Flussi di Sergio Benvenuto

LA POLITICA DELLA FARFALLA (2005)02/mar/2017


Sergio Benvenuto

 

 

  1. 1.    Facilitatori e difficilitatori

 

All’inizio degli anni ‘70, all’epoca dei grandi scioperi Fiat, Rossana Rossanda scrisse su Il manifesto: “Gli operai hanno capito finalmente una cosa: che non è la Fiat a dar loro da mangiare, ma che sono loro a dar da mangiare alla Fiat.” Che cosa c’è di ingenuo e nel fondo di mistificatorio in una sentenza del genere?

A chiunque abbia la pretesa di stabilire una relazione a senso unico negli scambi sociali andrebbe ricordata la famosa battuta diffusa in Unione Sovietica: “Che cosa è il capitalismo?”. Risposta: “Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo”. “E che cosa è il socialismo?” Risposta: “L’inverso”.

Nei termini delle Teorie del Caos e della Complessità [da ora scrivo TCC]: il rapporto tra chi dà e chi riceve è di solito circolare. E’ vero che gli operai della Fiat danno da mangiare all’azienda, ma è vero anche l’inverso. Non è possibile stabilire, in un sistema reticolare di relazioni, una causa prima assoluta separata dalle cause secondarie e dagli effetti, chi veramente dà e chi veramente riceve, dato che questi attori sempre interagiscono. Piuttosto che cercare una linearità negli eventi – del tipo “A causa B, B causa C, C causa D, e così via” – occorre capire quale evento possa davvero essere in grado di mutare l’omeostasi di un sistema, e a quali condizioni.

Ma se le relazioni sono circolari, perché allora i dirigenti FIAT sono ricchi e comandano, mentre gli operai FIAT non sono ricchi né comandano? Per la ragione che se la FIAT fallisse, ci vorrebbero molti anni per sostituirla con un’altra azienda altrettanto importante e quindi le aree d’Italia in cui essa è impiantata si impoverirebbero; mentre mille operai FIAT licenziati potrebbero venire sostituiti in breve tempo (a parte i pochi super-specializzati, che non a caso guadagnano profumatamente). Morchio o Marchionne guadagnano molto perché di quel tipo di dirigenti ce ne sono pochi e contesi fra varie aziende. Il potere, non solo economico, è correlato al proprio grado di sostituibilità: più difficilmente si è sostituibili per un lavoro, più si drena danaro, prestigio e potere. Il fine strategico del sindacalismo è consistito sempre nel rendere il meno sostituibili possibile – attraverso regolamentazioni protettive – i dipendenti che è più facile sostituire.

Confesso di sentirmi estraneo a gran parte delle analisi e spiegazioni politiche che vanno per la maggiore – sia di destra che di sinistra - perché da tempo ho preso l’abitudine di pensare il divenire politico in termini di caos-complessità.

Quelle che un tempo venivano chiamate ideologie vengono chiamate oggi facilitatori. Quando la mattina si compie quella che per Hegel era la preghiera del mattino realista – leggere il quotidiano – si è bombardati dagli eventi più eterogenei: in questo guazzabuglio chi ha il filo rosso di una visione della storia vi si ritrova, rimette ordine. Chi come la Rossanda usufruisce del facilitatore marxista, in quasi tutti gli eventi ritroverà la divisione fondamentale oppressi versus oppressori. Non sempre è facile: in molti casi chi è oppresso da alcuni è chiaramente oppressore di altri, e così via, come negli anelli di una catena che magari si chiude. Ma grosso modo il facilitatore sembra funzionare. Dal caos emerge un ordine, sempre lo stesso.

Il caotico-complessista invece usa piuttosto dei difficilitatori, se mi si permette il neologismo: non cerca subito l’ordine. Piuttosto egli lascia emergere degli attrattori, come vedremo. Tiene conto del fatto che l’evento che vediamo è connesso a una miriade di processi invisibili che non hanno una forma determinata. L’ordine interessante non è quello che si sa già che si troverà, o che bisogna trovare a ogni costo: è piuttosto quello che ci sorprende, che non è possibile inferire come da un sillogismo. L’ordine scientificamente interessante è come l’oasi che emerge, rara e inaspettata, nel mare di sabbia del disordine.

Qualcuno potrebbe obiettare: “tutte le teorie semplificano la complessità; quindi anche la teoria della complessità [TCC] è una semplificazione”. Certamente. Ma la TCC è una semplificazione preferibile ad altre perché ci ricorda – a differenza di queste altre – che essa stessa, come teoria, è una semplificazione. La TCC è insomma anch’essa un facilitatore, ma che ci divide come soggetti: ci ricorda sempre che non bisogna identificare il modello che dobbiamo pur farci del reale con il reale stesso. Insomma ci ricorda, come Hamlet, che ci sono più cose in cielo e in terra che in tutte le nostre filosofie.

 

In verità un modo di pensare complessista sta entrando poco a poco nella mentalità di molti. Sempre più sento citare versioni della frase proverbiale, “lo sbatter d’ali di una farfalla in Brasile può provocare un uragano nel Texas”. Tutti intuiscono che certe cause che appaiono minime possono produrre effetti enormi – e viceversa, tante montagne causali partoriscono topolini effettivi. Ma pochi sanno che questa frase è del meteorologo Edward Lorenz del MIT; la sua teoria sui processi meteorologici è stata fondamentale nello sviluppo delle TCC[1]. E’ da lui che viene il concetto di attrattore strano o attrattore di Lorenz, di cui più avanti vedremo la portata.

          Non mi soffermerò qui sulle basi matematiche dell’approccio caotico-complessista. Mi limiterò a illustrare, in modo stringato, a quali conseguenze fondamentali esso porta nell’analisi della società e della politica:

 

* Reticolarità. I processi vengono visti non come lineari ma come reticolari.

* Imprevedibilità. Molti fenomeni – biologici, sociali, psicologici - intelligibili non per questo sono prevedibili.

* Interattività ed Eteronomia. E’ abbandonato l’individualismo metodologico a favore dell’idea che quello che pensiamo e facciamo deriva in larga parte da quello che pensano e fanno gli altri.

* Sistemicità. Dai processi caotici emergono sistemi omeostatici, che è difficile mutare con mezzi semplici e lineari.

 

Vediamo questi aspetti uno per uno.

 

2. Reticolarità

 

          In questi ultimi decenni si è radicato nelle coscienze un nuovo paradigma attraverso cui tutti guardiamo diversamente la società: quello della rete.

          Nella descrizione della struttura sociale prevalevano prima due modelli tradizionali – il piramidale e lo stratificato. Fino a non molto tempo fa la società era vista soprattutto in termini gerarchici, come piramide o cono.  Caste, classi, ceti, strati, livelli. In una società a gerarchie fisse, il fine dell’individuo era quello di salire a un livello superiore, e cercare di non scendere; la carriera era sempre una scalata. Chi invece non credeva nella mobilità, preferiva l’immagine geologica degli strati, in ognuno dei quali ciascuno si trova incastrato, fissato - gli strati geologici sono immobili su tempi lunghi. Comunque, che si tratti di piramidi o di strati geologici, questi modelli davano un’immagine verticalista della società.

          Ma dagli anni ‘60 in poi, pensatori anche molto diversi tra loro cominciano a farci pensare con una diversa metafora, orizzontalista, che descrive diversamente l’essenza delle nostre società: quella della rete di comunicazioni. Il successo di una rete acentrica e illimitata come internet ha portato all’apoteosi questa figura. L’informatica, le scienze delle comunicazioni, la sociologia, le neuroscienze, l’economia, la biologia, la linguistica, tutte paiono oggi sempre più sedotte dal modello reticolare. Le imprese e le organizzazioni umane sviluppate passano da una struttura gerarchizzata a una in reti. La prosperità economica dell’Occidente negli anni 90 viene attribuita a questa reticolarizzazione inscindibile dalla globalizzazione.

