Flussi di Sergio Benvenuto

LE DEMOCRAZIE SI FARANNO LA GUERRA? (2003)19/mar/2017


1.

          Molti cominciano a chiedersi – dopo la drammatica divergenza tra alcuni paesi europei e gli Stati Uniti sulla guerra contro l’Iraq – se non si arriverà a scontri armati, o a vere e proprie guerre, tra paesi liberali e democratici.

I credenti nella liberal-democrazia sono convinti che non possano esserci guerre tra democrazie liberali. Hanno usato anzi questa impossibilità come un argomento contro il socialismo reale: ci sono state guerre tra paesi comunisti - scontri URSS-Cina sull’Ussuri, guerra Vietnam-Cambogia e poi Cina-Vietnam (1979), invasioni sovietiche dell’Ungheria (1956) e della Cecoslovacchia (1968) – ma mai guerre tra democrazie liberali. E hanno usato lo stesso argomento contro i pacifisti: “solo l’instaurazione della democrazia, pur attraverso la guerra – dicono - può portare la pace in aree devastate da conflitti cruenti”. Ad esempio, sono convinti che l’interminabile conflitto israelo-palestinese si risolverà solo quando la Palestina diventerà democratica e liberale, proprio come Israele: appunto perché guerra tra democrazie non può esserci[1].  Questo argomento è stato invocato da chi ha creduto nella guerra di Bush Jr. contro l’Iraq: “il tiranno Saddam ha scatenato varie guerre rovinose; se lo eliminiamo instaurando una democrazia, ci sarà la pace nella regione.” [Oggi – 2017 – sappiamo che non è stato così. Dalla fine di Saddam in poi l’Iraq è stata teatro di una continua guerra civile rovinosa.]

Quante volte questa idea dell’ultima guerra è stata derisa come illusoria dalla saggistica disincantata! “La credenza nella possibilità di una guerra breve e decisiva – diceva già negli anni ‘10 Robert Lynd, saggista anglo-irlandese - è una delle più antiche e pericolose illusioni umane.” Con La Grande Illusion, Jean Renoir intitolò questo suo famoso film pensando all’illusione – diffusa tra i combattenti della Grande Guerra – che quella guerra sarebbe stata appunto l’ultima. Anche le rivoluzioni socialiste violente si volevano le ultime guerre – con i risultati che conosciamo. Molto spesso le guerre moderne sono effetto di un sogno di pace perpetua.

Intanto, non è vero che le guerre vinte dalle democrazie contro le dittature portino necessariamente alla democrazia. La liberazione del Kuwait nel 1991 ad opera delle potenze occidentali non ha portato affatto la democrazia in quel prospero paese. In Afghanistan, oggi molti stanno meglio che sotto i taleban, ma non c’è ombra di democrazia; e la guerra civile continua. Per quanto riguarda l’Iraq, nulla ci garantisce che la caduta di Saddam porti ad una democrazia.  Chi conosce bene quel paese ci assicura che, se vi si terranno libere elezioni, queste saranno vinte da qualche partito islamista più o meno fondamentalista: ovvero, è probabile che la nascente democrazia faccia presto harakiri, come avvenne in Algeria nel dicembre 1991 (Nelle prime elezioni libere, gli algerini votarono in massa per il partito islamico (FIS) che intendeva eliminare la nascente democrazia – ne seguirono dieci anni di sanguinosa guerra civile). Non basta eliminare il tiranno per instaurare la democrazia in società che non sono passate per il lungo e contorto rodaggio storico delle società euro-americane. Eppure si resta fedeli all’assioma: “se una guerra mira a instaurare o restaurare la democrazia, va combattuta – essa evita altre e peggiori guerre”.

 

2.

          Ma è proprio vero che le democrazie liberali non si siano mai fatta la guerra? La storia lo smentisce.

          L’esempio più eloquente di guerra tra democrazie è la Civil War americana (1860-65). I Confederates States of America (CSA), gli stati secessionisti del Sud, avevano una struttura fondamentalmente democratica non meno dell’Unione del Nord: nel 1861 si tennero libere elezioni con un sistema a più partiti, e un’altra elezione fu tenuta nel 1864. Ovviamente né i neri né le donne votavano (ma, per questo, nemmeno al Nord[2]). Alcuni sostengono che la Confederation fosse più democratica dell’Union: i singoli stati godevano al suo interno di più autonomia di quanto non ne godessero gli stati del Nord, ogni stato aveva diritto a un suo esercito, e non c’era alcuna Corte federale che potesse cancellare le decisioni dei tribunali degli stati. E’ straordinario che una delle prime democrazie del mondo, e oggi la più forte, abbia offerto per prima l’esempio di una guerra - ferocissima - tra stati democratici[3].

