Flussi di Sergio Benvenuto

TRAMONTO DELLA SINISTRA ?07/lug/2016


 

La sinistra in Occidente pare abbastanza trasecolata in questo fin di millennio.  Tutti i cuori di sinistra  tranne alcune frange  staliniste  si sono sinceramente entusiasmati per il crollo dei totalitarismi comunisti. E se ne sono rallegrati anche perché  così hanno pensato  questo crollo avrebbe dovuto portare la sinistra occidentale a un nuovo splendore.  Finita l’ipoteca della guerra fredda, le masse popolari in Occidente non avrebbero avuto più bisogno di "votare per i conservatori turandosi il naso", per parafrasare Indro Montanelli, e avrebbero finalmente premiato la sinistra.  Del resto  pensano  il comunismo è fallito come tipo di soluzione da dare a certi problemi, ma questi problemi non sono spariti giusto perché si è discreditata la ricetta comunista: le povertà, le ineguaglianze persistono.

E invece pare che le cose non si mettano affatto così.  Le sinistre riformiste perdono colpi in Occidente, e in Oriente, quasi dappertutto.  Il che ha ispirato a molti una tesi plausibile: che il crollo del comunismo segni un declino generale della sinistra nel suo insieme.  Che infondo il destino della sinistra socialista e laica era segretamente legato, malgrado le apparenze contrarie, alla credibilità del comunismo.  Secondo una logica ancora oscura  che sfugge alla logica meramente razionalista di tanti politologi  le fortune della sinistra e quelle del comunismo risultano occultamente intrecciate.

 

Allo stesso tempo contempliamo l'ascesa impetuosa dei nazionalismi, regionalismi, confessionalismi, etnicismi, insomma di tutti i tribalismi, o particolarismi, in tutto il pianeta.  In Italia, la Lega Nord fa più che mai parlare di sé.  E ovunque sorgono partiti e movimenti xenofobi, razzisti, antiimmigranti, skinheads.  E' l'orgia degli irredentismi vernacolari, dei mini-nazionalismi autosegregativi, dei fondamentalismi separatisti.  Il mondo pare quasi avviato a libanizzarsi  oppure, come si torna a dire oggi, a balcanizzarsi.

 

La sinistra occidentale reagisce frastornata a questo boom dei particolarismi.  Spesso usa due pesi e due misure, simpatizzando per i particolarismi dei "più deboli", e condannando i particolarismi dei "più forti" (perché avere un cuore di sinistra, si sa, è Essere Dalla Parte Dei Più Deboli, Sempre). Una ardua casuistica del cuore, perché in realtà la debolezza o la forza dei particulari è relativa e dipende dai punti di vista.  Ad esempio, i riflessi condizionati del cuore di sinistra tendono a fargli abbracciare la causa croata e bosniaca, e a condannare l'imperialismo (sic) serbo.  Ma il guaio è che i Croati e i Bosniaci appaiono ai Serbi gli oppressori delle minoranze serbe che vivono in Croazia e in Bosnia, per cui l’esercito serbo, da questo punto di vista, difende in realtà i più deboli.  C'è sempre, per quanto infima, una qualche minoranza che resta  oppressa da una minoranza su scala più ampia, e così via asintoticamente.  Il cuore di sinistra rischia di infartuarsi nelle scatole cinesi dei particolarismi.

 

Indica tutto ciò un ritorno puro e semplice al fascismo nazionalista, all’oscurantismo dei revivalismi romantici, al Blut und Boden, insomma a una regressione anti-democratica al narcisismo etnico?  Le cose non stanno in modo così semplice.  Intanto, alcuni  di questi particolarismi si appropriano del vecchio linguaggio radical, neomarxista, terzomondista, franzfanoniano, di parte della sinistra: è il caso della ventata del pensiero politically correct negli Stati Uniti, dove all’universalismo occidentale si contrappone il ritorno alle Autonomie africane, femminili, ispaniche, pauperistiche, omosessuali, insomma a un relativismo culturale già propugnato dalle sinistre.  Quindi, anche ciò che resta del radicalismo degli anni 60 e 70 vira verso una apoteosi dei particolarismi.  Ma questi rinati particolarismi aggressivi di solito si accompagnano a una opzione democratica, vale a dire all'accettazione del gioco democratico così come ormai l'Occidente lo pratica: accettano il suffragio universale in un sistema multipartitico, la libertà di competere nel mercato, e una glasnost del pluralismo delle idee.  Indubbiamente l'area dei paesi entrati nel club delle democrazie liberali si è allargata in questi anni, in coincidenza però con il riflusso delle sinistre e con l’esplodere dei particolarismi.  La rivoluzione in URSS è in questa ottica paradigmatica: al successo delle forze democratiche (nel senso occidentale) corrisponde lo straripamento dei nazionalismi che hanno smembrato l’URSS.  Il quadro non è quindi descrivibile con qualche schema giacobino a portata di mano.

 

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Se un solo dio della Grecia antica fosse sopravvissuto, questo dio sarebbe stato Hermes: è il dio che ben rappresenta il nostro mondo secolarizzato.  Dio dei commerci, delle comunicazioni, di ciò che muta e si sposta, divinità degli scambi e  dei furti, della promiscuità, dei messaggi, e dell'effimero.  Non a caso in questi ultimi anni non si contano più libri e saggi che riguardano Hermes.  Questa valanga mercuriale ha però rimosso una dea che per i Greci era inscindibile da Hermes, e non meno di Hermes celebrata: Hestia, vale a dire il Focolare, sia della casa che della città.  I Romani la identificarono nella casta Vesta.  Hestia è l'inverso di Hermes: vergine, immobile, occupa il centro della casa o della polis, segna il luogo dove idealmente la casa o la polis si avvitano alla terra, cuore dell'oikos impenetrabile a chi è estraneo, recinto dell'intimità e della persistenza.  Pare proprio che la modernità, nel suo slancio hermetico che celebra la mutazione e lo scambio, abbia rigettato Hestia, ricacciandola nelle tenebre muliebri che essa proteggeva  le tenebre dell'oscurantismo, della conservazione, della regressione domestica.  Eppure, per i Greci, forse più saggi di noi, Hermes ed Hestia  il Trivio e il Focolare, per così dire  erano una coppia inscindibile.  Qualcosa che ricorda la complementarietà tra yin e yang nel pensiero taoista.  Ma, come vedremo, Hermes ed Hestia costituiscono una identità a due facce, come già fece osservare  J.-P. Vernant1.

Infatti, del mondo moderno ci piace vedere solo la faccia hermetica, il Trivio: l'universalizzazione degli scambi, l'accelerazione del progresso tecnico, la competitività che liquida chi non si adegua, la sdivinizzazione della vita, i trasporti sempre più rapidi.  Ma, come la luna, così anche il nostro mondo ha una faccia celata, una faccia Hestia: la ricerca regressiva delle origini, delle essenze, delle radici, dell'infanzia, dell'autenticità sorgiva, dell'Urgrund, delle ascendenze storiche.  Se l'Illuminismo ha rappresentato il versante luminoso dell'avanzare hermetico, il Romanticismo ha esaltato il versante tenebroso della fedeltà regrediente a Hestia.  E noi siamo i rampolli del Romanticismo non meno che dell'Illuminismo.  Così Hestia ci trattiene continuamente dalla nostra corsa hermetica  nella quale potremmo perderci definitivamente  attraverso le alcove domestiche della famiglia, delle clientele, della nazione, del sangue, degli orgogli dialettali, delle solidarietà locali e parentali.

