunzionale, non darwinianamente adatto, insomma… è una specie animale romantica. L’uomo è un rompi… Da qui, per contraccolpo, tutta una concezione dell’animalità intesa come Innocenza Perduta: la bestia come armonia immaginaria, come vivente che non manca di nulla, sempre adatto e adeguato al proprio ambiente, ecc.[19] Cacciata dal paradiso terrestre dell’animalità, la soggettività umana - in Lacan come in questo pensiero contemporaneo - apparirà quindi sempre non solo come mancanza di armonia animale, ma anche come manque à être, mancanza d’essere.

Ma questo era appunto lo spunto essenziale dei seminari di Kojève. E già l’hegejeviano Sartre aveva scritto in L’Essere e il Nulla che il “per-sé” (il soggetto)  “è ciò che non è e non è ciò che è”[20]. Enunciato di tenore rigorosamente hegeliano. Possiamo dire che Lacan ha cercato sempre di descrivere il soggetto appunto in quanto “è ciò che non è e non è ciò che è”, ovvero attraverso una dialettica tra essere e rappresentazione, tra riconoscimento e alienazione.

          Ora, per iek questa specificità umana non è connessa solo al linguaggio, ma anche alla pulsione di morte freudiana (le “passioni tristi” del giornalista): “Questa pulsione non è nei nostri geni; non c’è alcun gene per la pulsione di morte. Tutt’al più, la pulsione di morte è una disfunzione genetica.” La pulsione di morte, Todestrieb, è una presenza dell’innaturale nella natura[21].

 

  1. 6.    Dal Simbolico al Reale

 

Molti pensano a Lacan soprattutto nel suo dispiegamento hegeliano – al primato del significante e del linguaggio. Ma di fatto dopo la sua morte le cose sono cambiate, e iek ne è certo un esempio eloquente: ha preso piega un lacanismo meno logocentrico per il quale conta piuttosto il Reale e ciò che lo convoca (l’oggetto a piccola, la Cosa, il godimento). I lacaniani più updated e pimpanti rileggono il maestro in una chiave sempre più real-ista. Questo dipende in parte da un cambiamento climatico generale del pensiero occidentale negli ultimi anni: il tramonto del linguistic turn. Come abbiamo detto, dagli anni ‘50 agli ‘80 il pensiero occidentale si era polarizzato sul linguaggio – e Lacan esprimeva bene questa polarizzazione. La filosofia analitica anglo-americana, riprendendo l’ultimo Wittgenstein e Austin, per decenni aveva identificato la filosofia stessa con una terapia linguistica: il filosofo non si occupa del mondo né del soggetto ma unicamente dei giochi linguistici. Analogamente, la fenomenologia sembrava essersi risolta in ermeneutica: il filosofo non fa altro che interpretare testi. Insomma, sia gli eredi dei positivisti che dei fenomenologi hanno avuto una convergenza parallela – per dirla come Aldo Moro – sul linguaggio. Questo incanto logocentrico si è ormai spezzato. La filosofia analitica sta confluendo nella nuova philosophy of mind, che invece torna alle grandi questioni metafisiche sei-settecentesche: il mistero della coscienza, il rapporto tra mente e mondo, tra pensiero e corpo, ecc. Ma anche la filosofia continentale si distoglie dall’ermeneutica e – come nell’ultimo Derrida o in Agamben[22] – reinveste la questione dell’animalità ad esempio, ovvero denuncia sempre più la rinuncia sacrificale alla dimensione biologica, corporea, dell’umanità… Oggi, per i lacaniani più recettivi il Reale pre-domina.

          Ma che cosa è il Reale per Lacan? Molti non capiscono che cosa intenda perché pensano al reale come alle cose esterne a me, al tavolo qui davanti e alla penna con cui Krug scrive; ma ovviamente non si tratta di questo. Il tavolo, la penna, tutto ciò che costituisce il mondo domestico nel quale viviamo – addomesticato a oltranza dalla scienza e dalla tecnica, che hanno trasformato quasi tutte le cose in nostri strumenti – è l’Umvelt, il nostro ambiente, ovvero l’Heim, il focolare nel quale viviamo, di cui siamo parte perché anch’esso è parte di noi. E’ la realtà delle cose conoscibili e prevedibili che finiscono con l’essere a nostra immagine e somiglianza. Il Reale di cui parla Lacan invece è la totale estraneità alla nostra soggettività: è impensabile, inconoscibile, qualcosa che minaccia radicalmente la nostra soggettività anche se la polarizza. E’ quel che qualcuno esperisce nella cosiddetta sindrome di derealizzazione: non ci sentiamo più nella realtà familiare, e quindi percepiamo finalmente la realtà come… Reale.

Lacan, nel suo seminario più bello (L’etica della psicoanalisi[23]), tematizza das Ding, la cosa: ognuno di noi sarebbe captato da un qualcosa di oscuro, unico e innominabile, che orienta la nostra vita, che ci chiama a una sorta di fedeltà incondizionata. Lacan dà più nomi a questa cosa reale attorno a cui orbitiamo: riprende il termine platonico di ágalma[24], poi oggetto a piccola, ma sempre di questo si tratta. Di una cosa-mancanza oltre ogni rappresentazione linguistica. Ma questa ipostasi di una Cosa extra-soggettiva – anche se costituisce l’occhio del ciclone della soggettività – non entra in tensione con l’ottimismo hegeliano di fondo che ispira l’impresa teorica lacaniana?