          L’importante non è più tanto scalare la piramide, quanto occupare posizioni strategiche nelle reti. Certo, le istituzioni e le grandi aziende sono ancora strutturate in modo gerarchico. Ma i giovani di oggi sanno bene che la promozione gerarchica è solo una consacrazione finale dell’essere riusciti a occupare il posto giusto in una rete di scambi e di rapporti – l’importante è essere un nodo intenso di scambi. Il successo planetario di Facebook ha dato una forma conviviale a questa struttura prevalente – più amici si hanno su Facebook, più si è successful. Drena danaro, amore, potere e verità chi si situa nella rete in modo da diventare un centro di convergenza. Danaro, amore, potere e verità sono i quattro fondamentali “mezzi di comunicazione” nella società secondo N. Luhmann[2]. Ad esempio, un operaio non specializzato è sempre più considerato come un agente che occupa un luogo marginale nella rete, e che quindi riesce a drenare solo poco danaro, amore, potere e verità su di sé. Invece, uno qualsiasi può fare fortuna – intercetterà molto danaro, sarà molto amato (conquisterà molte donne o molti uomini), eserciterà molto potere e avrà accesso a molte informazioni vere e scientifiche - se gli riesce di situarsi nel crocicchio giusto. Per definizione, in una rete non c’è un centro assoluto, come non ci sono punti più alti o più bassi; i fortunati in rete sono quelli che riescono a farsi hubs, centri relativi di scambi e circolazioni. Cade la differenza assoluta tra centro e periferia. Da una concezione topografica dei legami sociali, stiamo passando a una concezione relazionale, riflessiva e circolatoria dei legami sociali.

          Questo primato della rete comporta una revisione epistemologica: viene abbandonato il modello causale lineare. Un modello lineare è quello di molte teorie fisiche del tipo “se riscaldi l’acqua oltre 100°c, essa bollirà”. Secondo il modello reticolare, i nostri atti e discorsi circolano in tutte le direzioni, retroagiscono continuamente sulle fonti – essi sono riflessivi. Non c’è un inizio, un’origine, una causa. In una rete, la gerarchia logica tra causa ed effetto viene addirittura a cadere: ogni effetto per qualche verso è anche causa della sua causa. In una rete comunicativa influisco anche sempre, almeno indirettamente, su chi mi influenza direttamente. Al limite, non ci sono cause ed effetti: ci sono solo input e una rete. O, come dice la teoria dei sistemi, ci sono solo i sistemi e il loro ambiente: ma ogni sistema è parte dell’ambiente per gli altri sistemi. E ogni sistema punta a sua volta ad adattare a sé il proprio ambiente: l’ambiente è costituito esso stesso da sistemi che interagiscono. L’unica vera causa è il sistema reticolare stesso e ciò che vi si immette, e noi individui, con tutti i nostri desideri e credenze, non ne siamo la causa prima ma gli effetti. La nostra identità che ci è così cara non è più il fondamento del sistema di scambi – come pretende il modello individualistico – dato che in questo sistema ognuno di noi è, in fondo, intercambiabile.

D’altro canto la Rete dissemina la comunicazione creando anche nicchie auree dove si riversa danaro, tabernacoli privilegiati di verità accaparrate, sex symbols che attirano il desiderio di milioni, poteri discrezionali, illegali o incontrollati.

Così oggi l’immagine pertinente del tiranno non è più il re, il dittatore, il capitalista, gli autori del complotto giudaico-massonico o qualche lobby: è sempre di più la Rete stessa. Non pochi sentono di essere sfruttati, dominati, manovrati dalla tela di ragno in cui tutti siamo presi e prodotti. Per cui la sola rivolta possibile è uscire dalla rete, to drop out - o non entrarvi mai. Alcuni, soprattutto anziani, si emarginano completamente, non sono connessi a internet, non usano il computer né il cellulare, rimangono alla tecnologia degli anni 1960.

 

3. Imprevedibilità

 

Henri Poincaré già nel 1908 aveva visto che le equazioni della dinamica classica, anche in sistemi molto semplici, possono generare un moto caotico. Lorenz nel 1963 fu il primo a osservare, studiando la convezione atmosferica, un moto caotico. Ne costruì un semplice modello matematico per esaminarne, a partire da uno stato iniziale dato, l’evoluzione temporale e, nell’analizzarlo al computer, scoprì una caratteristica importante: l'evoluzione del sistema tendeva verso uno stato caotico senza alcun carattere di regolarità. La configurazione geometrica da lui descritta è nota come attrattore strano o attrattore di Lorenz.

Inoltre, Lorenz osservò che l’evoluzione temporale del sistema dipende in modo sensibile dalle condizioni iniziali. Per quanto vicini possano essere gli stati iniziali di due diverse soluzioni – ovvero, di due evoluzioni possibili - la loro distanza diverge esponenzialmente, pur restando confinata in un volume finito di spazi. In altri termini, supponiamo di aver misurato lo stato iniziale di un processo con una determinata incertezza. Questa incertezza provoca una imprecisione nello stato finale che non è proporzionale alla incertezza iniziale, ma diventa rapidamente molto grande col passare del tempo, diverge esponenzialmente, fino a raggiungere la massima imprecisione che possiamo tollerare.

Come i processi atmosferici, anche quelli sociali sono spesso molto sensibili alle condizioni iniziali. Ovvero, se variamo anche di pochissimo il dato iniziale di un processo lungo, otterremo effetti radicalmente diversi. Questo significa che molti processi naturali e sociali sono di fatto imprevedibili. Proprio perché imprevedibile, chiamiamo questo risultato casuale.

Il bello della storia è che riserva sempre sorprese. Chi, all’inizio degli anni ‘70, avrebbe potuto prevedere l’epopea del fondamentalismo islamico, dalla rivoluzione khomeinista fino ad Al Qaeda e all’ISIS? Chi aveva previsto il rapido collasso del socialismo reale alla fine degli anni ‘80? E chi poteva prevedere la lunga recessione del Giappone dagli anni ’90 in poi? Se qualcuno aveva previsto queste cose, è stata pura fortuna: non sarebbe stato in grado di argomentare in modo decisivo queste previsioni sulla base dei dati disponibili.

D’altro canto operano degli attrattori strani: le variazioni possono essere enormi, il processo appare caotico, eppure sui tempi lunghi si disegna una regolarità segreta, soggiacente alle variazioni imprevedibili (“l’ordine si maschera da caos”). E’ vero che nessun meteorologo può prevedere con sicurezza se domani pioverà o meno in Val Brembana, ma certamente non c’è bisogno di essere meteorologo per scommettere che il prossimo inverno in Val Brembana sarà più freddo della prossima estate nella stessa valle. Un inverno e un’estate possono essere più o meno fredde – l’oscillazione da anno ad anno è imprevedibile – ma un attrattore più strano di quanto non si pensi rende legittimo il pronostico “il prossimo gennaio sarà più freddo del prossimo luglio”.

 

Si dirà che le variazioni stagionali dipendono da una causalità lineare: l’inclinazione dell’asse terrestre. Ma questa condizione è di fatto attrattiva: l’inclinazione dell’asse terrestre non esclude a priori un caso estremo, di un inverno che risulti più caldo dell’estate successiva. Non disse Mark Twain che non passò mai un inverno così freddo come un’estate a San Francisco?

 

Per questa ragione, da tempo ho preso la buona abitudine di non leggere mai le previsioni economiche che si riferiscono al prossimo anno o a quelli successivi: sono conti senza l’oste (qui l’oste è la complessità) e si rivelano quasi sempre fasulle. Questo non toglie però che su tempi più lunghi possiamo azzardare previsioni meno rischiose. Ad esempio, si è visto che, se consideriamo gli ultimi 150 anni, tutta o quasi la ricchezza del Nord America e dell’Europa occidentale è aumentata in media dello 1,5% l’anno. Non è possibile sapere esattamente quando ci sarà “l’orso” e quando “il toro”, quali anni saranno di vacche magre e quali di vacche grasse, ma sulle medie possiamo arrischiare di dire che – salvo svolte improvvise, come fu ad esempio la rivoluzione sovietica – anche in futuro la ricchezza generale aumenterà a questo tasso medio. Ecco un esempio plastico di attrattore.