Che l’Angelo (Hermes) e il Focolare (Hestia) non siano incompatibili è mostrato dal nostro stesso linguaggio: parliamo difatti di angelo del focolare.  I moderni particolarismi sono però piuttosto focolari dell'angelo: il cuore immobile del vortice hermetico.

Le nuove febbri nazionaliste ripropongono quindi la fedeltà al Focolare nel Trivio hermetico della Storia.

 

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Io non conosco bene la Bosnia, ma mi chiedo: In che cosa di così importante può mai consistere l'identità bosniaca musulmana  o la differenza bosniaca, se si vuole  fino al punto che la gente si  caccia in una guerra sanguinosa per affermarla?  Immagino che in Bosnia si consumino più o meno, ormai, gli stessi prodotti, culturali e materiali, che si vendono bene anche da noi, e un po' dappertutto in Occidente: vedranno Dallas e Jurassic Park, ascolteranno le canzoni di Madonna, correranno a vedere l'ultimo premio Oscar, molti sogneranno di vestirsi Versace, e useranno elettrodomestici giapponesi. Tutto più o meno come da noi, e come dappertutto.  Il quadro tragicomico dei nostri tempi è che una sottonazione programma una guerra di sterminio nei confronti di una sottonazione vicina che parla quasi la stessa lingua, in un' epoca in cui in tredici ore di volo si va da Belgrado a Los Angeles.  Da dove nasce tutta questa straordinaria importanza di essere bosniaci, o croati, o lituani, o baschi, o armeni, sloveni o ceceni -e negli Stati Uniti neri o ebrei, amerindi o ispanici- in un mondo su cui è passato lo schiacciasassi culturale dell'America e dei suoi sotto-prodotti cosmopolitici?

Credo che tutti quelli che rivendicano la loro identità nazionale, o etnica, o religiosa, la loro piccola marginale e irrilevante differenza  compreso l'essere lumbard, o valdostani, o veneti, o ladini, da noi  sappiano bene che viviamo in un pianeta ridotto ormai al villaggio globale profetizzato da MacLuhan, nel mondo omologato che disgustava tanto il povero Pasolini.  Hermes ha trasformato il pianeta stesso in una sola casa ecumenica, e che sogna l’America come proprio centro, vale a dire come propria Hestia promessa.  Un pianeta-casa omologato dai mass media e dai trasporti sempre più veloci; ma omologato anche nel senso che dappertutto vige la stessa regola hermetica, triviale, della competitività.  Grazie a questo processo descritto come "globalizzazione" del mondo  entriamo in un mondo dove ci saranno sempre meno zone selvagge, meno parchi umani salvaguardati, meno riserve per specie culturali in via di estinzione, meno santuari e focolari inaccessibili al dinamismo della Storia, che oggi è la Storia del mercato: tutti, dalla Cina alla California passando per l’Africa, siamo trascinati nella stessa danza di Hermes che agita il villaggio planetario.  Quella danza che si incarna per esempio nella sempre maggiore mobilità dei capitali internazionali  mobilità che in poche settimane ha fracassato l'Hestia giudiziosa dello SME (Serpente Monetaria Europeo), e le strategie ammortizzanti della Banche Centrali.  E questa danza è quella che l’Occidente ha imposto, pur essendo la peggiore delle danze - ad esclusione di tutte le altre, per dirla come Churchill: la danza della competizione universale, che premia solo chi è più.  Non solo chi è più ricco, come pensavano unilateralmente i marxisti, ma chi è più in qualsiasi cosa, in un regime la cui regola è la rivalità nello scambio: più colto, più intelligente, più dinamico, più bello, più traffichino, più creativo, more... La forza dell'Occidente e del Giappone è tutta qui: chi riesce non solo a produrre (anche intellettualmente), ma soprattutto a vendere qualcosa di migliore, cioè di più desiderabile da parte di altri, rispetto a quello che producono e vendono gli altri, sopravvive o prospera, chi resta indietro chiude, muore.  E non c'è altra via di mezzo.

 

In questo pianeta-villaggio della concorrenza globale, dove ognuno viene giudicato per quel che sa vendere, non c' è più rispetto per le identità di qualsiasi tipo, declassate a "idiozie del villaggio".  Vale solo ciò che può essere scambiato, non ciò che è.  Come in economia, ciò che può essere immensamente goduto da una sola persona, o gruppo, e non può essere scambiato nel trivio, non vale niente.  E una cosa è scambiabile  ha cioè valore sociale  solo se è migliore (e la cosa migliore è quella più desiderata) di un'altra.  Direi di più: una cosa ha valore quanto più rapidamente può essere scambiata, o "speculata" direbbe qualcuno.  Come dice Giulio Tremonti, "i capitali non circolano perché hanno valore, ma hanno valore perché circolano".  Rapidità di scambio e di circolazione è la regola fondamentale dell'hermetismo.

 

Perciò la filosofia dominante di questo fine secolo non è certo il marxismo, ma nemmeno il freudismo, il nietzschismo, l'esistenzialismo, o lo spiritualismo cristiano: è il darwinismo, nella sua versione novecentesca.  Questo neo-darwinismo decreta che tra due elementi concorrenti (individui o gruppi che siano) quello che meglio e più rapidamente si riproduce e vince il rivale prospererà, mentre quello che non si riproduce né batte il rivale sul tempo non darà frutti.  In altre parole, alla base della struttura, certo gerarchizzata, delle società moderne, c'è un presupposto schiettamente anarchico  quell'anarchia capitalistica di cui il germanico Marx aveva orrore, di cui ha orrore ogni spirito morale, ma che è l'etica profonda del neo-darwinismo moderno.  L’anarchia immorale e rapida del mercato.

 

Questa rivalità tra particulari per il neo-darwinismo è dovuta al fatto che ogni singolo, uomo o gruppo che sia, è portatore di una differenza, di solito casuale.  Ogni prole introduce delle mutazioni.  La prole promuove delle differenze per il solo fatto che il codice genetico non si trasmette mai come una perfetta copia conforme, mai come in una macchina Xerox: ci sono sempre errori di riproduzione, e queste discrepanze producono Storia, vale a dire producono una competizione illimitata tra "differenze".