Se infatti il Reale è ciò che la soggettività esclude, il Reale è quel che una (ciascuna) soggettività esclude da sé, oppure è ciò che, per essenza, è escluso da tutte le soggettività? Nel primo caso, siamo sempre in una logica hegeliana: il Reale è sempre Reale-per-un-soggetto. Il Reale sarebbe un versante necessario eppur sempre specifico che ogni soggetto implica e produce. Insomma, non è detto che il Reale mio sia anche il Reale tuo.

Non a caso Lacan attribuisce al Reale la modalità dell’impossibile[25]. Ora, di solito pensiamo piuttosto al Reale come al contingente, come questo tavolo su cui scrivo che è blu e fatto di legno – Die Welt ist alles, was der Fall ist, “il mondo è tutto ciò che cade”[26]. Il mondo reale è contingente, cade dal cielo. Perché invece il Reale per Lacan è l’impossibile? Perché è impossibile come il fatto che ci possa essere un quadrato rotondo, ad esempio, o che due più due faccia tre? Perché Lacan pensa hegelianamente il Reale sempre a partire dalla soggettività: Reale è ciò che per un soggetto è impossibile… eppure accade, gli cade addosso! Possiamo dire che comunque è impossibile il contingente (non la contingenza!) per un hegeliano: ciò che gli è impossibile, appunto, integrare nel suo sistema.

“Il Reale è impossibile solo nel senso che non possiamo simbolizzarlo o accettarlo” precisa iek. Come quando una persona cara muore e la nostra prima reazione incredula è esclamare “non è possibile!”: ma proprio per questo è reale. Difatti, occorre un tempo di lutto per realizzare questa perdita, come suol dirsi, cioè per inscrivere questa mancanza dentro di noi, e quindi farla uscire dal Reale. Ciò che in un’ottica oggettivista è una banale contingenza – il fatto che uno muoia  - risulta impossibile per un soggetto. Come nota iek in queste conversazioni, “per Lacan, il Reale non è impossibile nel senso che non può mai accadere – un nocciolo traumatico che si sottrarrà sempre alla nostra presa. No, il problema con il Reale è che esso accade e questo appunto è il trauma. Il punto non è che il Reale è impossibile, ma piuttosto che l’impossibile è Reale”.

 

7. Il reale etico

 

Ma il punto cruciale è proprio questo: se il Reale è sempre un Reale-per-un-soggetto, se la Cosa non è la Cosa-in-sé kantiana ma la mia Cosa che polarizza me e non un altro, non ricadiamo in una psicologia oggettivista? Ovvero, siccome il mio Reale non sarà quello di un altro, posso considerare quello di un altro oggettivamente, dall’esterno, come qualcosa che posso studiare come momento della soggettività altrui. Soggettivizzare il Reale (districarlo da ogni dimensione kantiana di inattingibilità della Cosa) non si risolve in una sua oggettivazione “psicologica”? Quando iek dice che, per esempio, per il nazista l’ebreo era il Reale abietto da evacuare, non fa comunque della psicologia sociale, a cui potrebbe sottoscrivere qualsiasi ricercatore accademico sulla “psicologia di massa del fascismo”?

Quando si dice che il Reale è ciò che è stato escluso dal soggetto, in effetti si usa un termine sottilmente ambiguo, perché esclusione ha sia un senso attivo (eliminare qualcuno che prima era incluso) che passivo (lasciar fuori qualcuno da una selezione positiva). Sembra niente, eppure questa distinzione è alla base delle letture che la sinistra radicale da una parte e il liberalismo dall’altra danno delle povertà del terzo mondo: per la prima i poveri sono esclusi nel senso attivo, sono insomma prodotti dal capitalismo; per il secondo i poveri sono esclusi nel senso passivo, nel senso che sono rimasti fuori del capitalismo, che non sono riusciti a entrare nel suo gioco. Da qui i rimedi opposti: se l’esclusione è attiva, allora il capitalismo è la malattia da curare; se l’esclusione è passiva, allora il capitalismo è il rimedio. Evidentemente iek tende a dare a esclusione un senso attivo: il Reale è ciò che è stato escluso da un soggetto, nella misura in cui gli è sempre correlativo. Il Reale, insomma, è un prodotto della soggettività, anche se quest’ultima per altri versi è prodotto del Reale. Una conseguenza paradossale di questa soggettivazione dialettica del Reale è la convinzione – che alcuni lacaniani esprimono – secondo cui l’unico vero contatto col Reale “a mente nuda” ce l’hanno gli psicotici, nella misura in cui quel che hanno precluso dal Simbolico torna loro dal Reale.

