Flussi di Sergio Benvenuto

Felicità per la scienza lugubre (2013)06/lug/2016


  1. 1.    L’economia del piacere

          Attualmente gli studi interdisciplinari sulla felicità vedono come protagonisti soprattutto economisti.  Nel 20° secolo l’economia si voleva pura analisi del valore di scambio, non del valore d’uso. Ovvero, gli economisti si interessavano solo alle “preferenze rivelate” da parte dei compratori attraverso lo scambio mercantile, non alle ragioni fondamentali delle preferenze. Gli economisti si dovevano occupare solo dei mezzi per raggiungere i fini ultimi, i quali secondo la filosofia utilitarista egemone in economia –  di D. Hume e J.Bentham – sono il piacere, la felicità, la soddisfazione, il benessere di ciascun soggetto (tutti questi termini tendono a essere considerati sinonimi, o quasi, dall’utilitarismo). Il principio sancito dalla Costituzione americana – che ciascuno ha il diritto di perseguire la propria felicità – pur essendo ispirato all’utilitarismo è una tautologia per l’utilitarista, perché per essenza l’essere umano non può far altro che cercare di essere felice o il meno infelice possibile. Mirare alla non-felicità o all’infelicità non è cosa umana per l’utilitarista. Questo scopo – perseguire la felicità - invece è del tutto ammissibile per coloro che chiamerò anti-eudaimonologi (da eudaimonia, felicità), dato che per loro l’essere umano non è un ricercatore di felicità ma piuttosto un forzato del godimento.

L’utilità per l’utilitarismo sono le sensazioni soggettive che, al di là dei nomi e delle sfumature che ogni cultura elabora, costituiscono i piaceri nella vita. Proprio questo auto-limitarsi dell’economia politica allo scambio trascurando i piaceri le ha attirato l’epiteto di “scienza lugubre” (dismal science) datole da Thomas Carlyle.

          Da qualche decennio, la scienza lugubre - esaltata dai propri scacchi teorici e pratici - vuole investire sempre più i fini (i piaceri nella vita) oltre che i mezzi (gli scambi), a rischio di mutare la propria natura come disciplina. In questo allargamento di orizzonte non c’è da temere un imperialismo della logica dell’homo oeconomicus? Questa logica economica, prima limitata alla dimensione del comprare-vendere, oggi dilagherebbe anche nella sfera dei fini? Così non si fa una faccenda di calcolo economico persino del senso delle nostre vite? Qui cercherò di valutare il nocciolo filosofico di questo scivolamento in economia.

 

  1. 2.    Tabelle della felicità

Quindi, oggi molti economisti si chiedono perché compriamo qualcosa piuttosto che un’altra, e che cosa dovremmo comprare per stare meglio. Certo una ragione essenziale del successo di queste ricerche è il fatto che tanti professori desiderano vendere ai politici quella che chiamano Evidence Based Politics: se si scoprisse ciò che rende la gente globalmente più felice, si potrebbe fornire al politico una ricetta efficace per massimizzare la soddisfazione dei suoi elettori - e quindi la sua rielezione. Aumentando la Felicità Nazionale Lorda, la politica uscirebbe dalle alee delle ideologie e diventerebbe una tecnocrazia della felicità, le società verrebbero rette da esperti ‘eudaimonocrati’.

Così, accanto alle classifiche dei paesi per PIL si affiancano classifiche per “qualità della vita”, per “benessere nazionale”, ecc. Sono diffuse carte della felicità paese per paese; la tabella qui sotto correla il tasso di felicità al reddito nazionale pro capite di ciascun paese. Ovviamente ci si chiede se una carta del genere abbia senso, e se ne abbia uno scientifico. Mette essa in relazione qualcosa di reale?