 

Insomma, per uno spiacevole accidente biologico, gli individui non nascono tutti eguali.  La dichiarazione dei diritti dell’uomo, che ci garantisce la nostra eguaglianza alla nascita, si basa su un presupposto vistosamente falso.  Anche tra due gemelli omozigoti, uno nascerà un po' più aggressivo e l’altro un po' più mansueto, uno più spericolato e un altro più pavido, uno più bello e l'altro più brutto, ecc.  Contrariamente a quello che pensava il socialismo classico, è la Kultur, la civiltà, che cerca di eguagliare delle inammissibili diseguaglianze di nascita, molto più di quanto non sperequi un'eguaglianza di partenza.  Le differenze iniziali, "naturali", tendono a essere appianate da regole culturali comuni, che lavorano senza sosta per omologare la disparatezza (c'è qualcosa di socialista in ogni cultura, in quanto appunto cultura).  Un esempio: quando un cittadino compie 18 anni, in Italia diventa ipso facto maggiorenne; e questa omologazione avviene in dispregio al fatto che certi ragazzi in gamba sono maturi già a 14 anni, mentre altri resteranno attaccati alle gonne della mamma anche a 50.  All'hermetismo "naturale" di differenze liberamente in competizione, le culture elaborano focolarità comuni che se non altro omogenizzano e omologano gli individui, vale a dire "i differenti".  Questa omogenizzazione formale, che tratta ognuno come chiunque, viene chiamata "diritti civili" e "stato di diritto".

 

E' un fatto però che questo neo-darwinismo non ha portato a un inselvatichimento dei costumi, come ha sempre creduto (e denunciato) il socialismo: nella seconda metà del XX° secolo abbiamo assistito anzi a un addolcimento dell'etica dello stato.  Più rispetto della vita umana, mitigazione delle pene (declino della pena di morte, ad esempio, e dell’ergastolo), egualitarismo conviviale all'interno della famiglia, allargamento dell’assistenzialismo di stato, rifiuto crescente della violenza, culto pagano ed edonistico del corpo e del piacere, ecc.  Questo addolcimento (o decadimento, secondo i conservatori) dei costumi nel mondo capitalista avanzato contrasta del resto con le durezze, le spietatezze dei conflitti e della vita quotidiana nel terzo mondo, compreso quello "socialista". [(Quando nella primavera del 1992 pogrom a sfondo razziale hanno provocato una ventina di morti a Los Angeles, tutti i giornali del mondo hanno riportato i fatti allibiti, proprio perché quei disordini parevano portare improvvisamente nel cuore del benessere californiano la durezza spietata dei conflitti tribali ed etnici che fanno migliaia di morti, ogni giorno, nel terzo mondo.)]  L'hermetismo neo-darwiniano se da una parte esalta la conflittualità, dall'altra la canalizza e la imbriglia in regole "sportive" di competizione e di fair play, così come l'agonismo sportivo canalizza e civilizza l'aggressività scatenata degli individui.

 

Ora, in questo mondo inesorabilmente triviale, all'insegna della illimitata contrattazione hermetica, le identità trovano rifugio in alcune alcove o trincee.  Soprattutto nella famiglia, uno di quei (pochi) luoghi sociali in cui si è amati (od odiati) per ciò che si è, e non per ciò che si vale. Una madre ama  e magari odia  il figlio perché è il figlio, non perché è più  più bello o più intelligente.  In un mondo omogenizzato dalla concorrenzialità universale, nazionalismi e regionalismi salvaguardano una identità estrema, come un diritto di nascita inalienabile: è un'effusione allargata del focolare familiare, nel quale l'individuo trova affetto e protezione non per ciò che dà in cambio, ma per ciò che egli è.  In altre parole la famiglia, la tradizione autoctona, il gruppo di appartenenza, ci forniscono un'eredità da cui speriamo di trarre quel "più" che ci permetterebbe di giocare le nostre carte nel grande gioco transazionale e transizionale di Hermes2.

 

E' vero, il comunismo garantiva alcuni indubbi vantaggi ai più pigri, ai Pinocchi dell’umanità: nelle fabbriche e negli uffici i ritmi erano rilassati, la mancanza di competizione spingeva chiunque a risparmiarsi sul lavoro.  Ma il Paese dei Balocchi comunista aveva un prezzo: la penuria dei beni di consumo, l’inefficienza, il burocratismo paralizzante. (Anche nella Cuba di Castro gli oppositori più severi devono ammettere che "Castro distribuisce molto equamente la povertà".)  Anche in Occidente i ceti più deboli pensano sempre di più che la protezione statale abbia un prezzo troppo alto.  Così tutti siamo non solo costretti ad affrontare la dura legge della competizione, ma a desiderarla.  Chi vuol battere la fiacca, chi vuole imboscarsi in nicchie protette dalla competizione, cerca oggi ciò che fa per lui attraverso l’iniziativa individuale, non si sogna più di teorizzarlo "politicamente" per tutti.  E' il paradosso del pigro: non ha più senso manifestare, divertirsi a fare marce festose di protesta, deve sudare sette camicie per realizzare il suo sogno di pigrizia.  Il debole, il pantofolaro, chi non ha ambizioni professionali, l’incapace, il timido, anziché volgersi alla sinistra oggi si volge quindi al clientelismo, di cui la Gemeinschaft del nostro Mezzogiorno offre il modello: delega la grinta competitiva al boss, al notabile, allo zio influente, al ras politico locale, a un protettore a cui egli si affida.  Il clientelismo, alternativa alla narrazione emancipativa della sinistra, è una variante del ritorno protettivo a Hestia.

 

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La sinistra invece non ha simpatia per le eredità particolaristiche, per i Focolari, da giocare nel Trivio: in modo molto più ambizioso, vuole ridurre la competizione.  Essa  come del resto anche la destra conservatrice  ha orrore dell’agonismo hermetico, ma perché anela a una convivialità fusionale dove  Hermes pienamente potenziato si dissolverebbe nell’Hestia idilliaca di una comunità purificata miracolosamente da ogni rivalità.

 

Ora, la prosperità della sinistra  soprattutto di quella non comunista  si basava sulla convinzione tradeunionista secondo cui i lavoratori avevano tutto l’interesse a coalizzarsi per difendere i loro interessi.  In realtà gli sviluppi della società post-industriale - o meglio, iper-industriale  hanno mostrato che la coerenza degli interessi di tutti i lavoratori è un ideale, non una realtà.  Se l’azienda in cui lavoro prospera, io operaio aumento il salario, e magari faccio anche assumere mio figlio nella mia azienda, ma l’operaio del concorrente finisce disoccupato.  Nemmeno i lavoratori sfuggono alla regola della concorrenza, che è regola fondamentale della democrazia.

 

La crisi delle grandi Unions   e il sorgere di corporativismi, di leghe autonome di categoria, equivalenti professionali dei particolarismi nazionalistici  è il frutto non di fatali errori dei leader sindacali, ma dell’allargarsi della democrazia in Occidente, vale a dire del radicalizzarsi delle regole competitive.  La legge implacabile dell’agon non si ferma più, come per incanto, di fronte ai cancelli delle fabbriche e alle periferie operaie.  La solidarietà di classe rischia quindi di essere una mera cornice edficante, uno slogan vuoto, in un mondo che  socialisti compresi  ha accettato la ferrea legge neo-darwiniana della competizione.

 

Del resto, se il solidarismo è un mero ideale, una nostalgia da Vestale per chi è debole come me, la variante solidarista offerta dalla Chiesa rischia di prevalere sul solidarismo delle sinistre: la Chiesa basa la sua predica fraternizzante su valori focolaristici precisi e non ambigui, a differenza della sinistra essa evoca le appartenenze secolari alla Terra e alla Storia.