Ma prendiamo il lavoro – molto oggettivo – degli astronomi: possiamo certo dire che nel loro scrutare i cieli sono attratti da un Reale che è solo di coloro che condividono la stessa passione. Allora, quando ipotizzano i buchi neri, ad esempio, rappresentano così la Cosa che li polarizza? Eppure gli astronomi costituiscono una comunità che condivide regole ed etica professionali. E non formano comunità etica proprio perché la Cosa che cercano non è la Cosa di quell’astronomo o di quell’altro, ma una Cosa-in-sé che li dedica e li obbliga? Certamente i buchi neri sono essi stessi una rappresentazione costruita nella storia e nel gioco dell’astronomia, sono qualcosa che la comunità degli astronomi ha inventato oltre che scoperto – perciò una lettura ingenuamente oggettivista degli oggetti dell’astronomia non è sufficiente. Ora, questo esempio dei buchi neri non è casuale: questi affascinano tanto perché paiono essere una fenomenizzazione prototipica della Cosa-in-sé in quanto denotano l’ingresso in un universo inconoscibile per definizione (è impossibile che uno torni nel nostro universo per raccontarci che cosa c’è in un buco nero). Mi chiedo insomma se la Cosa sia semplicemente ciò da cui un soggetto è escluso e attorno a cui si costituisce, o se non sia, più radicalmente, qualcosa da cui ogni soggetto, senza esclusioni, nella misura in cui è un soggetto viene escluso. Possiamo pensare insomma alla Cosa come a qualcosa che non può essere mai oggettivata per qualsiasi altro: è quell’esclusione che ci unisce universalmente e rende possibile, tra noi, il costituirsi di comunità e solidarietà. Ogni altra strada è di fatto idealista: essa equivale a dire “i buchi neri sono solo una costruzione della soggettività astronomica”; certo sono una costruzione, ma non sono solo questo. L’ipotesi dei buchi dice infatti che esiste nell’universo una singolarità – così la chiamano gli scienziati - che si esclude radicalmente dal nostro universo conoscibile, e questo è appunto Reale. Possiamo dire allora che il Reale è sempre in qualche modo un buco nero. Vale a dire, non è tanto ciò che rompe un determinato assetto di realtà, una specifica domus o addomesticazione del mondo, ma è piuttosto ciò che si sottrae alla presa di chiunque e che proprio per questo ci attrae e ci dedica a esso.

Un esempio ancor più pregnante è la morte stessa. Come Heidegger ha mostrato, siccome la morte può essere solo la mia, essa è la mia più autentica, più propria possibilità. Ma proprio dicendo che la vera morte è solo la mia, cioè sempre soggettiva, ne universalizziamo il luogo: ognuno si misura con la propria morte come soggettiva. Che c’è di più reale della morte? E non è essa proprio una Cosa-in-sé perché si sfila da una dialettica hegeliana che pone pur sempre il Reale come prodotto della storia soggettiva?

          Ora, solo questa esteriorità de-soggettivata della Cosa – ovvero la sua dimensione kantiana - può spiegare perché per Lacan questa fedeltà al nostro desiderio, ovvero questo restare soggetti alla Cosa, abbia a che fare con quel che comunemente chiamiamo etica. Certo le etiche sono storicamente diverse, ma in generale chiamiamo etico un agire per cui l’altro conta. E cosa è l’altro soggetto se non, semplicemente, il fatto che mi esclude come soggetto? Non è la soggettività dell’altro qualcosa che radicalmente esclude la mia? Non è ogni soggetto per l’altro qualcosa di assolutamente reale nella misura in cui non potrò mai essere l’altro soggetto, e quindi non potrò mai vivere la sua morte? Ma è etico proprio il mio curarmi dell’altro in quanto è soggetto in se e per se – è proprio l’escludere che, in quanto soggetto, sia mio oggetto.

          L’etica, ci ricorda iek (e come ci hanno ricordato le varie religioni), implica sempre una trascendenza. Ma iek non dice che essa implica anche un’esclusione universale, nel senso che siamo eticamente vincolati a ciò da cui saremo, per essenza, sempre esclusi. 

In un approccio kantiano, insomma, il Reale è l’impossibile per tutti – ed è questa universalità che ne fa una posta etica. Per tutti non intendo i “tutti” plebiscitari in senso bulgaro, l’unanimità statistica degli esseri umani: intendo gli altri in quanto ciascuno è ciò che sarà escluso per qualsiasi altro soggetto. Non sono per noi gli altri il Reale per eccellenza?

          Allora, un’ipotesi di universalità (come la fratellanza tra tutti gli esseri umani) si fonda non su un minimo comune denominatore tra tutti gli esseri umani, ma su ciò che dedica ogni soggetto, vale a dire la cura per il Reale. Per le religioni monoteiste l’universalità sororale o fraterna si fonda sulla dedica a Dio – ma appunto, il Reale non può essere intronizzato nell’Ente Supremo[27].

          La dialettica lacaniana si trova allora di fronte a un crinale cruciale: se il Reale è sempre complementare a un soggetto, a ciascun soggetto, esso non è veramente inteso come ciò che universalmente ci accomuna in quanto tutti ne saremmo esclusi. Allora Reale si riduce a un’aureola che fa corpo con la soggettività, a una specie di punto cieco di ciascuna vita soggettiva. Invece, se il Reale cade dal cielo, per così dire, allora non è soggettivo e quindi marca qualcosa di assolutamente estraneo all’ordine soggettivo di cui si occupa la psicoanalisi. In questo secondo senso, bisognerebbe tornare a Kant: il Reale è la Cosa-in-sé che dobbiamo sempre supporre (senza poterla porre) e che ci àncora eticamente. Ora, anche se iek opta decisamente per la soluzione “soggettivista”, non preclude il richiamo a Kant.