 

Tralascio qui il dibattito su come calcolare l’aumento della ricchezza reale dei paesi. Comunque, anche secondo approcci alternativi – che non considerano il solo PNL ma anche fattori più qualitativi, come la qualità della vita, la sostenibilità, ecc. – la ricchezza dell’Occidente aumenta da oltre due secoli a un tasso medio costante. Ad esempio, secondo l’Index of Sustainable Economic Welfare (ISEW) di Daly e Cobb (1989) le economie occidentali nel Novecento sarebbero aumentate dello 0,9% l’anno, e non dell’1,7% come calcolato sulla base del solo PNL. In ogni caso un attrattore di aumento costante si delinea. Cfr. H. Daly & R. Cobb, Un’economia per il bene comune, Red Edizioni, Como 1994.

 

Un altro esempio può essere quello del voto di sinistra in Italia dal 1946 fino a oggi. Certo in oltre 50 anni le coalizioni sono cambiate, e anche il sistema elettorale è passato dal proporzionale al semi-maggioritario, i partiti più importanti della prima Repubblica sono scomparsi, ecc. Eppure, se andiamo a leggere i dati elettorali, vediamo che sostanzialmente quel che si auto-identifica come “voto di sinistra” resta sostanzialmente stabile nel nostro paese. Come disse Michele Serra dopo le elezioni europee del giugno 2004, “la sinistra italiana si ritrova più o meno al solito 45%, dato invariato dai tempi di Giuseppe Mazzini”. Forse con 45% è stato troppo generoso. E’ difatti delimitare precisamente il voto di sinistra, ma direi che raramente va oltre oltre il 40%. Nulla ci suggerisce che questo attrattore “mazziniano” debba cambiare in futuro.

Da notare che questa sostanziale stabilità dell’elettorato, non solo italiano, a dispetto dei cambiamenti storici sopravvenuti non implica, per gli individui, una continuità di voto. Nel corso della vita parecchie persone cambiano il proprio voto, e spesso i figli non votano come i genitori. Eppure il saldo finale tra tutti questi cambiamenti mostra una stabilità di fondo nella distribuzione dei consensi. Vedremo il perché nel prossimo paragrafo.

Non solo quindi variazioni minime iniziali possono generare processi del tutto divergenti, imprevedibili; ma fenomeni che appaiono puramente caotici si rivelano “attratti” da una sorta di inerzia che è difficile mutare. Molti fraintendono la TCC come se fosse una concezione del cambiamento perpetuo: no, essa cerca di render conto anche delle cocciute conservazioni. E’ il caso di tutti i sistemi viventi, omeostatici: ogni sistema vivente tende ad ammortizzare gli accidenti e a mantenere la sua struttura generale. Anche se col tempo in ogni vivente il disordine (l’entropia) finisce con il prevalere sull’ordine: l’organismo invecchia e muore.

In conclusione, la visione della storia che ne emerge è non deterministica. Nessuno è in grado di prevedere come sarà il mondo tra cento anni. Del resto, quale seria concezione della storia è oggi determinista? Nessuno dice più “il reale è razionale”, diciamo “razionalizziamo certi lembi di reale”.

 

 

4. Interattività ed Eteronomia

 

          E’ rimasta proverbiale la frase della Thatcher: “La società non esiste”. Essa esprime in modo drastico quello che chiamerei l’individualismo conservatore, su cui si basa l’economia politica che va per la maggiore: la società è un’astrazione, esistono solo individui razionali che desiderano, credono e decidono. Questo presupposto individualista è abbandonato dalle applicazioni alla società delle TCC.

          In effetti, gran parte di quello che pensiamo e facciamo è ispirato da quello che pensano e fanno gli altri. Basti pensare a tutto ciò che, nella vita sociale, è mode. Non intendo per moda solo le variazioni nel modo di vestirsi o di arredare: sono soggetti a mode anche le idee politiche e filosofiche, i gusti estetici e i suicidi, certe malattie e la fortuna di certi autori classici; persino le scienze esatte risentono delle mode[3]. Il fatto che nel mondo islamico dopo l’11 settembre si trovino tanti giovani kamikaze può essere visto come una moda. I terroristi detti lupi solitari sono imitatori di altri terroristi, diciamo che seguono la moda.

Come capì già a suo tempo Veblen[4], e come di nuovo appare evidente a molti sociologi, gran parte della vita sociale dipende strettamente da quel che dicono e fanno gli altri – dato che l’essere umano è un animale imitativo ed emulativo. Quindi molti atti sono comprensibili non supponendo credenze e calcoli di ciascun individuo isolato (individualismo), e nemmeno supponendo che i processi collettivi globali determinino linearmente gli individui (olismo), ma in relazione al contesto e quindi all’interazione. La Thatcher quindi aveva torto: la società esiste, anche se non esiste separata dagli individui. La società mi detta non solo le mie credenze (credo di solito in quel che credono i miei concittadini che considero a me più vicini) ma in larga parte anche i miei desideri.

          Ad esempio, quasi tutti noi disponiamo di video-registratore, auto, DVD, smartphone, computer portatile, tablet, ecc. Perché, dato che per millenni gli esseri umani hanno vissuto egregiamente senza di essi? Perché sono gli altri ad avere queste cose. Più gli altri ce le hanno, più ci sentiamo in dovere di averle anche noi per non farci classificare come marginali, falliti o snob.

Questo spiega, ad esempio, una certa stabilità nel tempo delle opzioni politiche: più un partito è votato, più drena consenso perché è più probabile che il voto per quel partito venga imitato da altri. Se un piccolo partito non raggiunge subito una certa massa critica non diventerà mai un grande partito: la sua stessa piccolezza rende improbabile l’attrazione di un numero cospicuo di voti. Di solito il successo genera successo, l’insuccesso genera insuccesso, proprio perché l’essere umano è un animale imitativo[5].

Ma ogni individuo è strutturato dagli altri anche nel senso che la visione della società e del mondo che egli si fa, e che guida molte delle sue azioni, solo rarissimamente è una propria produzione individuale: ognuno assume dalla comunità a cui partecipa o a cui ambisce partecipare il paradigma con cui legge il mondo. Questo paradigma diventa il facilitatore di cui sopra. La società è complessa, ma le immagini che ci facciamo di essa sono semplificanti - la mente umana non può fare a meno di facilitatori. Queste semplificazioni a cui chi più chi meno crede ci vengono proposte da coloro nei quali abbiamo fiducia: dai giornali che leggiamo, dai nostri autori preferiti, dagli amici che ammiriamo, dai professori per noi autorevoli, ecc. Ogni semplificazione, di solito, non cede agli argomenti delle semplificazioni avverse o semplicemente diverse proprio perché la realtà è complessa e quindi le cose possono essere viste da vari punti di vista; insomma si possono sempre trovare prove per confermare la propria semplificazione. Ma questa pluralità di semplificazioni che si affrontano complessificano ulteriormente il quadro: la storia umana è la storia delle complessità prodotte dalle semplificazioni trasmesse ad altri.

          Personalmente, non so riconoscermi completamente in semplificazioni tipo “sinistra” e “destra”[6]. Si dirà: “siccome in Occidente gran parte dei soggetti leggono il campo politico proprio sulla base del paradigma sinistra/destra, allora questa dicotomia ipso facto è valida”. Certo, anche parte del Medio Evo fu polarizzato dalla lotta tra Cristianesimo e Islam, quindi le interpretazioni cristiane e islamiche hanno avuto impatto storico – ma questo non ci autorizza a dire che l’effettività storica di queste religioni dimostra ipso facto che Dio o Allah esistono. Analogamente, il fatto che una larga parte dei soggetti politici pensi e agisca secondo il paradigma sinistra versus destra non implica ipso facto che questo dilemma sia quello più adeguato per capire la realtà sociale. Possiamo dire che si tratta qui di significanti, ovvero di concetti-nomi. I conflitti nominalisti (ovvero, tra significanti) fanno la storia, indubbiamente, ma non è detto che la nostra visione della storia debba essere anch’essa nominalista. Certamente i soggetti umani tendono a costruirsi semplificazioni, ma queste semplificazioni sono molteplici: la loro interazione risulta molto complessa. La complessità è in parte il risultato dell’interazione e del conflitto tra le semplificazioni o interpretazioni – e perciò la politica risulta rischiosa, sorprendente e imprevedibile.