 

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Ora la sinistra certo resiste all’hermetismo capitalistico più crudo, ma essa non consola né aiuta facendo appello a un'Hestia che si sottragga al gioco della competizione totale.  La sinistra è essa stessa internazionalista, cosmopolitica, insomma triviale: l’Hestia che rivendica è puramente utopica  una società finalmente giusta dove tutti siano più eguali, o diseguali solo giustamente.  Del resto, questa indecisione della sinistra si esprime in una teoria a mio avviso erronea dell’essenza della democrazia.

 

In effetti la sinistra stenta a capire che la democrazia politica non è altro che l’equivalente, sulla faccia politica, delle regole del mercato sulla faccia economica.  Non lo ha capito, a dire il vero, anche perché lo sviluppo della democrazia in Europa e in America ha avuto vicissitudini storiche arzigogolate, non lineari: il liberalismo borghese ottocentesco infatti non era sempre democratico; perciò fu la pressione del socialismo a determinare il passaggio al suffragio universale, oltre che alla scolarizzazione universale.  Prosperò poi nel nostro secolo la teoria leninista, secondo cui il liberalismo e il mercato avevano vocazione a distruggere se stessi: l’Occidente capitalista, secondo il leninismo, passava dalla concorrenza ai monopoli, dalle democrazie elettorali ai fascismi totalitari.  E questo slittamento, secondo il leninismo, era irreversibile.  (La storia ha mostrato invece che il comunismo è slittato presto verso il totalitarismo, certo più del capitalismo).

 

La teoria leninista dell’imperialismo ha accecato intere generazioni intellettuali su questa evidenza: che cioè il capitalismo moderno funziona escludendo il partito unico, il monopolio economico, e il dogmatismo intellettuale.  In altre parole, il capitalismo moderno, oggi trionfante, ha come regola la concorrenza mercantile su tutti i piani (politico, economico, e culturale): più partiti in competizione, più aziende in competizione (da qui le leggi anti-trust), più idee e teorie discusse nelle controversie.  Vince il partito che in un modo o nell’altro accaparra più voti, prevale l’azienda che vende prodotti migliori a più basso costo, prevalgono le teorie che conquistano le cattedre universitarie, che colonizzano giornali e mass media, che condizionano le case editrici.  Prevale insomma chi soddisfa  o illude di soddisfare  di più i desideri dei più.

 

(Non a caso, nel paese dove la forma democratica si è concretizzata nel modo più risoluto, vale a dire negli Stati Uniti, i partiti in lizza sono rimasti sempre solo due: come a tennis, bastano due concorrenti perché il gioco possa funzionare.  Almeno due partiti sono necessari perché la democrazia funzioni, ma per un principio di "politica ragion sufficiente" i due partiti necessari proprio per questo sono più che mai sufficienti.)

 

Invece la sinistra è radicata in un presupposto: che la democrazia politica è insufficiente, che essa è solo il primo passo verso una democrazia più completa, definita come sociale ed economica.  Per la sinistra lo slancio hermetico del capitalismo industriale è il primo movimento di un percorso che riporterà all’Hestia dell’eguaglianza non competitiva.  E' bene che tutti abbiano eguale diritto al voto, ma questo diritto è per la sinistra solo la prima tappa per appianare le sperequazioni tra ricchi e poveri.  Ora, penso che questo modo di interpretare sia fallace.

La democrazia è il versante politico del liberalismo economico e intellettuale: l’eguaglianza dei diritti non è una compensazione alle ineguaglianze, ma un generatore di ineguaglianze. Come R. Dahrendorf spiegò mirabilmente3, l’eguaglianza di fronte alla legge  a qualsiasi legge  non ha l’effetto di appianare le differenze tra i cittadini, ma al contrario di crearle.  Ogni legge, o regola, o standard, proprio perché vale per tutti, ha l’effetto automatico di distribuire gli individui in modo ineguale rispetto a questa legge, regola, o standard.  La Legge trasforma le differenze cardinali iniziali in diseguaglianze ordinali.  Questo perché ogni legge o regola preferisce alcuni tratti umani piuttosto che altri, e quindi premia prima o poi chi è più ricco di questi tratti.  Mi pare che il culto, in questi anni, del pensiero di Tocqueville tenda a premiarlo proprio per ciò che Tocqueville non ha capito: vale a dire che la democrazia non produce più eguaglianza ma, lasciata a se stessa, genera ineguaglianze (anche se diverse dalle ineguaglianze generate in un sistema non democratico).

 

In altre parole, la società liberal-democratica funziona non diversamente da una gara sportiva: anche in una gara tutti i concorrenti partono su un piano di parità, tutti sono sottoposti alle stesse regole, ma questa parità serve appunto a che, alla fine della gara, essi non siano più eguali, bensì disposti in una graduatoria.  La società moderna è "progressiva" perché produce continuamente differenze, sfasature, dislivelli, ineguaglianze, squilibri, non a dispetto delle parità giuridiche, come ha pensato eternamente la sinistra, ma grazie allo sfruttamento regolato delle parità giuridiche.  Per usare i termini di C. Lévi-Strauss, possiamo dire che la società liberal-democratica moderna è una macchina dinamica, come le macchine termodinamiche, che produce differenze di potenziale; contrariamente alle società arcaiche, le quali più o meno funzionano come macchine omeostatiche, tendono cioè a stabilire equilibri e non differenze.  L’ineguaglianza è il motore del progresso  ragion per cui volere il progresso e puntare su più eguaglianza è di fatto una richiesta contraddittoria.

 

Basti un solo esempio tra le migliaia che si potrebbero portare.  Nei Parlamenti dei paesi europei a regime comunista le donne deputate erano numerose, talvolta erano la metà dell’assemblea; quando invece si è passato a eleggere i Parlamenti negli stessi paesi, con il sistema multipartitico, la percentuale delle elette è drasticamente diminuita, nemmeno le donne hanno votato per le candidate.  Questo significa che l’autoritarismo burocratico egualitario occultava una differenza che la democrazia pluralista ha manifestato, vale a dire che oggi le donne sono svantaggiate (qualunque ne siano le ragioni) nella competizione per occupare posti politici prestigiosi.  Anche qui la democrazia ha portato più ineguaglianza, non meno.

Lo stesso LéviStrauss4, per esemplificare la differenza tra i due tipi di società, portava l’esempio di una popolazione della Nuova Guinea, che aveva imparato il gioco del calcio dagli Occidentali.  Ebbene, i loro "campionati" consistevano nel far giocare le due tribù antagoniste finche' esse non raggiungevano il pareggio.  Il contrario delle gare come si svolgono da noi, che partono dal pareggio per giungere invece a determinare un vincitore e un perdente.

 

Del resto, le masse occidentali adorano lo sport competitivo, oltre alle canzoni e ai film popolari: la passione per lo sport indica che la forma di vita delle masse, e non solo occidentali, ha interiorizzato la regola triviale della macchina liberal-democratica.