 

In effetti, questa carta è effetto di un modo di calcolo della felicità quanto mai semplicistico: si chiede agli individui del campione: “Quanto, da 1 a 3, lei si considera felice?” In effetti, così si ottiene quel che la gente dice sul proprio grado di felicità, non quanto la gente sia realmente felice o infelice. Ma gli economisti di solito sono formati alla filosofia empirista, per la quale quel che io sento equivale ipso facto a quel che io sono; e dà per scontato che l’altro dica veramente quel che sente. Essere felici è un sentirsi tali, o meglio, credere di essere tali, così come essere innamorati è un sentirsi innamorati. Se sono prigioniero ad Auschwitz e rispondo “sono abbastanza felice”, nessuno ha diritto di dirmi “ma no, devi essere infelice in un Lager nazista!” Primo Levi (1958) descrisse anche “una buona giornata” ad Auschwitz. La questione dell’essenza della felicità viene schivata assumendo che qualsiasi soggetto, quando dice “sono felice 3” o “sono infelice 1”, sappia sempre di che cosa stia parlando. Per l’empirismo utilitarista apparenza ed essenza nell’essere umano coincidono.

Questa metafisica utilitarista bandisce ogni relativismo culturale: il concetto di felicità sarebbe identico in tutte le culture. Così l’utilitarista ha difficoltà a spiegare, ad esempio, perché i francesi si descrivano in media come più infelici degli americani, anche se gli indicatori di ‘qualità della vita’ sono più alti per la Francia che per gli USA. Evidentemente ciò è dovuto al fatto che dirsi felice per un americano è un dovere narcisistico più importante che per un francese; quest’ultimo ha in parte assorbito la visione di Baudelaire e dei poeti maudits per i quali la felicità è cosa del volgo. Termini come ‘felicità’ o consimili hanno significati diversi a seconda delle culture; e soprattutto varia il valore che ogni cultura dà al progetto della felicità. Queste differenze potrebbero spiegare perché gli abitanti della Nigeria e della Tanzania si dichiarino più felici degli abitanti del Giappone e della Finlandia. (Nel 2012: la Nigeria ha un PNL pro capite di $ 2.720; la Tanzania di $ 1.567; il Giappone di $ 36.266, la Finlandia di $ 36.395. Dati FMI).

          Anche se filosoficamente rozze, queste ricerche comunque fanno emergere alcune correlazioni interessanti. Si prenda la tabella della connessione tra felicità e reddito nazionale che abbiamo qui proposto. Colpisce che i paesi in diagonale, da sinistra in basso verso l’alto a destra, siano tutti paesi di cultura ebraico-cristiana e occidentali: segno quindi che in questi paesi il reddito e il dirsi felici sono due fattori strettamente legati, a differenza di altri paesi. Invece, l’età di una persona non è un fattore significativo per pronosticare il dirsi felici o meno di una persona, lo sono invece il lavoro e l’amore: uomini e donne single e disoccupati, anche se benestanti, si dichiarano più infelici degli altri. La condizione cruciale per accettare la propria esistenza è, per la maggioranza, quasi dappertutto, lavorare ed essere amati da qualcuno.

La eudaimonologia ha pensato di aver fatto una scoperta epocale nel 1974, quando fu formulato il “paradosso di Easterlin”. Secondo questo:

-           All’interno di un singolo paese, si nota una debole correlazione tra reddito e felicità

-           I paesi più ricchi non sono necessariamente i più felici

-           La variazione di felicità delle persone sembra dipendere molto poco dalle variazioni di reddito e ricchezza

Negli ultimi 40 anni, nei paesi più industrializzati il PNL pro capite è aumentato molto, senza che aumentasse nel frattempo il livello medio di felicità riportato dai singoli. Analogamente, dal 1994 al 2005 non si riscontra alcun aumento della felicità tra i cinesi, anche se nello stesso periodo il reddito pro capite è aumentato in Cina del 150%. Il cliché “il danaro non dà la felicità” sembra confermato. Gli eudaimonologi – di solito di tendenza liberal – dimenticano però spesso di far notare che anche l’aumento enorme sia della spesa pubblica che del tempo libero, nella seconda metà del Novecento, non ha prodotto variazioni sensibili nel tasso di felicità. Da notare che questo ‘paradosso’, secondo cui l’economia della felicità non è correlata all’economia propriamente detta, non è percepito dagli specialisti come scoperta dell’ombrello, ma come una grande conquista della scienza economica applicata alla felicità.