 

 

5. Sistemicità

 

I processi sociali tendono a strutturarsi in sistemi. Molti di quelli che oggi si occupano di TCC avevano già sviluppato la teoria dei sistemi elaborata da von Bertalanfy, Bateson, Luhmann e altri[7]. Detto in modo semplice, un sistema è un insieme di regolarità. Il nostro sistema solare è detto sistema appunto perché le orbite dei pianeti attorno al sole restano sempre le stesse per tempi lunghissimi, e se un nuovo corpo entrasse nel sistema, finirebbe con il comportarsi come gli altri pianeti: girerebbe attorno al sole. Quello ferroviario in Italia è un sistema perché nel corso di un anno la circolazione dei treni si ripete ogni giorno in modi regolari (scioperi e ritardi a parte).

Questa cocciuta conservazione delle regolarità non deve però spingerci a credere in una teleologia: pensare che un sistema miri a conservarsi, come se fosse un individuo che si sforza di sopravvivere. Ma questo rischia di ridurre la teoria dei sistemi a una teoria organicista, ovvero a una riverniciatura del vecchio apologo di Menenio Agrippa. Dopo tutto, un sistema è sempre una congettura soggettiva: è un modo di ontologizzare delle ripetizioni regolari. Queste iterazioni regolari danno la sensazione di fare sistema perché hanno trovato un attrattore rigido.

In effetti, gran parte delle perturbazioni - degli eventi che fanno irruzione in sistemi - non sono capaci di modificare sensibilmente questi sistemi: esse sembrano metabolizzate dal sistema stesso, un po’ come accade negli organismi viventi. Altri eventi, invece, anche se non particolarmente spettacolari, hanno il potere di modificare seriamente il sistema, in certi casi di farlo esplodere.

Ad esempio, la lunga stagione del terrorismo, di destra e di sinistra, e i movimenti popolari e intellettuali degli anni ‘70 non furono capaci di modificare sensibilmente il sistema politico italiano, basato sulla centralità competitiva di DC e PSI e sul ruolo oppositivo-partecipativo del PCI. Invece alcuni avvisi di garanzia o denunce mandate da alcuni magistrati nei confronti di certi politici all’inizio degli anni ‘90 hanno avuto l’effetto di scardinare un sistema politico che era rimasto nel fondo invariato per oltre 40 anni. Ora, la TCC ci permette di rendere intelligibile – senza facilitatori – questo impatto in apparenza così strano di certi eventi sui sistemi. Ovvero, quali eventi distruggono un attrattore attorno a cui si disegna un sistema? Quale accadimento fa veramente evento storico?

 

Prendiamo come esempio la politica contro la criminalità. Per quello che in questo campo possano essere attendibili le statistiche[8], queste ci dicono che dal 1975 al 2005 c’è stato un aumento della criminalità in tutto l’Occidente.

          Sulla criminalità, da tempo si affrontano fondamentalmente due approcci. Uno, fatto proprio generalmente dalla sinistra, tende a misure soprattutto preventive: occorre rimuovere il più possibile i fattori che spingono al crimine, aiutando la gente esposta alla tentazione del delitto a trovare lavori legali decentemente remunerati, ecc. L’altro approccio, cavalcato generalmente dalla destra, punta sulla repressione – più polizia, pene più severe – come deterrente della criminalità.

Che cosa dicono gli studi sulle variazioni della criminalità in relazione a fattori diversi? La letteratura che analizza empiricamente i dati è oggi enorme. Molte ricerche considerano la criminalità in termini economici: come una scelta che implica guadagni e rischi, costi e ricavi. Eppure Ehrlich nel 1996[9] era giunto alla conclusione che, se sviluppiamo un’analisi di tipo socio-economico classica, non arriviamo a nessuna conclusione sicura. In linea generale possiamo dire che, effettivamente, la degradazione della situazione economica in un’area tende a far salire la criminalità, così come misure poliziesche più rigide tendono a farla scendere: ma questi fattori variano enormemente a seconda dei contesti. Ad esempio, in Gran Bretagna la criminalità negli anni ‘90 -  economicamente floridi – è stata molto più alta di quanto non lo fosse negli anni ‘30, all’epoca della Depressione. D’altro canto, la particolare severità del sistema repressivo in molti stati americani non toglie che il livello di criminalità in questi stati sia molto più elevato che in certi paesi europei, i quali hanno invece misure penali più blande.

          Insomma, le spiegazioni lineari non funzionano. Occorre ricorrere ad altri modelli. In particolare, dobbiamo vedere ogni comportamento singolo come influenzato dal comportamento degli altri: ogni realtà sociale è sempre interattiva. Questo significa che in una società dove già ci sono molti criminali, sarà molto più facile attrarre nuove leve alla criminalità; in una società dove invece tradizionalmente la criminalità è bassa, la degradazione economica porterà a un aumento solo marginale della criminalità (I giovani maschi dai 15 ai 25 anni, risultano, secondo quasi tutti gli studi, la popolazione più a rischio di criminalità.). Insomma, tutto dipende dal livello iniziale del sistema. Di conseguenza, un rafforzamento della repressione avrà effetti quantitativi molto diversi a seconda dei contesti. E’ come se il livello di criminalità in una popolazione dipendesse da alcuni punti critici: sopra un certo punto critico il regime di criminalità entra in un livello particolarmente alto, sotto questo punto critico il livello resterà comunque basso. Il guaio è che non si possono conoscere questi punti critici mediante osservazioni empiriche di tipo classico.

Ad esempio, dopo l’apparente successo della politica di Giuliani a New York – “tolleranza zero” – molti in Occidente hanno detto “facciamo come a New York: tolleranza zero”. Ma non è affatto detto che gli stessi effetti di New York si producano in altre città: dipende dalle soglie del sistema complesso, che è molto difficile conoscere in anticipo. Se la strategia Giuliani funzionò a New York (ma in tutti gli SU la criminalità diminuì negli anni ‘90) è perché prima delle sue misure questa criminalità era vicina a un punto critico: bastava un po’ di repressione in più, insomma, per “cambiare sistema”.

          Questi punti critici sono essenziali anche per render conto delle svolte nella stessa vita individuale, non meno complessa della società. A che punto un tossicomane si decide finalmente a intraprendere una disintossicazione, un impiegato a dimettersi e cambiare lavoro, un nevrotico a iniziare una psicoterapia, una coppia di lunga data a separarsi oppure, al contrario, a sposarsi e fare figli, ecc.? Una situazione statica, e magari penosa, durata per anni all’improvviso muta per un piccolo intervento. La goccia che fa traboccare il vaso.

 

La difficoltà che abbiamo tutti, chi più chi meno, a cogliere la complessità dei processi sociali e politici è dovuta in parte al fatto che l’attività politica visibile ha una forma lineare: atti governativi si succedono gli uni agli altri, un dibattito è innescato da un’affermazione a cui altri replicano, ecc. La storia degli eventi politici pare avere la struttura di un racconto lineare, come un lunghissimo racconto. Da qui discende la convinzione che la politica sia connessa all’economia in modo appunto lineare. Si dice che spesso un governo perde le elezioni quando la situazione economica del paese è mediocre, mentre tende a vincerle se l’economia del paese va bene. Questo dato riflette la credenza diffusa che un governo è responsabile in larga misura della situazione economica. Ma ogni economista serio sa che invece i cicli economici sfuggono in gran parte alla volontà degli esecutivi, sono effetti di fattori di una tale complessità che nessun governo ha la formula magica per controllarli (anche perché nessuna teoria economica tutt’oggi è veramente in grado di spiegare i cicli).