 

          Infatti, d’altro canto lo stesso Lacan pare darci del Reale un’altra visione, per cui il Reale non è riducibile a correlato di un soggetto. Non a caso nel seminario sull’etica Lacan si misura proprio con la cosa kantiana. A un certo punto evoca il dibattito tra Goethe e Hegel sull’Antigone di Sofocle, a proposito dell’imbarazzante dichiarazione di Antigone secondo la quale lei seppellisce il corpo del fratello Polinice proprio perché è un fratello! Un fratello, dice stranamente Antigone, è unico: “non ne potrò mai avere un altro…” Lacan mostra che non si tratta di una semplice stupidaggine, come pensava Goethe: per Antigone il fratello è la sua cosa proprio perché ha questo carattere di unicità[28]. Ora, ogni unicità è indicibile. Il linguaggio e il sapere non possono mai dire l’unicità, il puro evento: l’unicum è impensabile per il soggetto parlante, che inevitabilmente categorizza[29]. Ma allora la Cosa di Antigone, l’unicità a cui lei è dedita, è Cosa unicamente per Antigone? Dopo tutto, che ce ne importa di Polinice? Affari di Antigone. Ma se così fosse, la tragedia non ci commuoverebbe. E ci commuove invece non tanto perché dietro la dedizione di Antigone all’unicum trapelerebbe una dimensione di massima universalista del tipo “occorre sempre seppellire i morti, anche se da vivi si sono comportati male”. Piuttosto perché sentiamo che nella sepoltura dei morti – pratica che segna gli albori dell’umanità – si esprime la dedizione al reale della morte, al fatto cioè che la morte è unica per ciascuno e proprio per questo più che mai reale, insomma l’enigma che ci terrorizza, ci lega e ci obbliga.

Ma in fondo l’etica è puntare proprio a questo: si è etici quando conta l’altro non in quanto genericamente altro, membro della mia stessa specie homo sapiens, ma in quanto l’altro è proprio lui, proprio lei. L’etica ci socializza a partire da questa singolarità asociale, assoluta, impensabile.

 

  1. 8.    Etica “inutilitarista”

 

Sarebbe un errore pensare che queste questioni sollevate da iek riguardino solo i lacaniani. Anche chi non partecipa a questo slang filosofico-psicoanalitico si confronta comunque, anche se in termini diversi, a problemi simili.

L’appello al Reale in effetti ha anche implicazioni etiche e politiche alquanto decisive. Ad esempio, motiva la ripulsa – da parte di iek – della dottrina che in gran parte ispira l’organizzazione politica, economica e giuridica delle società moderne: l’utilitarismo. Questo è la teoria secondo cui l’essenza dell’essere umano è nel cercare di massimizzare il proprio piacere e/o felicità[30]. Possiamo dire che l’utilitarismo moderno segna il trionfo della sofistica greca nella nostra cultura. Il sofista proponeva degli strumenti utili, vincenti, per convincere i concittadini: “siccome ogni essere umano cerca il piacere, offritegli prospettive piacevoli!” L’utilitarismo promette insomma una tecnologia della seduzione – un tempo era l’eristica dei sofisti, oggi è la pubblicità, l’industria dei mass media, le tecnologie del consenso, Mediaset… L’utilitarismo è in fondo la teoria dell’adulazione: “se aduli gli altri offrendo loro l’immagine di quello che desiderano essere, li avrai in pugno!”

Poche storie: gran parte della nostra vita associata è utilitarista. L’utilitarismo è perspicuo da che mondo è mondo. Il punto focale però per iek è sostenere che l’essere umano non è solo questo. E che l’interpretazione sostanzialmente utilitarista che gran parte degli analisti anglo-americani hanno dato della dottrina di Freud è sostanzialmente un’appropriazione indebita.

iek, come i filosofi antichi contro i sofisti, scommette sul fatto che l’essere umano non è semplicemente una macchina per massimizzare il piacere e/o la felicità: gli esseri umani – di cui i filosofi sarebbero gli esemplari più sensibili, più nervosi – sono anche vincolati a un’esigenza di verità. E aggiungerei: che cosa è la verità se non il fatto che gli altri soggetti reali - e quindi non solo il mio piacere da massimizzare - contano?

L’essere umano non è completamente oggettivabile perché, malgrado tutte le tecnologie per lusingarlo e approfittarne (cioè per renderlo felice), c’è un angolo in lui o in lei che si cura del Reale; che insomma, non gli basta essere felice. Dice iek: “come già Kant fece notare nella Critica della ragion pura, manca una teoria che spieghi perché gli esseri umani siano destinati a chiedersi cose a cui mai potranno rispondere”. Perché, come gli isterici, cercano una soddisfazione che non potranno mai avere? Gli esseri umani hanno questo vizio anti-utilitarista di porsi domande inutili! Questo perché l’essere umano non vuol essere semplicemente “fesso e contento”: contento sì, ma non fesso.  Questa disponibilità dell’essere umano a non essere semplicemente felice la si chiama pomposamente, kantianamente, libertà. Ora, iek riabilita i concetti di libertà e autonomia. Egli ha curiosamente una concezione hegeliana del Reale, e una concezione kantiana dell’etica. “Diciamo che l’atto etico è Reale – dice iek - Il Reale non è quel tipo di Cosa-in-sé che non possiamo avvicinare; il Reale, piuttosto, è libertà come un taglio radicale nel tessuto della realtà”. Ma non è questo il succo dell’etica kantiana, la “libertà noumenica”? L’essere umano non è insomma una semplice macchina che segua la legge del massimo piacere o del minor dispiacere, ma è capace di imporsi la legge da sé.  La trascendenza soggettiva trascende l’utilitarismo: “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir… il Reale”. “La vita non è semplicemente la vita”, ci ricorda iek. Insomma, la vita è decente se si ha una Causa. Questa mi pare essere la preoccupazione fondamentale della ripresa iekiana di Freud e Lacan.