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L'obiezione classica della critica di sinistra alla meritocrazia è che il merito non è una qualità obiettiva, ma prodotto della società di classe.  Nel ‘68 e dintorni i critici di sinistra della scuola  da don Milani a Bourdieu e Passeron  fecero epoca mostrando, statistiche alla mano, che solo una piccola minoranza di figli di operai e contadini accede all’istruzione superiore, la quale resta appannaggio dei ceti privilegiati.  La meritocrazia sarebbe una "ideologia" nel senso marxiano, "falsa coscienza": ciò che essa prende per merito obiettivo è una eredità di classe.  Perciò la mobilità sociale ascendente per mezzo dell’istruzione risulta essere un fenomeno del tutto marginale.

 

In effetti, la competizione sociale è tra diseguali.  Parrebbe che invece nello sport la competizione sia regolata in modo che si rivaleggi tra omologhi  ad esempio, uomini e donne non concorrono tra loro.  Comunque, l’omologazione non può mai essere assoluta nemmeno nello sport per una ragione alquanto ovvia: che occorre pure che qualcuno vinca, che cioè si dimostri non così "eguale" come pareva.  A rigore, si può sempre contestare qualsiasi gara denunciando qualche vantaggio insospettato di chi vince.  Ad esempio, si può accusare  chi vince la corsa di avere le gambe più lunghe degli altri.  Ma usciamo dalla metafora sportiva.

 

Il "migliore" che darwinianamente prevale di solito è migliore non per qualità strettamente congenite: egli prevale spesso perché sa investire, mettere a frutto, la propria eredità culturale, che gli proviene per lo più dalla famiglia, dal piccolo gruppo che lo ha formato.  Il figlio di un business man sarà avvantaggiato negli affari, il figlio di un filosofo sarà meglio avviato al filosofare; ma siccome nella nostra società gli affari solitamente danno più vantaggi della filosofia, il figlio del filosofo risulterà svantaggiato.  Si sa che chi fa il mestiere dei genitori  chi resta nella propria Hestia  ha il trivio spianato rispetto a chi sceglie un mestiere del tutto diverso da quello dei genitori.  L’eredità monetaria non è che un aspetto  uno tra tanti  delle eredità che il gruppo a cui apparteniamo ci trasmette; l’eredità connessa alla nostra Hestia originaria.  La sinistra pecca qui di hermetismo utopistico quando pensa che sia possibile una società dove sia premiato unicamente il merito individuale, dove non ci sia alcuna ereditarietà di vantaggi sociali: il sogno di una società di merito puro, espresso da individui avulsi dalla storia e dalle tradizioni, si basa su una petitio principii astratta.  La competizione sociale non è mai solo tra individui isolati, ma anche e sempre tra Focolari, tra tradizioni e lignaggi culturali.  Qui certa ermeneutica filosofica, con la sua insistenza sul ruolo della Tradizione come strutturante la modernità, ha contribuito a dissolvere le illusioni razionaliste della sinistra critica.

 

Il guaio è che non tutti i Focolari, non tutte le tradizioni, sono egualmente valorizzati dalla società nel suo insieme.  Il Focolare islamico, ad esempio, trasmette ai suoi rampolli virtù e valori (forte senso di appartenenza al gruppo, orgoglio, ribrezzo per l’alcool, fervore mistico, disponibilità al martirio) che nel Medioevo andavano benissimo  e difatti la civiltà dell’Islam fu allora la civiltà predominante  ma che oggi evidentemente non sono le virtù e i valori della democrazia mercantile; difatti oggi i paesi islamici non ce la fanno a decollare.  Alcuni preferiscono l’orgoglio della jihad alla modestia della contrattazione da trivio.  Le classi sociali sono quindi la trascrizione, nei termini secolarizzati dell’oggi, delle sfasature temporali (Ungleichzeitigkeiten) tra tradizioni ed eredità culturali: sono la proiezione, sulla tavola ordinale dei redditi e dei privilegi sociali, della complessità delle nostre società, in cui convivono e competono tradizioni ed hestiai diverse, che riscuotono nel grande Trivio ricompense e sanzioni del tutto ineguali.

 

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Detto questo, sorge presto una difficoltà decisiva: il gioco sconfinato della competizione porta inevitabilmente a escludere masse cospicue dalla competizione stessa, a eliminarle insomma dal mercato delle idee e delle merci; e persino da quello elettorale: quote crescenti di persone si rifiutano di votare, e si tratta per lo più degli elettori più culturalmente sprovveduti.  E' il grande paradosso del liberismo puro: che alla fin fine la sola libertà che rimaneva a molti era solo quella di morire di fame.  Il liberismo puro tende insomma a divorare se stesso  e da questa constatazione fiorì la teoria di Lenin sulla tendenza irreversibile verso i monopoli imperialistici.  Questo paradosso del liberalismo è stato denunciato da sempre dalle sinistre, e ha dato a queste ultime credibilità logica e morale nel corso di questo secolo.  Si è corso ai ripari con l’ascesa del welfare state, che garantisce ai perdenti nella competizione non solo la sussistenza, ma il continuare a godere di una libertà minimale.  In effetti, il welfare è denunciato talvolta dai conservatori come un ostacolo al libero gioco della democrazia mercantile, ma esso può essere interpretato come un sotterfugio per rendere possibile a tutti di continuare a partecipare alla gara.  Lo scopo proclamato del welfare non è difatti quello di mantenere una parte della popolazione in un mero stato di sopravvivenza saprofitica, è piuttosto quello di aiutarla a reinserirsi nel mondo della competizione ("Aiutiamo la gente non a essere parassiti della comunità, ma a reinserirsi nella vita produttiva").

E' quindi erroneo pensare che il welfare state, e altre forme di assistenza di stato, limitino il mercato, o addirittura lo neghino.  Per molti versi lo stato assistenziale tende al contrario a inserire nel gioco hermetico mercantile emarginati, poveri scioperati, incapaci improduttivi, handicappati fisici e sociali.  In fondo la marginalità, i vernacoli poveri, il Lumpen che vive alla giornata, sono forme di vita che hanno anche i loro vantaggi, persino  Pasolini docet  la loro poesia, una loro paradossale e tragica felicità.  Ora, sia la sinistra che la destra non tollerano queste oasi di emarginazioni, squallide o commoventi, che sfuggono alla legge triviale della competizione democratica e mercantile; la sinistra come la destra hanno accettato, entrambe, la vocazione hermetica della modernità.  Così la vera opposizione alla forma di vita dominante non è di sinistra e nemmeno di destra: è in tutte le forme di ritorno a Hestia, che vanno dai verdi fino alle sub-culture marginali e localistiche, come baschi e catalani in Spagna, lombardi e veneti nel Nord Italia, ecc.

 

Se la forza della sinistra è consistita sempre nel denunciare il paradosso del liberalismo, l’azione della sinistra però a sua volta è rimasta vincolata a un paradosso.  Nell’intento di aiutare i più deboli, la sinistra è portata, anche inconsapevolmente, a bloccare la concorrenza democratica, vale a dire a limitare la libertà del mercato  ad esempio, a limitare o negare la meritocrazia.  Essa tende a bloccare, in tutto o in parte, gli automatismi di sperequazione della democrazia mercantile attraverso la leva della burocrazia di stato.  E' qui dove il comunismo totalitario e la sinistra democratica trovano il loro piano comune: nell’appello ad autorità meta-mercantili e meta-concorrenziali per compensare gli effetti squilibranti del mercato.  La burocrazia predominava in URSS come in Svezia.  La sola differenza  certo non secondaria  è che in URSS questa burocrazia deteneva tutto il potere, mentre in Svezia essa era controllata dalla maggioranza.  Ma è una pura coincidenza che il socialismo sovietico e quello svedese siano crollati praticamente nello stesso anno?  Ciò non toglie che le burocrazie egualitarie, nel loro sforzo di diminuire le differenze, debbano far leva su meccanismi illiberali.  Tra i tantissimi esempi che si potrebbero portare, ne scelgo uno.