          Eppure l’illusione della corrispondenza tra programma politico ed effetti economici acceca anche persone tutt’altro che sprovvedute. Ad esempio, il mondo degli affari e di Wall Street parteggia tradizionalmente per i repubblicani americani: è convinto che la politica conservatrice porti a un aumento dei profitti delle aziende e quindi tonifichi la Borsa. All’inverso, si dà per scontato che i lavoratori dipendenti e a reddito fisso propendano per i democratici. Pochi gettano seri dubbi su queste equivalenze. Eppure, uno studio del 2005 della Merrill Lynch mostra che dal 1943 in poi la Borsa andava meglio quando c’era un democratico alla Casa Bianca: allora le Borse avevano una performance media annua del 13,6%, rispetto all’11,7% di quando alla presidenza c’era un repubblicano. All’inverso, il reddito fisso è andato molto meglio con le presidenze repubblicane (più 9,5% annuo) che non con quelle democratiche (solo più 2,8% annuo).

Alla fine degli anni ‘80 risultava che la società britannica – dominata dalla Thatcher – fosse molto più egualitaria della società italiana, ad esempio, che pure aveva avuto trent’anni di centrosinistra. Oggi la Cina, dominata da 65 anni da un partito comunista, ha uno sviluppo capitalistico più impetuoso di quello dell’India, la quale non è mai passata per un regime socialista e che è stata a lungo permeata dalla mentalità britannica.

          Ad esempio, è sostenibile che la corruzione diffusa in Italia a partire dagli anni ‘80, nei più svariati campi, sia stata un effetto a lungo termine dei movimenti e delle idee radicali degli anni ‘60 e ‘70. In effetti, questi movimenti non hanno portato alla Rivoluzione proletaria ma hanno prodotto comunque un effetto profondo: i valori “borghesi” della fedeltà allo stato, della probità, dell’accettare la propria condizione senza protestare, del rispetto per le regole e i potenti, dell’obbedienza timorata alle istituzioni, ecc., sono stati sistematicamente derisi e hanno cessato di essere il cemento della coesione sociale. “Obbedire non è più una virtù”, come scriveva don Milani, e questo significa – per il singolo che ha cessato di obbedire – che può arricchirsi illegalmente. In questo modo la corruzione, tradizionalmente limitata al Sud, è dilagata in tutto il paese. Ovviamente i filosofi e militanti marcusiani, guevaristi, castristi, maoisti, ecc., non avevano la corruzione dilagante come loro obiettivo politico ma, senza volerlo, hanno contribuito a crearla. Lo sbatter d’ali radical-utopistico può provocare altrove uragani morali.

          Tutto questo non per dire certo che le decisioni politiche siano irrilevanti: per dire piuttosto che esse di rado portano nella direzione voluta dagli attori politici.

 

 

6. Sono possibili i progetti politici?

 

Si dice: "Se il tale non avesse agito così, tutto questo male non sarebbe venuto". Ma con quale diritto [si dice così]? Chi conosce le leggi secondo cui si sviluppa la società? Sono convinto che anche l'essere più intelligente non ne ha la minima idea. Se lotti, lotti. Se speri, speri.

                          Ludwig Wittgenstein

 

          Chi sostiene le TCC non necessariamente vuole deludere l’ottimismo politico, o educativo, o economico, o terapeutico. Spesso anzi intende promuovere in politica nuove strategie basate sulla consapevolezza della complessità. Proprio perché ci siamo resi conto della complessità dei processi, pensiamo che una azione politica semplice – lo sbatter d’ali – se assestata al momento e nel posto giusto, possa essere amplificata dal sistema con effetti benefici ad ampio raggio.

          Per molto tempo la nostra cultura - fondamentalmente hegeliana, marxista o comtiana - ha deriso queste interpretazioni “accidentaliste” delle svolte storiche. Ciò che nella storia appare dovuto a contingenze – il talento militare di Napoleone, la tempestività di Lenin, la paranoia di Hitler, ecc. – veniva visto come la maschera di necessità storiche, che l’Astuzia della Ragione rende operative.  Invece, la prospettiva cao-complessista riabilita il ruolo determinante della contingenza e dell’evento nella storia. Giusto un aneddoto.

          Alexander Kerenskij, primo ministro liberale della Russia dall’agosto al novembre 1917, disse allo storico Trevor-Roper[10] che nel 1917 fu fatto fuori dai bolscevichi soltanto a causa di un contrattempo – per via di una persona che non avrebbe dovuto mancare a una riunione politica vitale, e che invece per un caso quella sera non venne. Un hegeliano ride di queste spiegazioni contingentiste. Invece, per la TCC il caso assume una nuova rilevanza. Se un gruppetto di rivoluzionari marginali – quali erano i bolscevichi ancora nel 1917 – ha conquistato in breve tempo uno dei paesi più importanti del mondo, con ogni probabilità ciò avvenne grazie a una serie unica di concomitanze che fecero scivolare la palla della storia in quella direzione piuttosto che in un’altra. Non fu così diverso, probabilmente, da quel che accadde all’aeroporto di Roissy a Parigi il 25 luglio del 2000: il Concorde si schiantò a terra al decollo – uccidendo 113 persone - non perché fosse in pessimo stato, ma perché sulla pista aerea si trovava per caso un martelletto. Questo provocò una catena del tutto unica di effetti che portarono, in pochi minuti, alla caduta del gioiello tecnologico. Analogamente, è concepibile che la socialdemocrazia russa nel 1917 perse per uno che una sera dette buca.

          La conseguenza, paradossale, di questo modo di vedere è che da una parte esso restituisce all’azione politica un rilievo che non aveva nelle visioni deterministe della storia; ma dall’altra getta dubbi sulle pretese della politica di incidere in modo progettuale e coerente sulla realtà. Una singola misura politica può deviare il corso della storia, ma come la farfalla non può affatto prevedere gli effetti del proprio volo, analogamente ogni azione politica non ha mai del tutto il controllo degli effetti “meteo” che produce. Ogni atto politico è un gioco al buio, come si dice al poker. Da qui il carattere radicalmente rischioso di ogni decisione politica: tra l’input politico e l’output storico... falls the shadow della complessità.

 

Il vantaggio di ogni strategia politica conservatrice – che tende cioè a mantenere gli equilibri esistenti – rispetto ai progetti riformatori più radicali consiste nel fatto che la prima pare avere un controllo maggiore dei secondi sugli effetti prodotti. Di solito, è più facile conservare che cambiare veramente: c’è un’inerzia omeostatica delle società. Talvolta non cambiare può essere molto costoso, altre volte invece il cambiamento comporta costi tali da risultare intollerabile. Ma il punto è che – per ragioni non ancora molto chiare – nelle società di solito il vero cambiamento risulta più raro della continuità e conservazione. Nelle democrazie liberali i tempi della politica sono molto corti – con un’elezione presidenziale, ogni quattro anni, tutto può cambiare negli USA – mentre i tempi del mutamento sociale restano molto più lenti.

          La relativa rarità del cambiamento sociale può essere connessa a una particolarità storica dell’evoluzione delle specie viventi, messa in rilievo dalla teoria degli equilibri punteggiati dei paleontologi Gould ed Eldredge[11]. Secondo questa, le specie animali di solito trascorrono periodi lunghissimi di stasi, a cui succedono periodi brevi e intensi di cambiamento, da cui viene fuori una nuova specie. Non è vero, come pensava il darwinismo prima maniera, che l’evoluzione della vita è continua, lenta, graduale: invece, a periodi lunghi di conservazione seguono periodi relativamente brevi di mutamento drammatico. Da notare però che gli stessi teorici degli equilibri punteggiati non sono in grado di dirci veramente perché l’evoluzione della vita è così discontinua.