D’altro canto, ricerche recenti - ispirate da vocazioni socialdemocratiche – intendono mostrare che esiste invece una correlazione tra minore eguaglianza economica di un paese e suo maggior malessere. Wilkinson & Pickett (2009) mostrano che paesi ricchi ma meno egualitari (innanzitutto USA, poi UK, Australia, Nuova Zelanda, Israele) registrano minor salute mentale e maggior uso di droghe, più corta speranza di vita, più obesità, meno rendimento scolastico, più gravidanze in adolescenza e fuori della coppia stabile, più violenza, più incarcerazioni e punizioni, minore mobilità sociale, rispetto a paesi più egualitari (come il Giappone e i paesi scandinavi). Morale: tutti, anche i ricchi, sono danneggiati dalle disuguaglianze.

Il paradosso è nel fatto che gli eudaimonologi di solito sono di centro-sinistra, eppure i dati spesso danno malignamente supporto a una visione paternalista conservatrice. Ad esempio, risulta che una vita familiare stabile, soprattutto se sanzionata dal vincolo matrimoniale (Oswald 2004) e una fede religiosa contribuiscono di molto alla felicità, mentre il divorzio la diminuisce.

 

  1. 3.    Utilitaristi, eudaimonisti, anti-eudaimonisti

Il dibattito sia tra economisti che tra ‘psicologi dell’economia’ si è focalizzato tra due approcci rivali.

Uno, utilitarista, trova in Daniel Kahneman (Nobel per l’economia 2002) uno dei suoi rappresentanti più prestigiosi.  In questa prospettiva cognitivista la felicità è sempre quel che io sento al presente, e che può essere misurata sia con domande esplicite (come “ti è piaciuto ora il concerto che hai appena sentito?”) sia magari attraverso una risonanza magnetica funzionale del cervello per verificare le attivazioni dei centri cerebrali della felicità.

L’altro approccio, eudaimonista, trova in Amartya Sen (Nobel per l’economia 1998) il suo maggior rappresentante, e si rifà piuttosto al concetto aristotelico di eudaimonia. Questo criterio non è più correlato al presente-presenza di ogni vissuto individuale, ma a quel che Sen chiama capabilities, ovvero alla possibilità o potere che ciascuno ha di poter fare cose soddisfacenti o ‘realizzarsi’. Se sono prigioniero ad Auschwitz posso anche dirmi “sono felice!”; ma le mie capabilities sono estremamente limitate. L’eudaimonismo è una economia dal volto umano che parte da questo dubbio:  “Se le persone in regimi totalitari e dispotici si dichiarassero più felici che in società libere e tolleranti, dovremmo allora concludere che le prime società sono migliori delle seconde?” La risposta eudaimonista è no. Non possiamo considerare felice una società di schiavi felici. Gli eudaimonisti vorrebbero insomma ristabilire una certa moralità della felicità, renderla socialmente congruente e condivisibile. Così la loro scommessa consiste nel dire che l’economia è stata finora individualista, mentre occorre che essa diventi intersoggettivista, relazionale. Il termine relazionale - che dà il senso profondo del famoso relativismo - gode oggi di uno straordinario favore nell’intellighentzia occidentale. E difatti si insiste sull’importanza dei ‘beni relazionali’: l’amicizia, i rapporti di buon vicinato, l’empatia reciproca, ecc.

C’è poi un terzo approccio ben descritto dal titolo di un articolo di Paul Ormerod (2007): Against Happiness. Esso intende demolire l’eudaimonologia: “Spesa pubblica, tempo libero, criminalità, diseguaglianza di genere, diseguaglianze di reddito – nessuna di queste cose sono in qualche modo correlate con misure di felicità nel corso del tempo […] Così si potrebbe concludere sia che il tentativo di migliorare la condizione umana attraverso politiche sociali ed economiche è futile, sia che i dati non ci dicono nulla di valido.”