          Ora, quest’enfasi iekiana sull’autonomia e la libertà pare rovesciare un aspetto rilevante della “campagna” lacaniana: il suo attacco alle concezioni dell’autonomous Ego, all’ideologia liberale dell’Io libero e imprenditore, ecc. Certo le ironie lacaniane sulla libertà marcavano la sua distanza rispetto ai temi dell’esistenzialismo, pervasivi nell’atmosfera parigina degli anni ‘40 e ‘50 – si pensi all’esaltazione sartriana della “libertà sconfinata”, ecc. Evidentemente Lacan voleva opporre il disincanto freudiano a una visione coscienzialista - fondamentalmente cattolica - derivante dall’assioma cartesiano del libero arbitrio dell’essere pensante. Ma, col tempo, i lacaniani più accorti si sono resi conto che, in fin dei conti, la loro dottrina può reggere solo sulla base di un presupposto fondamentale: che è possibile parlare di soggetti – non di menti – solo se opera una libertà etica sullo sfondo. 

In effetti, l’etica - in Cartesio come in Kant - è inscindibile dalla libertà: un soggetto è etico solo se in qualche modo è autonomo, ovvero se si dà da sé il nómos, la legge, senza esserne soggetto per natura. Autonomo, almeno in certi margini cruciali della vita, dal dictat del principio di piacere. (“Un atto etico – dice romanticamente iek – […] segnala una rottura, una discontinuità nella rete causale o nella struttura dell’universo. La libertà è questa rottura – qualcosa che comincia fuori di sé”.) Non perché alcuni esseri umani siano capaci di far prevalere il dovere sul loro piacere: ma piuttosto perché nel fondo il nostro piacere non è il nostro unico dovere. Ed è in questa autonomia etica che ritroviamo finalmente, oltre il bozzolo confortevole della realtà, il contatto con il Reale.

          Quindi, per iek la dimensione etica – senza la quale non c’è soggettività – rende sensibile il Reale. Questo stupirà sicuramente chiunque pensi che l’etica sia una questione di norme, prescrizioni, comandamenti, regole, ecc. – gli stessi analisti pensano spesso all’etica come a qualcosa di normativo, super-egoico[31]. La novità di Lacan, ripresa da iek, consiste invece nell’aver parlato di etica come di un rapporto, a cui possiamo restare più o meno fedeli, a una cosa originaria, a un Reale irriducibile che ci polarizza e ci centripeta. Il lacanismo innesta in modo perturbante un’etica kantiana su una dialettica hegeliana della soggettività e del Reale.

 

 

9. Marxismo delle anime belle

 

          Un’ultima nota va fatta a iek scrittore politico. A me francamente appare il suo contributo più debole. Mentre iek è innovatore nell’analisi della cultura e in filosofia, in politica è piuttosto conservatore: è inscrivibile nella tradizione freudo-marxista. Come è noto, il freudo-marxismo o marx-freudismo è cominciato presto e ha solcato con le sue luci fosforescenti tutto il XX° secolo: da W. Reich e S. Bernfeld, è giunto fino a E. Fromm, H. Marcuse, L. Althusser, E. Fachinelli, J.-F. Lyotard, E. Laclau, ecc. iek prosegue quindi la gloriosa tradizione che ha tentato di combinare Marx e Freud – più Nietzsche, e magari anche Heidegger e Derrida, per completare il quadro. La Trimurti Marx-Nietzsche-Freud per parte del pensiero del Novecento è stata il paradigma stesso della Modernità. L’analisi marxiana del feticismo della merce a più generazioni è apparsa il pendant socio-economico non solo dell’ipotesi freudiana sulla perversione feticista, ma della teoria psicoanalitica dell’alienazione tout court. Personalmente, proprio perché coniugare Marx e Freud è così allettante, semplice, a portata di mano, insomma inevitabile, ho sempre profondamente diffidato del freudo-marxismo. Diffido sempre dei connubi che ci si propongono con il sorriso invitante dell’evidenza.

Ho l’impressione che, per la generazione a cui sia iek che chi scrive appartengono, l’ideale del socialismo o del comunismo fosse in fondo una maschera di un ideale più fondamentale: quello della Rivoluzione. Ovvero, il desiderio di sconvolgere la società in cui vivevamo era molto più forte del desiderio di una società nuova quale veniva tratteggiata. Il godimento decostruttivo era quello vero, ciò verso cui il cambiamento era supposto andare era pretestuoso (prova ne era che tutti i socialismi real-izzati ci facevano semplicemente orrore). Ora, credere nella Rivoluzione è come credere in Dio o nell’immortalità dell’anima: non è qualcosa su cui si possa argomentare pro o contro. O si ha fede, o non la si ha. Quindi non ha senso qui fare obiezioni alla fede di iek. Eppure qualche nota trasversale va fatta.