          Ora, la TCC ci abitua a vedere i processi sociali e politici come parte della complessità della vita: biologia e storia umana, natura e cultura, non si oppongono. E se l’evoluzione delle società umane fosse simile all’evoluzione biologica? Ovvero, se a periodi lunghi di stasi subentrassero periodi brevi di grande cambiamento? Abbiamo esempi contrari di questo, certamente – ad esempio, la grande instabilità del sistema politico della Francia dal 1789 al 1870, o quella dei paesi balcanici fino a oggi. Ma sono eccezioni sul cui sfondo si profila la regola dell’omeostasi.

 

7. Opportunismo e bricolage

 

           Un corollario del modo di pensare cao-complessista è quello di farci perdere la fede nella convinzione ingenua secondo cui certe misure vanno bene sempre, comunque e dappertutto. Siccome ogni misura politica dipende dal contesto – quindi dal quando e dal dove – essa non va vista come absoluta, sciolta cioè da contesti e contingenze: l’importante è cogliere il kaíros, il momento opportuno, essere tempestivi. Del resto, molte leadership politiche istintivamente praticano un accorto opportunismo. Con questo termine indico non il cinismo del politicante che cerca di mantenersi a galla, ma il principio – disincantato, secolarizzato – secondo cui in ogni epoca e contesto una società esige certe misure pertinenti, al di là degli assoluti ideologici.

Ad esempio, oggi la teoria economica dominante prescrive che i prezzi siano stabili o con bassa inflazione, il budget nazionale in equilibrio, la concorrenza debba prevalere in tutti i mercati, soprattutto in quello del lavoro. E certo, di solito, è meglio avere la stabilità dei prezzi anziché un’alta inflazione, l’equilibrio budgetario anziché un forte deficit e indebitamento dello stato, la concorrenza anziché la rendita, l’apertura dei mercati anziché il protezionismo...  Di solito, ma non sempre e non ovunque: anche perché in varie fasi della storia di un paese bisogna preferire una condizione all’altra, non è detto che tutte queste ottimalità siano in armonia e convergenti[12].

Ad esempio, dal primo dopoguerra fino agli anni ‘80 chi ha governato l’Italia ha perseguito di fatto una politica di tipo socialista, anche se gli artefici erano dorotei o fanfaniani: sviluppo dell’IRI, dell’ENI, poi dell’ENEL, le dimensioni mastodontiche assunte dal Ministero delle Partecipazioni Statali (allora il maggiore imprenditore europeo), ecc. Questo massiccio intervento statale nell’economia e la costruzione del welfare state hanno accompagnato il boom economico dell’Italia degli anni ‘50 e ‘60. Poi, verso la fine degli anni ‘80 il vento è cambiato: le idee neoliberali hanno preso il sopravvento. Abbiamo così assistito a una sequela di privatizzazzioni, l’IRI è stata smantellata, ecc.

          Oggi poi si constata che in Italia – e un po’ in tutto l’Occidente – il pendolo, che negli anni ‘80 e ‘90 era scivolato verso il liberalismo (primato del mercato, del privato, dell’individuo absolutus, del liberismo) oggi, dopo il gomito del 2008, si sposta verso una nuova voglia di pubblico: crescente diffidenza nell’impresa privata, richiesta pressante allo stato come equilibratore, meno fiducia nell’imprenditoria.

Da almeno un secolo il pendolo del sentire pubblico predominante nelle società industriali avanzate oscilla ciclicamente. Le nostre società alternano fasi socialiste e fasi liberiste, disegnando così un attrattore non rigido.

Ma non bisogna credere che siccome cresce oggi nella società una domanda di stato – e di più eguaglianza in generale - contro le alee del “fai da te” questo significhi ipso facto un primato crescente di partiti e schieramenti di sinistra. Molto spesso, certe trasformazioni sociali vengono compiute da forze politiche che predicavano il contrario. Ad esempio, la Francia, anche quando è stata governata da forze liberali conservatrici, ha espresso quasi sempre un’economia mercantilista, colbertista, sostenuta fortemente dallo stato. Per non parlare dell’America di Bush Jr.: la guerra al terrorismo – come del resto ogni guerra – ha rafforzato lo stato e ha riconvertito la società verso valori pubblici, mentre Bush aveva fatto una campagna elettorale all’insegna dello slogan reaganiano “lo stato non è la soluzione, è il problema”.

          Si prenda la forma che prende l’alternativa oggi tra destra e sinistra: la prima in Occidente si distingue perché punta a diminuire le tasse e a liberalizzare il mercato, la seconda si identifica per il suo puntare a una maggiore sicurezza sociale per i ceti medi e bassi. Entrambe le esigenze sono fortemente presenti nelle nostre società. L’ideale sarebbe combinare le due cose, ma non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Di fatto, ogni società trova una forma di compromesso in modo da raggiungere la più alta fitness value possibile, un valore di adattatività ottimale.

Va spesa qualche parola sul concetto di fitness value. Le scienze dell’evoluzione oggi dicono che le “reti viventi” dipendono dalla loro capacità nell’equilibrare flessibilità e stabilità: un organismo non dovrebbe essere né troppo ordinato né troppo caotico. C’è troppo ordine quando funziona un solo attrattore: esso porta a un equilibrio troppo stabile, insomma alla morte della soggettività. Quando invece abbiamo un’infinità di attrattori instabili, c’è troppo caos: in questo caso il sistema fluttua senza sosta, dato che la minima perturbazione lo modifica. Le reti viventi che prosperano sono quelle che si accostano alla condizione detta “all’orlo del caos”: i loro parametri le portano verso la soglia del caos ma senza oltrepassarlo. I biologi chiamano questa ottimalità un’alta fitness value: quel che meglio permette a un organismo di prosperare e riprodursi.  “La vita emerge ed evolve sull’orlo del caos, in quella fluida area transizionale tra ordine e caos, nella quale un sistema rimane abbastanza stabile anche entro una forte dinamica destrutturante che lo trasforma in modo imprevedibile.”[13] Ora, anche i processi culturali e politici – essendo parte della dinamica del vivente – sono interpretabili secondo gli stessi criteri. Sistemi troppo ordinati sono quelli totalitari duri, come l’Albania di Enver Hodja oppure oggi quello della Corea del Nord: essendo sistemi poco flessibili, si scavano la fossa sotto i loro piedi (anche se finora la Corea comunista non si è affossata, perché i cinesi la difendono). Un sistema caotico invece è quello politico francese durante la Rivoluzione dal 1789 al 1797, o quello dell’Iraq dopo la caduta di Saddam: in questi paesi prevale il Terrore perché nulla è prevedibile, le autorità sono instabili e impotenti, tutto può accadere, l’angoscia sociale è massima.

Esemplare di questo è l’evoluzione della monarchia inglese paragonata a quella francese: la prima perdura ancora oggi, mentre la seconda da tempo è stata spazzata via. Le cause di questa differenza sono state molteplici e spesso congiunturali, ma è oggi riconosciuto che la monarchia francese aveva una fragilità che quella inglese non aveva: mentre la prima mirava a concentrare tutto il potere e la nobiltà attorno a sé – operando di fatto come un attrattore rigido – la seconda non ha compiuto questo accentramento, ha lasciato giocare flussi molteplici. Questo, secondo alcuni storici, è stato il fattore essenziale del grande sviluppo industriale dell’Inghilterra nel XVIII° secolo e dopo: i nobili, proprio perché non calamitati dalla reggia, hanno potuto dedicarsi ai loro possedimenti favorendo il loro sviluppo economico. Una situazione di questo tipo è stata evocata dal film Ridicule di Patrice Leconte (1996). Un nobile della provincia francese, dedito a migliorare scientificamente le condizioni di vita dei suoi soggetti, finisce alla corte di Versailles, in mezzo a nobili sfaccendati e assorbiti dalle logiche di corte.

Mi chiedo però se quel che vale per le monarchie non valga per l’organizzazione sociale in genere: mentre i paesi dell’Europa continentale (Francia, Germania, Spagna, Italia) hanno sperimentato sistemi socio-politici rigidi, e quindi fragili sui tempi più lunghi, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno sviluppato sistemi socio-politici molto più “strani” e quindi, in prospettiva, più stabili ed efficienti.