 

In America da tempo i liberals hanno promosso la cosiddetta Affirmative Action, vale a dire alcuni meccanismi che avvantaggiano le minoranze più deboli, come Neri e Ispanici.  Il guaio è che questi meccanismi acutizzano spesso il conflitto razziale ed etnico.  Ad esempio, l’affirmative action costringe ad assumere in molti casi  Neri ed Ispanici, anche se sulla base dei test attitudinali alcuni Bianchi li superano obiettivamente.  In altre parole, la regola "sportiva" delle differenze ordinali  che è la regola, come abbiamo detto, anche della democrazia e del mercato  viene messa da parte, almeno parzialmente, per favorire alcuni gruppi deboli.  Il risultato è che il Bianco che è stato scartato a favore del Nero, pure essendo a pari merito con lui, si sentirà lui discriminato e danneggiato.  Quindi i conflitti razziali ed etnici coinvolgono sempre gli strati medio-bassi della popolazione, perché tra questi strati il correttivo burocratico si fa sentire drammaticamente; il conflitto insomma dilaga proprio tra quegli strati a cui la sinistra fa appello come al proprio supporto preferenziale.  Come nei conflitti nazionali, anche nei conflitti tra etnie la sinistra ha poco da dire: la sua programmatica difesa dei più deboli si trova disarmata quando il conflitto è proprio tra i più deboli.  Essa anzi "non crede" mai davvero nel conflitto tra i più deboli: vi vede sempre dietro fili tirati dai più forti.  Ma è una paranoia storiografica credere che dietro i conflitti tra deboli ci siano sempre le trame dei forti.

 

Il risultato è che sia il liberismo puro che la sinistra pura affermano strategie che, per ragioni opposte, mettono in questione la democrazia mercantile: il paradosso delle azioni democratiche è che esse, se portate fino in fondo, finiscono col negare la democrazia.  Il liberismo puro, lasciando che il più forte prevalga sempre, rischia di togliere ogni libertà ai più deboli; la sinistra, proteggendo il più debole contro il più forte, finisce con il limitare burocraticamente la libera iniziativa degli agenti più forti, producendo però in prospettiva un danno anche per i più deboli (questo perché i più forti sono anche i più creativi e dinamici, quindi i più capaci di accrescere il benessere generale battendo la concorrenza).  In questo senso, per i critici da destra della filosofia di sinistra, il comunismo non è stato altro che la tragica caricatura della ideologia di sinistra: la difesa dei più deboli dalle leggi del mercato attraverso dispositivi  burocratici.

 

Si tratta di una doppia contraddizione strutturale, probabilmente irrisolvibile una volta per tutte; da essa discende probabilmente quella oscillazione cronica tra governo delle sinistre e governo delle destre che ha caratterizzato la storia politica dell’Occidente democratico nel nostro secolo.  Con il New Deal e il keynesismo prima, poi con le grandi riforme liberal degli anni 60, il pendolo oscillò a favore della sinistra; negli anni 20, e poi negli anni 80 con l’affermarsi del reagan-thatcherismo, il pendolo è oscillato a favore della destra.  La ciclicità rivela il fatto che, almeno fino a ora, né la sinistra né la destra hanno trovato la formula definitiva per uscire dal paradosso complementare.  Un paradosso che è allo stesso tempo una tensione produttiva, hermetica, creatrice di differenze di potenziale.  Generatrice permanente di conflitti, di dibattiti, ma proprio per questo della straordinaria vitalità dell’Occidente.

 

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E se l’oscillazione oggi cessasse?  Se insomma la crisi della sinistra fosse definitiva?  Ma allora, la crisi storica della sinistra non produrrebbe automaticamente lo svuotarsi anche della destra, dato che sinistra e destra sono posizioni complementari?  Forse, come ripetono da tempo alcuni teorici più audaci, dobbiamo essere pronti non a passare dalla sinistra alla destra, o viceversa, ma ad abbandonare il criterio della distinzione sinistra/destra come criterio pertinente per capire il mondo, la storia, e per elaborare i nostri programmi politici.  Per usare i termini di T.S. Kuhn, dovrebbe cambiare radicalmente il nostro paradigma politico.

E difatti la maggioranza dei partiti, di sinistra centro o destra che siano, tendono a eliminare poco a poco aggettivi che rievochino origini o blasoni storici, riducendosi a essere unicamente, e semplicemente, "partiti democratici".  Il PDS (partito democratico della sinistra) italiano è l’ultimo esempio che abbiamo di questa tendenza.  Il socialismo, il cristianesimo, la repubblica, la monarchia, il fascismo, il lavoro, la patria: tutto questo tende a essere scaricato dai partiti, a cui rimane la sola qualifica, alquanto neutra, di "democratici".

Ma altri teorici di sinistra  come Massimo Cacciari in Italia, ad esempio  fanno notare che la democrazia è solo una forma, non un contenuto.  La democrazia, nel senso moderno, è una regola del gioco, non determina direttamente i desideri né le passioni dei partecipanti al gioco: essa ci impone semplicemente di far prevalere un partito, una azienda, una teoria, attraverso un processo di competizione regolata, dove la massa dei consumatori (di programmi politici, di prodotti materiali, di idee) decide.  La democrazia non ci dice se dobbiamo costruire burro o cannoni, se dobbiamo sterminare una minoranza etnica o proteggerla a ogni costo: ci dice solo che qualunque decisione in merito deve esser presa secondo le procedure "sportive" della competizione, e che la maggioranza vince.  La democrazia è ideologicamente minimalista, anche se i partiti si sforzano di massimizzarne i contenuti, per dare polpa e spessore passionale, significato insomma, alla loro scarna identità: il loro essere, in fin dei conti, delle pure creature della regola democratica.

 

C' è chi profetizza un declino dei partiti ideologici in democrazia, e la loro sostituzione con gruppi in concorrenza per la mera gestione del potere.  E' pur vero però che persino nella competizione sportiva elementi hermetici ed elementi focolaristici tendono comunque a combinarsi.  Ad esempio, nei campionati di calcio le squadre prendono i colori delle Hestiai locali.  Se un napoletano tifa per il Napoli, anche se vi giocano Argentini, è perché l’Hestia campanilista, penetrando l’agonismo puramente hermetico, dà succo e sapore, spessore sentimentale, alla rivalità; le ideologie rendono più divertente la competizione allo stadio, o nel trivio.  Analogamente, sarà sempre conveniente per un gruppo in competizione per il potere richiamarsi a Focolari ideali  Cristianesimo, Islam, Socialismo, Liberalismo, Patriottismo, ecc.  per poter drenare un certo tasso di consenso passionale, anche se di fatto le politiche messe in opera da questo gruppo in competizione hanno un legame sempre più lasco e indiretto con la bandiera ideologica.  Ma le bandiere sono utili per mobilitare il tifo, e masse plaudenti che si accalcano ai festival partitici.  L’alternativa sarebbe solo il capo carismatico, che alla bandiera ideale sostituisce il suo fascino personale; in questo caso il modello sportivo sarebbe l’agonismo individuale, come nella boxe.