Non mi pare irrilevante il fatto che Freud non sia stato sedotto, nemmeno un istante, dal bolscevismo[32], che considerava un’applicazione secolarizzata dell’utopia religiosa: promettere il paradiso in terra anziché nei cieli. Freud pensava invece che l’essere umano non riuscirà mai a liberarsi dal proprio inconscio, ovvero da ciò che ci promette all’insoddisfazione e alla sofferenza, qualunque sia l’assetto sociale. Ho sempre letto Il futuro di un’illusione[33] non solo come una critica della religione, ma anche del millenarismo socialista. E non ce la si può cavare dicendo che, sul piano politico, Freud era ingenuo e poco freudiano: al contrario, vedo la sua diffidenza per il Sol dell’Avvenir come un corollario inaggirabile della sua scommessa teorica. Almeno in questo, sono più freudiano di iek.

Quanto a Lacan, sono note le sue simpatie “ambientali” per la sinistra, ma trovo comunque significativo che egli non abbia mai tematizzato una qualche forma di freudo-marxismo, le dottrine di sinistra restano rigorosamente fuori dal suo insegnamento. Anche questa sarebbe una cecità del maestro? In realtà condivido gli argomenti con cui ribatté i contestatori che lo disturbavano a Vincennes o a Lovanio: ha denunciato l’illusione della Rivoluzione come soluzione del manque à être umano. Agli studenti gauchistes di Vincennes disse giustamente: “Il regime vi mostra e dice - Vedete come godono!”[34] Certo iek non contesta Lacan, anzi lo adora, ma la replica al suo freudo-marxismo non potrebbe essere la stessa? I radicalismi politici del giro di iek, Badiou, Laclau, ecc., sono promossi da persone note, che girano il mondo, ben pagate per occuparsi di quello che amano, che stanno insomma benissimo: non sono uno spettacolo di godimento offerto come spettacolo alle masse, che non lo capiscono e ne diffidano?

Direi del sinistrismo di iek quello che lui stesso dice perspicuamente a proposito della vetero-sinistra, soprattutto trotzkysta, in questo libro: “Quando parlo con alcuni amici marxisti ortodossi di tutti gli sconvolgimenti recenti […] mi raccontano sempre la stessa cosa […] E’ sempre la stessa storia: c’era sempre una possibilità di un’autentica rivoluzione operaia, ma […] è una profonda illusione. Le cose non stanno affatto come vuole il dogma.” (Mia reazione: “ma non si annoia uno come iek a frequentare gente simile?”) Estenderei il giudizio di illusione dall’archeo-marxismo anche a quello neo-.

Ma, escludendo la potenza del contingente, l’hegelismo non porta prima o poi al dogma? E per uscirne la medicina non è sempre, da secoli, la stessa?: l’oltre-orizzonte kantiano della Cosa? Ogni hegelismo, identificando il reale al razionale, non sfocia, irreparabilmente, in una perdita di realtà?

Insomma, le ragioni per cui rigetto il marx-leninismo sono le stesse per cui iek giustamente rigetta le ideologie: perché esse cercano di dare senso alla sofferenza e alla storia. In effetti, ritroviamo qui il doppio versante, attivo (hegeliano) e passivo (kantiano) di esclusione. Ora, mi sembra che quando uno che muore di fame o di AIDS in Africa si dice “sono una vittima del capitalismo occidentale!” – quando opta insomma per l’accezione attiva di esclusione – certo questa sua convinzione dà senso rivendicativo al suo dolore: egli si sente una vittima da vendicare, dato che la sua miseria ha responsabilità precise. In altre parole, incolpare l’Occidente della propria povertà dà senso alla propria miseria (non è la rabbia il trionfo del senso?) – ma proprio iek ci ripete che dare senso alla sofferenza è la nostra illusione capitale. Paesi come la Cina o l’India non stanno uscendo dalla miseria – certo, ancora con enormi diseguaglianze e abusi – proprio perché finalmente hanno smesso di dare senso anti-occidentale alla loro miseria?

In effetti, ben più Real-istica - ben più intollerabile - è l’interpretazione passiva dell’esclusione: spesso si è poveri perché si è superflui. Se oggi centinaia di milioni di persone nei paesi più miserabili del pianeta sparissero, le nostre società opulente quasi non se ne accorgerebbero. Una parte dell’umanità è esclusa nel senso che non è funzionale né al capitalismo né a chicchessia. Non è forse questa contingenza insensata, indigeribile, degli esseri umani – se non ci fossero, tutto andrebbe avanti come prima – la cosa forse più intollerabile, da cui il freudo-marxismo da sempre cerca di distrarci? Eppure l’Edipo di Freud dice qualcosa di ben poco marxista: che il bambino è escluso dalla vita sessuale degli adulti. La cosa difficile da sopportare, in fondo, è la non-colpevolezza dei genitori. Oggi una serie di psicoanalisi e psicoterapie “revisionate” tendono a riportare tutta la colpa sui genitori rovesciando il gesto di Freud: “se ho dei problemi, questa è tutta colpa di papà abusante o incestuoso, della mamma non abbastanza buona, dello zio sporcaccione, ecc. ecc.” Una valanga di film e romanzi oggi ci ripete senza posa che Edipo è innocente mentre Laio e Giocasta sono colpevoli. Ma l’Edipo è terribile perché ogni soggetto, alla fine – dell’analisi o della vita – deve riconoscere, a Colono, che quel genitore mascalzone, tutto sommato, non era la causa ultima del suo malessere.