Le società occidentali più prospere non sono caotiche né rigide perché i vari attori – sinistra, destra, regionalismi, etnicismi, interessi di classe e corporativi, ecc. – trovano di volta in volta un modus vivendi. Ogni compromesso però non è mai definitivo, va sempre modificato, perché nel frattempo gli elementi del sistema sociale mutano. Ad esempio, cambia la composizione demografica della popolazione; e avvengono cambiamenti psicologici e culturali rilevanti da una generazione all’altra.

L’opportunismo non è solo la disponibilità delle forze al governo a fare politiche contrarie ai loro indirizzi “filosofici” di fondo. Esso porta ad abbandonare l’idea secondo cui ogni società tende sempre a una sorta di armonia tra ideologie politiche, assetto economico e Stimmung culturale. Il mutamento è sempre dinamico, genera continuamente conflitti, non punta a una stabile armonia.

Un approccio ispirato alla TCC ci porta, in effetti, non solo a liberarci dell’individualismo metodologico (come abbiamo già visto) ma anche di quello che viene evocato come suo opposto: l’olismo sociologico, ovvero una visione organicista e funzionalista della società. Un antico pregiudizio organicista ci porta a pensare che ogni elemento in un sistema sociale combaci, o tenda a combaciare, con gli altri elementi. Ma non è vero che in una società tutto si incastri bene (magari!); una società vista nel suo insieme ci appare invece come un bricolage sempre in progress. Ora, il concetto di bricolage è divenuto cruciale nella moderna biologia, anche se viene preferito il termine exaptation (esattazione) – in quanto distinta dalla classica adaptation darwiniana. Ogni organismo vivente non è come una mirabile costruzione ingegneristica, ma il risultato di un bricolage naturale: organi e funzioni vengono riadattate continuamente in contesti diversi da quelli per cui erano evoluti. Potremmo dire che ogni organismo “perverte” organi e funzioni che eredita, dandogli nuovi significati. Qualcosa di simile accade nelle società. Ad esempio, molti partiti occidentali portano ancora l’impronta delle loro ideologie originarie – socialiste, comuniste, iper-liberali, nazionaliste, anarchiche, confessionali, ecc. – tipiche di un’epoca passata: molti di questi partiti sono stati riadattati, exapted,  per svolgere funzioni diverse in un paesaggio politico che non è più quello di un tempo. Ovvero, le evoluzioni dei vari sotto-sistemi – giuridico, economico, politico, filosofico, artistico, morale, ecc. - non avvengono armonicamente in modo da disegnare un tutto coerente: i sotto-sistemi evolvono invece in larga parte in modo indipendente, in modo tale che tra loro si producono sempre discontinuità, faglie, asincronie. Non c’è quindi da meravigliarsi se uno sviluppo capitalista si accompagni a regimi totalitari, o se un sistema democratico blocchi lo sviluppo capitalistico (come mi pare sia accaduto per l’India per circa 50 anni), se una morale religiosa integralista si sposi a un boom del mercato (come avvenne nell’America britannica settecentesca), se un’estetica tradizionalista si imponga in un contesto di grande innovazione tecnologica (come fu per i pre-raffaelliti e il liberty nell’Inghilterra di fine Ottocento), ecc. Le varie forme di vita sociali godono insomma di un’autonomia relativa, per cui ogni forma tende ad adattarsi all’altra, ma non sempre è plasmata completamente dal contesto.

 

          La democrazia liberale non è un sistema che dà più spazio alla complessità rispetto ai sistemi totalitari: la elabora diversamente. Quando Karl Popper ha teorizzato la società aperta, di fatto ha prescritto quel che già da sempre esiste: ogni società è sempre, più o meno, aperta. E’ questo che permette a ogni società di ristrutturarsi dopo le crisi, di costruire insomma sempre ordini nuovi.  Ma, per quanto aperta, una società è quasi sempre neghentropica, ordinata, ovvero omeostatica – l’evento, portando entropia nella società, ne muta l’attrattore.

Tutti i sistemi sociali sono complessi, anche una tribù di melanesiani è molto complessa - il punto è quale di questi sistemi alla fine prevale. Ora, mentre nei sistemi autoritari e assolutistici viene a crearsi una discrasia tra il discorso ufficiale che risponde a una propria logica interna e la pratica diffusa nelle reti delle interazioni private (ad esempio, tra mercato ufficiale e mercato nero), nei sistemi democratici tra i due livelli c’è più osmosi: ma sia i sistemi totalitari che quelli democratici tendono all’omeostasi, ovvero a equilibri conservatori. A lungo andare, le democrazie occidentali possono risultare più stabili e per certi versi non meno ottuse dei sistemi assolutisti o totalitari. Se oggi molti preferiscono la democrazia agli altri sistemi, non è perché credano nella libera espressione delle masse: semplicemente perché la democrazia risulta più flessibile e dinamica, insomma ha una fitness value più alta. La democrazia pluralista su uno sfondo liberale punta su un’instabilità sui tempi corti che però sui tempi lunghi porta a una stabilità (cioè a un attrattore) più solida rispetto ai sistemi autoritari – insomma, essa assicura meglio la conservazione dei sistemi politici. In effetti, instabilità e conflittualità politiche hanno un costo alto, ogni società tende a evitarle. Così gli Stati Uniti non cambiano sistema da oltre due secoli, mentre l’URSS è durata solo 70 anni, il fascismo italiano 20 anni, e la dittatura di Saddam Hussein 24: insomma, comunismo, fascismo e dispotismo baathista assicurano una stabilità precaria, meno flessibile e meno adattabile alle sfide imposte dal contesto. Il che fa eco a certe tesi biologiche, per le quali non è vero che “sopravvive il più adatto” ma piuttosto “sopravvive il più plastico”.

          In questa prospettiva, un teorico della biologia, Stuart Kauffman[14], considera la democrazia rappresentativa una sorta di emergenza evolutiva naturale: essa ha un’alta fitness value in quanto garantisce eccellenti compromessi tra i diversi interessi e costrizioni conflittuali. La democrazia pluralista è il sistema politico dei paesi oggi più ricchi, potenti e prestigiosi (Cina a parte, il cui PIL pro capite è comunque ancora piuttosto basso) perché mantiene le nostre società sull’orlo del caos, senza però precipitarci dentro. Ma d’altro canto la democrazia a suffragio universale è una scoperta recentissima (di fatto si è affermata in alcuni paesi occidentali circa un secolo fa): è emersa nelle società umane così come una nuova specie, molto rapidamente, emerge nella fitta rete della vita terrestre. Le emergenze, nella vita come nelle società, sono di solito rapidissime.  

 

 

8. Cao-plessità e felicità

 

Allora, vedere i fatti del mondo in termini di caos e complessità è l’ultimo modo di liberarsi da ogni ideologia, da ogni facilitatore interpretativo? E’ il trionfo della scientificità oggettiva? Ma poi, è davvero possibile liberarsi di qualsiasi ideologia? Dopo tutto, anche le teorie del caos mirano a descrivere un ordine, “mascherato da caos”, ma questo ordine che emerge non è a sua volta un’interpretazione soggettiva? Non sono “ordine”, “disordine”, “fitness” termini irriducibilmente soggettivi, dato che qualcosa è in ordine o in disordine o adatto sempre e solo per un soggetto? La scienza non sarà mai oggettiva, sarà sempre antropomorfica: scommetterà sempre sull’ordine, perché è quello in cui possiamo vivere. Ma l’ordine non è mai perfetto: la vita introduce sempre disordine, instabilità, ovvero complessità, in un sistema. La vita è “una cascata di contingenze”, produce spontaneamente mutazioni. L’ordine vitale, insomma, è sempre più o meno instabile: la vita, producendo nuove contingenze, tende a scardinare anche l’ordine più stabile. D’altro canto ogni sistema vivente – quindi anche un sistema sociale – tende ad ammortizzare le perturbazioni (gli innesti di entropia) riconfermando una certa omeostasi. Conservazione e rivoluzione, ordine ed entropia, sono i due poli di uno stesso processo. 