 

C' è persino da stupirsi che intellettuali sofisticati e smaliziati ancora oggi, in Italia e altrove, scrivano libri e articoli sulle "ragioni della sinistra", sulla "rifondazione della sinistra", sul "progetto della sinistra", ecc.  Perché tutta questa corsa ansiosa a farsi mallevadori della eterna Sinistra, la quale, come del resto la Destra, presenta invece connotati sempre più sbiaditi e nebulosi?  Il sospetto è che tutti questi intellettuali si facciano Salvatori della Sinistra per essere accettati dagli apparati politici, per i quali la polarità destra/sinistra deve avere ancora senso.  Invece questa polarità ha sempre meno senso, credo, per la gente comune, per chi non è politico di mestiere. (Dirsi di sinistra è un po' come il dirsi cattolici da parte della stragrande maggioranza degli italiani  anche se tanti di loro abortiscono, usano anti-concezionali, e si sposano civilmente.)  Lo vediamo, in tutta la sua plasticità, quando un popolo è chiamato a decidere su questioni veramente importanti; lo abbiamo ben visto in occasione del referendum francese su Maastricht nel settembre scorso: la frattura tra chi era per il "si" e chi era per il "no" attraversava trasversalmente la sinistra come la destra, insomma, i vecchi discrimini risultavano del tutto irrilevanti rispetto all’opzione in questione.

 

La ragione di questa sfasatura è che in democrazia le ideologie passano ma i partiti restano.  Essi restano perché sono delle aziende che cercano di mantenere le proprie quote di mercato politico e possibilmente di espanderle  anche quando la loro ideologia costitutiva ha perso ogni credibilità, e va quindi cambiata.  La macchina democratica genera una legione di professionisti della politica, i quali devono quindi pur continuare a mangiare e a fare carriera, anche quando il programma della azienda-partito è stato del tutto screditato.  E difatti oggi, nel 1992, che cosa dei grandi programmi dei partiti socialisti e comunisti degli anni 50 è rimasto in piedi?  Ben poco, ma i partiti socialisti e comunisti (magari con nomi o vessilli diversi) restano, perché sono perpetuati dalla regola del gioco.

 

Proprio perché ormai la matrice ideologica originaria si è stinta fino all’illeggibilità, è interesse dei grandi apparati politici, occupati prima di tutto a sopravvivere, a rendersi ancora riconoscibili sulla piazza grazie a grandi dicotomie grezze, facilmente memorizzabili, come appunto l’opposizione sinistra/destra, oppure cristiani/miscredenti.  Queste opposizioni non hanno più riscontro nella complessità dei problemi, ma in compenso assecondano la pigrizia mentale dei consumatori di servizi politici, che nella polarità sinistra/destra possono ancora trovare una bussola familiare, un modo rozzo  benché mistificante  di identificare le differenze.  Proprio perché le ideologie si sono stemperate nei reticoli della complessità sociale, resta importante in Europa  rivestire le maschere stilizzate della sinistra, del centro e della destra.  E così intellettuali e filosofi  per usufruire della  protezione, dei favori, e della complicità degli apparati  si sbracciano cercando di dare a questa identità puramente segnaletica (sinistra versus destra) un avallo razionale, un fondamento intellettuale, una rispettabilità scientifica.  Eppure non è il conflitto tra una visione del mondo di destra e una di sinistra a perpetuare le aziende partitiche, ma al contrario il conflitto tra aziende politiche motiva certi intellettuali a imbottire di visioni del mondo il gioco meramente strutturale della democrazia politica.

 

Alcuni, come  Cacciari, criticano il pentimento di gran parte della sinistra, il suo arretramento arrendevole su posizioni liberal-democratiche   in altre parole, la sparizione pura e semplice della sinistra "laica".  Ma non sapendo più quali contenuti o programmi darle in alternativa, Cacciari e altri preferiscono agitare davanti agli occhi razionalistici e liberal le sconce divinità che riemergono nel mondo: i particolarismi, i nazionalismi, i razzismi.  "L’ideologia dominante nel mondo laico  dice Cacciari  afferma che basteranno le bonae artes della tecnica, del mercato e dello scambio politico a salvarci da quegli Dei"5.  Ma l’idea che i nuovi Dei  o i vecchi Dei riemersi oggi alla luce del sole  siano in contrapposizione con gli Dei della democrazia hermetica e capitalista è un presupposto che qui abbiamo risolutamente criticato.

 

E' vero che le artes del mondo mercantile sono regole del gioco, più che contenuti ideologici: sono il presupposto hermetico di conflitti e contrattazioni che possono vedere come attori valori focolaristici, lugubri essenzialismi, culti ancestrali della terra e del sangue.  La democrazia insomma organizza la convivenza e la competizione tra fascismi  anche se la regola di convivenza e di competizione finisce, prima o poi, con il raddolcire e alla fin fine snaturare questi fascismi (le sorti del MSI e del PCI in Italia lo dimostrano bene: a furia di adattarsi alle regole democratiche, hanno finito col dover rinunciare al fascismo e al comunismo; la regola ha corrotto i contenuti).  Il ritorno degli antichi Dei  come li chiama Cacciari  non minaccia a morte il mondo democratico-mercantile: è un ritorno resosi necessario per la radicalizzazione hermetica della competizione. (Quando parlo della democrazia come convivenza tra fascismi, intendo convivenza tra "valori". Del resto l’Occidente capitalista  come ci garantiscono i sondaggi  si considera ancora fondamentalmente cristiano.  La democrazia prescrive solo che quando gli dei arcaici sono in competizione, occorre scegliere il dio che abbia più numeri dalla parte propria.)

 

Comunque, le tesi qui sostenute da me, sullo svanire della rilevanza dell’opposizione sinistra/destra, vengono spesso scambiate per teorie tecnocratiche, bestie nere ormai di ciò che resta di un pensiero di sinistra.  Tutto ciò che ho detto finora non implica la convinzione che la soluzione di tutti i problemi sia nella contrattazione competitiva nel Trivio.  Sono d' accordo con i reduci della sinistra che è impossibile una società aperta  nel senso di Popper  priva di ideologie, vale a dire di Focolari.  Ma appunto, come abbiamo detto, una cosa è l’ideologia tecnocratica, altra cosa è la pratica effettiva della democrazia mercantile, che costringe lo Sturm und Drang dei Focolari e particolarismi a imboccare la via incruenta della competizione regolata.  E' vero che l’idealità tecnocratica, con l’asettica puntigliosità delle sue regolazioni, non è capace di assorbire le divinità tenebrose della Terra e del Sangue.  Ciò che dico è diverso: dico che se certamente la competizione nella democrazia mercantile è ancora tra opzioni etiche, non è vero che queste opzioni etiche siano riconducibili all’asse oppositivo sinistra/destra.  Lo si è ben visto con la guerra del Golfo del 1991, dove sia la destra che la sinistra si sono divise al loro interno, attorno alla questione della ammissibilità morale o meno della guerra; perché in questo caso si trattava di una profonda opzione etica, che in quanto tale sfugge alla vecchia dicotomia sinistra/destra.