Analogo disprezzo per il dibattito sulla “società felice” anima i pensatori ispirati dai Cultural Studies e dal post-strutturalismo (detti anche “post-moderni”). Il concetto stesso di happiness viene screditato come ‘ideologico’ in senso marxista, in quanto si identificherebbe all’acquisizione o possesso di beni materiali o immateriali (potere, prestigio, amore, verità, ecc.). Per questa nebulosa culturale quel che conta non è happiness (riportata sempre in inglese) ma jouissance (riportata spesso in francese). Il paradigma dell’”uomo di godimento” è l’eroe che gode nel battersi per la sua Causa, da non confondere con ‘le cause’ della felicità nel senso dell’utilitarismo. Che Guevara, ad esempio, andando a farsi ammazzare in Bolivia, evidentemente non perseguiva un ideale di happiness, ma la sua Causa, il godimento della lotta. Al fondo delle filosofie post-moderne c’è un certo disprezzo aristocratico per “i beni per le masse”. Alcuni eudaimonologi dicono “la felicità è guadagnare 100 dollari di più del proprio cognato”, il che conferma la pessima opinione che gli anti-felicitari hanno dell’”economia della felicità”: che questa calcola non il godimento (quel che conta) ma tutt’al più i tassi di invidia circolante in una comunità. Per i post-moderni, invece, il modello umano non è il mio vicino di casa che aspira a guadagnare 100 dollari in più, ma gli eroi, come Gandhi o Aung San Suu Kyi; costoro non cercano la felicità, godono o muoiono.

 

  1. 4.    Troppi “progetti di felicità”

          In sostanza, gli approcci sia utilitarista che eudaimonista partono da un presupposto non detto e non interrogato: che le felicità (provate o progettate) individuali e quelle collettive siano congruenti e omogenee. Per queste teorie una società migliore sarà una società in cui la media delle persone saranno più felici che in altre società. Ovvero, la felicità sarebbe indipendente dai contrastanti progetti di vita buona. Eppure sappiamo che tra i cittadini di un paese non c’è consenso sui criteri sia collettivi che individuali di felicità o di “vita buona”. Questa divergenza di progetti di felicità, di cercare di ‘vivere bene’, è sempre rimossa dallo spazio analitico degli eudaimonologi; i quali quindi, inconsapevolmente, adottano un’immagine totalitaria della società, come nazione senza conflitti sul senso che ciascuno dà alle proprie vite. Si dà per scontato che il benessere della società sia commensurabile ai benesseri individuali, e che le ragioni essenziali per essere felici o infelici siano per tutti le stesse. Queste ricerche – anche quando fanno appello a concetti aristotelici o fenomenologici – scotomizzano l’incommensurabilità tra i criteri di felicità degli individui, discordanza che è alla base dei conflitti politici ed etici nel mondo. Ciascun essere umano si batte con altri contro altri per imporre loro, con la persuasione o con la forza, il proprio progetto di felicità.

          Quanto agli anti-eudaimonologi, essi ripetono senza posa che l’ideale di felicità è un’illusione. Eppure è un dato che la maggior parte delle persone nel mondo, quando  interrogate, si dicano felici. Crede all’infelicità come condizione umana di fondo solo una élite che chiamerei dandy; per essa pensare la felicità come impossibile è un segno di distinzione sociale. Insistendo sul fatto che il raggiungimento della felicità è un’illusione, il dandy anti-eudaimonologo ignora però il fatto che noi tutti - anche lui stesso - seguiamo comunque dei progetti di felicità, la cui inconciliabilità genera un conflitto etico-politico senza fine. Né si può ignorare il fatto che alcune persone si dicano felici non solo per buona educazione, ma ce ne danno testimonianza ogni giorno -  “qualcosa danza dentro di me” possono dire. Ed è vero che quando si è abitati da questa danza impolitica, anche se il proprio progetto di felicità fallisce, la danza continuerà.

 

D. Kahneman, E. Diener, N. Schwarz, eds.,  Well-Being. The Foundations of Hedonic Psychology, Russell Sage Foundation, New York, 1999.

Levi, P. (1958) Se questo è un uomo, Einaudi, Torino.

M. de Montaigne, Essais, livre II, cap XX, 1580.

P. Ormerod, “Against happiness”, Prospect, 133, 29th April 2007.

Oswald, A., "Money, Sex, and Happiness: An Empirical Study", with David Blanchflower, Scandinavian Journal of Economics, 2004, 106, pp. 393-416.

A.K. Sen, M. Nussbaum, eds., The Quality of Life, Oxford Univ. Press, Oxford 1993.

R. Wilkinson, K. Pickett, The Spirit Level, Penguin Books, London, 2009.

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