          Omeostasi è la tendenza dei sistemi a rendere ordinati e prevedibili i processi. Ogni assetto sociale è una riduzione di complessità: imporre un ordine confortevole a partire da un disordine intollerabile. Ma i modi di semplificare possono diventare terribilmente complessi – basti pensare alla degenerazione burocratica, che affligge l’Italia in particolar modo.

Omeostasi sociale significa che la mattina so di trovare il solito autobus più o meno alla stessa ora e che si ferma allo stesso posto; che se denuncio un grosso furto ci sarà un giudice inquirente non corrotto a cercare il colpevole; che i prezzi dei prodotti che di solito compro non cambiano vertiginosamente da un giorno all’altro, ecc. L’omeostasi facilita la vita sociale perché la rende in larga parte prevedibile, così ognuno può pianificare propri progetti di vita. Eppure in ogni società, oltre alle forze che portano all’omeostasi, ci sono anche altre forze che puntano al cambiamento - e spesso per delle buone ragioni. In effetti, ogni omeostasi implica un costo: alcune persone o, comunque, una parte della nostra vita, paga un prezzo per questo ordine, e quindi aspira a cambiarlo o a scardinarlo. Critiche, lagnanze, proteste, denunce, campagne referendarie, crisi depressive, ecc. In altre parole, la vita, con tutte le sue varianti e differenze, introduce complessità nel sistema, rendendo operanti altri attrattori. Ma se il cambiamento va oltre un certo limite – verso il caos – la vita sociale diventa insopportabile e si reclama ordine, il contrario dell’entropia. In altre parole, quel che chiamiamo ordine è sempre una misura media tra due estremi: uno è quando il sistema si chiude eccessivamente, l’altro è quando esso si apre eccessivamente. In ambedue questi casi, la fitness value crolla. Ogni società tende a un ordine che stia tra il polo della rigidità ossessiva e quello dell’anarchia pura. Ogni sistema politico deve mantenere uno stato di fluidità che gli permetta di restare creativo: non deve essere troppo sub-critico (tendente a un’eccessiva stabilità) né troppo sovra-critico (tendente all’esplosione di forme). Insomma, deve restare sull’orlo del caos.

 

          Ma si dirà: la fitness value di un sistema ha a che fare con la felicità e la soddisfazione degli individui presi come singoli? Non è detto. Molta gente si sente meglio in un regime assolutistico, che esonera il singolo dalla fatica di pensare e di decidere. Inoltre la democrazia liberale, dando spazio a tutta una serie di perturbazioni, aggrava certi problemi. Ad esempio, si ricorda che l’Italia fascista era molto meno corrotta dell’Italia dagli anni ‘70 in poi; il fascismo aveva soffocato bene o male la mafia siciliana, che è tornata alla grande nel Dopoguerra. La democrazia liberale spesso esalta le sperequazioni, la criminalità economica e comune, accentua la competizione a tutti i livelli, scardina col tempo la coesione familiare. Ricordo che, dopo la caduta del regime comunista in Albania nel 1992, nel giro di poche settimane si compì una vistosa mutazione: tutte le finestre, soprattutto quelle a pianterreno e primo piano, si dotarono di solide inferriate. Prima non esistevano finestre con inferriate. La fine del totalitarismo esaltava l’iniziativa privata, anche quella dei ladri. Proprio perché la democrazia liberale lascia operare le perturbazioni, essa rischia di deludere soprattutto chi ha bisogno di sicurezza.

Se oggi comunque la democrazia ha conquistato certi paesi, è grazie a un’osservazione comparativa: i paesi più ricchi e potenti – Cina a parte - sono liberal-democratici. E’ stata questa la vera ragione del crollo del comunismo alla fine degli anni ‘80: era lampante agli occhi dei più che un operaio in un paese capitalista stava meglio di un operaio nel socialismo reale. Si è visto che indubbiamente il socialismo dava più eguaglianza, ma verso il basso: i più erano egualmente poveri. Perché il punto è questo: non sappiamo che cosa renda in fin dei conti gli esseri umani più o meno felici, del resto i criteri di felicità variano da persona a persona; ma ampi gruppi sociali interpretano il raggiungimento della felicità in certi modi, ragion per cui queste interpretazioni della felicità diventano forze politiche organizzate e potenti. In definitiva, la democrazia liberale prevale perché non opta definitivamente per un modello di felicità – attrattore rigido – ma dà regole e gioco al conflitto tra i vari modelli di felicità. Quel misto di democrazia, liberalismo e socialismo che sono le nostre società trasforma i conflitti in sport, li ludicizza. Fino a un certo punto però: criminalità e terrorismo non sono giochi.

 



[1] E. Lorenz, “Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set Off a Tornado in Texas?”, American Association for the Advancement of Science, 1979. Cfr. “On the Prevalence of Aperiodicity in Simple Systems” in Mgremela & Marsden eds., Global Analysis, New York, Springer, 1979. Per una rassegna divulgativa della ricerca sul caos, cfr. J. Gleich, Chaos, The Viking Press, New York 1987. Per la parte matematica, riprendo qui l’articolo di G. Bruno, “Caos: il linguaggio della natura”, Lettera Int., n.73/74 2002.

 

 

 

 

[2] N. Luhmann, Potere e complessità sociale, Il Saggiatore, Milano 1979.

 

[3] Cfr. S. Benvenuto, ”Mode culturali”, Il Cannocchiale. Rivista di studi filosofici, n. 3, settembre-dicembre 2002, pp. 35-72.

 

[4] Cfr. T. Veblen, The Theory of the Leisure Class, Prometheus Books, Amherst NY, 1998.

 

[5] Questo processo è stato matematicamente illustrato attraverso il classico “problema dell’urna” da: B. Arthur, Y. Ermoliev & Y. Kaniovski, “A Generalised Urn Problem and Its Applications”, Kibernetica, January-February 1983. Quanto alle applicazioni economiche di questo modello, cfr. A. Kirman, cap. in Arthur, Durlauf & Lane, The Economy as an Evolving Complex System II, Santa Fe Institute, Addison-Wesley 1997. P. Ormerod, Butterfly Economics, Pantheon Books 1998. Quanto alle sue applicazioni in psicologia sociale, rimando a: S. Benvenuto, “Caos e mode culturali”, Lettera Internazionale, n. 73-74, 3°-4° trimestre 2002, pp. 59-61.

 

[6] Rimando al mio "Beyond Left and Right", Telos, Ns 98-99, Winter 1993-Spring 1994, pp. 259-270.

 

[7] L. von Bertalanffy, Teoria generale dei sistemi, ISEDI, Milano 1971; G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976.

 

[8] Le statistiche si basano sulle denunce fatte, ma una parte considerevole dei crimini minori non viene denunciata. Un aumento dei tassi di criminalità può quindi significare semplicemente che le vittime denunciano più spesso i delitti; il che di per sé sarebbe un dato interessante.

 

[9] I. Ehrlich, “Crime, Punishment and the Market for Offences”, Journal of Economic Perspectives, vol. 10, 1, 1996, pp. 43-67.

 

[10] H. R. Trevor?Roper, "Le occasioni perdute della storia",  Lettera Internazionale, n. 21, estate 1989, pp. 3?4.

 

[11] N. Eldredge and S. J. Gould, “Punctuated equilibria: an alternative to phyletic gradualism”, In T. J. M. Schopf  (ed.), Models in Paleobiology. Freeman, San Francisco 1972, p. 82-115.

 

[12] Cfr. J.-P. Fitoussi, “La nouvelle politique économique”, Le Monde, 26 juin 2004, p. 1 & 20.

 

[13] T. Pievani, “The Contingent Subject. For a Radical Theory of Emergence in Developmental Processes”, Journal of European Psychoanalysis, 17, 2003, p. 43. http://www.psychomedia.it/jep/number17/pievani.htm

 

[14] S. Kauffman, Investigations, Oxford University Press, Oxford-New York 2000.

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