 

Ma questa verità espressa dai teorici di sinistra  che i tecnocrati non possono sostituirsi al dibattito delle ideologie   rischia di essere comunque suicidaria per la sinistra: è vero che la democrazia mercantile  mette a confronto le divinità tenebrose di cui sopra, ma da questo confronto rischia di essere spazzata via proprio la dea malinconica della sinistra, in quanto appunto non abbastanza radicale e radicata, non abbastanza tenebrosa.

 

La sinistra quindi riesce a sopravvivere solo in due maniere.  Una è quella di rinunciare a qualsiasi contenuto forte, distintivo, identificante, e a fare semplicemente appello a una storia comune dei "compagni", a una Hestia solidale attorno a cui si ritrovano i reduci.  "Essere di sinistra" tende allora sempre più a ridursi a una sorta di appartenenza etnica: i veneti sono cattolici, i romagnoli sono rossi, nel senso che l’essere cattolico è una qualità secondaria dell’esser veneti, e l’esser rossi è una qualità secondaria dell’esser romagnoli.  Anche chi ormai pensa da conservatore spesso si auto-include nella famiglia della sinistra così come tanti Ebrei, ad esempio, si definiscono tali anche se sono completamente atei.

 

Un'altra tecnica di sopravvivenza della sinistra è quella, a cui abbiamo già accennato, di porsi a difesa degli etnicismi, di sviluppare il relativismo culturale (che decenni fa era una tipica ideologia di estrema destra), di farsi portavoce della Negritudine, dell’Islamismo umiliato, degli immigrati, dei diritti calpestati dei gays, ecc.  In America soprattutto il nuovo radicalism dei campus più chic rilancia una neo-sinistra che ha rinunciato alla sua escatologia hermetica, al sogno di una riconciliazione finale del Focolare e del Trivio, e che si fa cassa di risonanza di tutti i particolarismi sfavoriti.

 

Come si vede, le due declinazioni  ridurre la sinistra a una appartenenza etnica, o ridurre la sinistra a una difesa delle appartenenze etniche  hanno in comune la rinuncia all’escatologia hermetica, vale a dire al sogno universalista e cosmopolitico della sinistra generata dall’Illuminismo.  Abbandonando al pensiero liberale la gestione della regolazione hermetica del mondo moderno  insomma il potere effettivo  la sinistra cerca oggi di salvare il salvabile riservandosi le marche marginali e minoritarie delle hestiai particolariste.

 

Alcuni, come Norberto Bobbio ad esempio, dicono che fin quando ci saranno uomini che vorranno più eguaglianza, ci sarà una sinistra.  (Ma la richiesta di più eguaglianza è già una razionalizzazione: nel fondo del cuore c'è l’istinto di schierarsi con i più deboli, chiunque essi siano.)  Tutti possiamo concordare sul fatto che il tratto fisiognomico della sinistra è questo bisogno di maggiore eguaglianza, ma il dramma attuale è che questo ideale, tradotto in pratica, si perde per strada.  Innanzitutto perché, come abbiamo visto, entra continuamente in tensione con l’esigenza di libertà, che pure è importante per i cuori di sinistra; poi perché più eguaglianza rischia di essere percepita come più ingiustizia, in quanto chi fa meno pare ricevere quanto chi fa di più; e poi perché più eguaglianza rischia di rendere il sistema più povero, da qui la prospettiva "castrista" di "distribuire equamente la povertà".  La sinistra è in crisi non perché siano superati i suoi ideali, ma perché è superata l’idea per cui una pratica politica discende da certi ideali.  Scivolando dalle idee alla pratica, si cambia registro.

 

Dopo tutto, càpita alla sinistra quello che è capitato alla politica cristiana.  Oggi alcuni partiti di ispirazione cristiana governano paesi importanti, ma possiamo dire con sicurezza che le politiche intraprese da Kohl o da Andreotti sono specificamente cristiane?  I princìpi cristiani sono sufficienti, anzi necessari, per render conto delle scelte politiche concrete delle Democrazie Cristiane?  Credo che la risposta generale sia negativa, che, malgrado i tentativi di papa Woytila di formulare un preciso programma politico cristiano, non ci sia oggi una chiara specificità politica cristiana.  Dal precetto evangelico dell’offrire l’altra guancia, fino alle politiche NATO della D.C., c'è un lungo opaco percorso.  Perciò alla sinistra accadrà lo stesso ambiguo "declino" degli ideali cristiani: la sinistra non sta affatto sparendo come ideale  quello di cui Bobbio e altri si fanno portavoce  sta sparendo come politica identificabile e riconoscibile come tale.

 

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1. J.P. Vernant, Mito e pensiero presso i Greci, Einaudi 1978.

 

2.     Ad esempio, gli studiosi sono stati colpiti dal fatto che, in tutti i sondaggi degli anni 80 tra i giovani europei, "la fedeltà" emerge come uno dei valori fondamentali, o come il più fondamentale, per loro. Il che ha spinto molti a diagnosticare, in modo frettoloso, un ritorno a comportamenti sessuali conservatori, ad un nuovo puritanesimo  il che non risulta. In realtà i giovani si appellano alla fedeltà perché sanno, attraverso il messaggio che ricevono dagli adulti, che il mondo in cui vivranno sarà governato dalla legge implacabile della competizione, e del rinnovamento continuo: per farvi fronte, la solidarietà familiare, e quindi la fedeltà nella coppia, diventa un requisito essenziale per spuntarla. La liberalizzazione dei costumi sessuali, di fatto, allarga enormemente la competizione nella vita affettiva, vanificando le sicurezze e le esclusive. Il liberamorismo della sinistra  ispirato a Freud, a Reich, a Marcuse, o al surrealismo  ha di fatto hermetizzato la vita intima. Il richiamo alla fedeltà mi pare avere allora il significato propiziatorio di difendere almeno l’ambito privato dal dilagare della competizione, e quindi dell’insicurezza. Proprio perché si accetta la realtà spietata del mondo secolarizzato, regolata dalla concorrenza, ci si prepara alla lotta serrando le fila, costituendo all’interno focolari e alcove di fedeltà, di coesione, e di radicamento: la famiglia nucleare, il gruppo etnico, lo staterello autonomo.

 

3. Cfr. R. Dahrendorf, "On the Origin of Inequality among Men", Essays in the Theory of Society, Stanford University Press, 1968, pp. 15178.

 

4. C. LéviStrauss, Il pensiero selvaggio, Il Saggiatore, Milano 1964, p. 43.

 

5. M. Cacciari, intervistato da C. Formenti, "I dubbi dei cattolici, la fede dei postcomunisti", Corriere della Sera 7, 26 ottobre 1991, pp. 1521.

 

6. Cfr. J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1982.

 

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