E questo, applicato alla vita sociale e politica, ci apre a una verità semplice e tremenda: che ogni essere umano è casuale, non aveva alcun diritto a nascere, e quindi, se trova un posto sensato nel mondo, questo se lo deve costruire.

 

 

 

 



[1] S. Zizek, Distanza di sicurezza, Manifestolibri, Roma 2005, p. 67.

 

[2] Kojève negli anni 30 svolse un seminario sulla Fenomenologia dello Spirito che segnò una svolta fondamentale per tutta la cultura francese, evento da cui essa mi pare non essersi ancora ripresa. Cfr. Matteo Vegetti, La fine della storia. Saggio sul pensiero di A. Kojève, Jaca Book, Milano 1998.

 

[3] Kuhn e Lacan hanno avuto uno stesso maestro: il filosofo e storico della scienza Alexandre Koyré. Le affinità tra Kuhn e Lacan sono ancora del tutto inesplorate. Cfr. in particolare T.S. Kuhn, “La nozione di causalità nello sviluppo della fisica” in M. Bunge et alii, Le teorie della causalità, Einaudi, Torino 1974, pp.3-15.

 

[4] Dopo il libro di Derrida Spettri di Marx (Raffaello Cortina, Milano 1994), ben pochi dubitano più del fatto che Marx viva, ma di una vita spettrale.

 

[5] L’accusa di ciarlataneria nei confronti di Lacan è ormai un luogo comune in certe aree culturali. L’anatema più prestigioso contro Lacan è certo quello lanciato da Chomsky, cfr. "Noam Chomsky: An Interview", Radical Philosophy, 1989, 53, pp. 31-40.

 

[6] I lacaniani usano il termine analizzante al posto dei tradizionali paziente o analizzando proprio per distinguere l’analisi da ogni atto medico e per mettere in rilievo il ruolo attivo del cliente dell’analista.

 

[7] Lacan ha ammesso l’influsso di Berkeley sul proprio pensiero: Lacan, Séminaire XX. Encore (Paris: Seuil, 1975), ch. II, p. 93.

 

[8] D. Heinrich, Hegel nel contesto, Suhrkamp, Frankfurt/M. 1975, p. 168.

 

[9]“Non nella spinta infinita a dissolvere il contingente nel concetto ma precisamente nella rinuncia a tale presa si trova l’attitudine giusta del soggetto nei confronti del caso. Il quale, in quanto naturalità lasciata libera dall’idea, è già superato e posto come indifferente”. Ibidem, p. 169.

 

[10] Ma il romanticismo che si contrappone alla scienza, o la ignora, mi è estraneo. Questo romanticismo scivola nell’oscurantismo delle superstizioni chic. Mi colpisce constatare quanto oggi gli psicoanalisti delle varie scuole siano inclini, come persone, ad abbracciare credenze alquanto cervellotiche, più o meno mistiche, certe medicine alternative alquanto improbabili, ecc. La prima generazione psicoanalitica si voleva all’avanguardia dello spirito scientifico, dopo un secolo gli analisti tendono a diventare creduloni e irrazionalisti, adeguandosi al mainstream della cultura pop o addirittura New Age.

 

[11] “Il c… ha le sue ragioni che la Ragione non conosce.”

[12] Wittgenstein, Tractaus logico-philosophicus, 7 (London, Routledge and Kegan Paul, 1961).

 

[13] Vedi la voce Preclusione nel Glossario. La traduzione più corretta di forclusion è invece pignoramento.

 

[14] Lascio qui da parte quella che iek chiama “terza cultura” sulla scia di John Brockman: ovvero una popolarizzazione filosofica delle scienze “dure” che offre interpretazioni non riduzioniste delle stesse (una nebulosa che va da Hawking a Capra, da Dawkins a Varela, da Gould a Mandelbrot e Minsky, ecc.). Indubbiamente questa “terza cultura” esprime un bisogno crescente di uscire dalla dicotomia costrittiva che ha caratterizzato la cultura del Novecento. Cfr. S. iek “Lacan between Cultural Studies and Cognitivism” in Interrogating the Real, Continuum, London-New York 2005, pp. 87-117.

 

 

[15] Le scienze cognitive tendono a essere auto-referenziali – nella misura in cui si tratta di menti che studiano la mente – e dopo Russell sappiamo quanto ogni discorso auto-referenziale minacci continuamente di inciampare in antinomie. Ma gli orripilanti paradossi dell’auto-referenzialità vengono schivati nella misura in cui le scienze cognitive scindono sempre il soggetto come pre-sup-posto (indicibile) dalla mente posta come oggetto – distinguono i tipi di mente, potremmo dire in termini russelliani.

 

[16] Anche il sottoscritto: "Lacan's Dream", Journal of European Psychoanalysis, n.2, Fall 1995-Winter 1996, pp. 107-131. “Che cosa ha veramente detto Lacan. Conversazione RAI con S. Benvenuto”, http://giannidemartino.splinder.com/archive/2005-07.

 

[17] “Il filosofo della metafora”, Corriere della Sera, 23 maggio 2005.

 

[18] iek ripete cose analoghe in queste conversazioni: “Qualcosa va storto in natura: la natura produce una mostruosità innaturale, e simbolizziamo per far fronte a questa mostruosità, per addomesticarla.” (p.).

 

[19] Questa concezione idilliaca dell’animale – come Eden perduto dalla soggettività umana – appare del tutto mitologica a chi conosce bene gli animali. Negli ultimi anni Derrida l’aveva criticata – e ha fatto di Lacan stesso bersaglio di questa critica. Cfr. J. Derrida, ”E se l’animale rispondesse (Finte e tracce)”, aut aut, 310-311, 2002, pp. 4-26; Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2003, pp. 50-3. Per una critica della concezione heideggeriana dell’animalità (che ispira sostanzialmente anche il criterio lacaniano di umanità) si veda G. Agamben, L’Aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002.

 

[20] Sulle affinità tra Sartre e Lacan, dovute al loro comune hegelismo, cfr. Ph. Van Haute, Psychoanalyse en filosofie, Peeters, Louvain 1989; M. Borch-Jacobsen, Lacan, il maestro assoluto, Einaudi, Torino 1999, in part. pp. XIII-XVI, p. 228-9.

 

[21] Qui in verità ci sarebbe da obiettare a questa identificazione iekiana della pulsione di morte con ciò che nega il determinismo naturale – mi pare vero il contrario. Per Freud il Todestrieb in effetti è coazione a ripetere, è l’inerzia del piacere che ci porta verso il Nirvana e la morte, oggi diremmo che è la tendenza entropica insita in ogni sistema naturale chiuso. Vedrei piuttosto in Eros, nella pulsione di vita, ciò che smentisce e contrasta l’inerzia della vita naturale: è esso a sfuggire al Lustprinzip (principio di desiderio-piacere) e a portarci inspiegabilmente verso l’altro.

 

[22] Vedi nota 19.

 

[23] J. Lacan,  Le Séminaire, livre VII. L’éthique de la psychanalyse, Seuil, Paris 1986 ; tr.it  L’etica della psicoanalisi 1959-60, Einaudi, Torino 1994.

 

[24] Agalma è qualcosa di brillante dentro Socrate che capta e seduce i giovani (Simposio). Cfr. J. Lacan, Le Séminaire, livre VIII, Le transfert, Seuil, Paris 1991.

 

[25] Lacan fa uso dei quattro modi distinti dalla logica classica: il contingente, il necessario, il possibile, l’impossibile.

 

[26] L. Wittgenstein, Tractatus, cit., 1.

 

[27] Se identifichiamo il Reale a Dio (come fanno le religioni) si finisce sempre con il contrapporre il mio Dio a quello dell’altro, e l’universalismo si risolve in prevaricazione culturale. Il Dio è sempre Dio di Abramo e di Isacco; il Reale invece non è di nessuno, non è mai “mio” o “tuo”.

 

[28] J. Lacan,  Le Séminaire, livre VII. L’éthique de la psychanalyse, cit., ch. XIX, pp. 296-8.

 

[29] In effetti, i nomi propri che indicano individui unici sono solo indici, come dita puntate verso specifiche cose, non sono veri concetti.

 

[30] Nell’utilitarismo includo anche il cosiddetto contrattualismo oggi molto in voga grazie a J. Rawls e alla sua teoria della giustizia. Il contrattualismo è una sorta di utilitarismo marginalista (in analogia all’economia detta marginalista): possiamo chiamare giusta una società nella quale anche chi sta peggio di tutti gli altri possa dire a se stesso “in una società ingiusta starei anche peggio”.

 

[31] Il paradosso (dialettico?) dell’etica è che, se essa si identifica a norme o leggi, rivela il proprio scacco. Chi è buono segue forse una norma, ma inconsciamente. Se la legge dice “Non uccidere!”, significa che i soggetti di fatto desiderano ardentemente uccidere. I comandamenti sono come il fossato che era il letto del fiume quando il fiume non si era ancora inaridito.

 

[32] Pare che non abbia votato mai nemmeno per il partito socialdemocratico, piuttosto per un piccolo partito liberale austriaco. “E benché il marxismo pratico abbia fatto inesorabilmente piazza pulita di tutti i sistemi idealistici e di tutte le illusioni, ha generato a sua volta illusioni che non sono meno discutibili e gratuite delle precedenti. Esso spera di cambiare, nel corso di poche generazioni, la natura umana…. […] Ma una simile trasformazione della natura umana è assai inverosimile.” (S. Freud, “Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie)”, OSF, 11, pp. 282-3; GW, 15, pp. 193).

 

[33] Opere, 10, pp. 435-489; GW, 14, pp. 325-384.

 

[34] J. Lacan, Le Séminaire, livre XVII. L’envers de la psychanalyse, Seuil, Paris 1991, p. 240.

 

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