Ancora oggi molte persone colte credono che la prima guerra mondiale sia stata una guerra tra democrazie occidentali (Francia, UK, Italia e poi USA) contro gli imperi centrali autocratici. Non è del tutto vero. Innanzitutto perché le democrazie d’Occidente avevano per alleata la Russia zarista. Poi, l’Austria-Ungheria aveva sviluppato a tappe un sistema democratico più o meno in parallelo con gli altri paesi europei occidentali: nel 1907 una riforma democratica (simile a quella che avveniva in Italia a opera dei governi Giolitti) aveva istituito elezioni dirette a scrutinio segreto per i deputati al Reichsrat, il Parlamento del regno-impero (solo donne e minorenni erano esclusi dal voto)[4]. Il sistema dell’Impero tedesco era alquanto meno democratico di quello austro-ungarico; comunque un certo processo di democratizzazione si stava sviluppando anche nell’Impero germanico[5].

          Non solo nella 1° guerra mondiale le democrazie occidentali hanno fatto guerre contro le dittature in alleanza con altre dittature: nella 2° guerra mondiale le democrazie ebbero per alleate l’URSS di Stalin e la Cina, che anche all’epoca democratica non era.

Ma non mancano esempi più recenti. Si prenda la guerra del Kosovo del 1999: la propaganda NATO ci ha fatto credere che ci si battesse contro un tiranno comunista, Slobodan Milosevich, al fine di salvare il popolo albanese massacrato. Ma Milosevich era stato regolarmente eletto nel dicembre 1992 attraverso un suffragio universale, battendo l’imprenditore serbo-americano Milan Panic[6]. Ed egli stesso è stato battuto da Kostunica nel 2000 attraverso un’elezione sostanzialmente corretta. Io all’epoca fui un sostenitore (anche se perplesso) della guerra del Kosovo, ma occorre non prendersi per i fondelli: si trattò di una guerra tra democrazie, anche se la giovanissima democrazia serba era entrata in una sorta di frenesia nazionalista.

La retorica politica occidentale promuove certi personaggi a incarnazioni del Male – Pol Pot, Milosevich, Karadzic, Castro, Suharto, Gheddafi, bin Laden, Saddam, ecc. – per velare una verità più amara: che dietro questi capi criminali di solito c’era o c’è il sostegno della maggioranza delle loro popolazioni. Come nel caso dei serbi negli anni ’90, un intero popolo può scegliersi o seguire leader che li portano a delitti, deliri guerreschi, massacri xenofobi, sterminî. La persecuzione degli ebrei non ha goduto in certi paesi del plauso delle masse cristiane? Oggi la filosofia imperante – sia a sinistra che a destra – sostiene la telenovela secondo cui i popoli sarebbero sempre buoni e saggi (talvolta vittime, mai carnefici), mentre sarebbero cattivi e folli solo certi loro governanti. Ma non dimentichiamolo mai: Mussolini e Hitler giunsero al potere attraverso libere elezioni. Le masse per lo più non sono né peggiori né migliori dei loro capi – e questo è tanto più vero in una democrazia, dove le masse riescono, in fondo, a sceglierseli. Anche Husserl disse – in una famosa conferenza a Vienna del 1935 - che la differenza tra salute e malattia vale per gli individui così come per gli stati e le nazioni.

 

          Tutto questo, si dirà, non porta acqua al mulino del punto di vista marxista e radical-democratico (come oggi si fa chiamare l’estrema sinistra) secondo cui le guerre moderne sono alla radice sempre guerre economiche, frutto di contrasti interni al mondo capitalista? Per un marxista doc, le forme liberali e democratiche sono alquanto irrilevanti: ci saranno sempre guerre finché ci sarà il capitalismo. Ma il credo marxista (“il socialismo renderà obsoleta la guerra tra stati”) e il credo democratico-liberale (“non ci possono essere guerre tra democrazie liberali”) sono entrambi illusioni speculari. E’ evidente che le guerre non sono affatto un’invenzione del capitalismo moderno e delle società di mercato. La storia ci dice una verità molto, fin troppo, semplice: ogni epoca, ogni tipo predominante di organizzazione politica e culturale, ha avuto le sue guerre - e le sue efferatezze. Dobbiamo dire che le guerre sono un corollario di quella che, da Nietzsche in poi, chiamiamo Volontà di Potenza. Essa si esprime in conflitti economici, dinastici, religiosi, nazionali, ideologici, razziali, etnici, sessuali, psicopatologici, personali, e chi più ne ha più ne metta. Qualsiasi ragione – non solo l’interesse economico – può motivare una guerra. Evidentemente l’istinto a combattere l’altro, anche con le armi, si trasmette attraverso i cambiamenti delle generazioni, delle filosofie e delle religioni, forse perché inscritto nel DNA umano. Del resto Homo sapiens è una delle rarissime specie che può uccidere sistematicamente i propri congeneri – ma era capace di questo sin dall’età della pietra.

          Quindi, non ci si dovrà sorprendere se un giorno ci saranno guerre tra liberal-democrazie. Anche i popoli liberal-democratici – e non solo i loro capi - partecipano della Volontà di Potenza. Non si può spiegare come semplice effetto della propaganda ufficiale il fatto che la maggioranza degli americani, per esempio, abbia appoggiato tutte le guerre volute dai loro presidenti dal 1941 ad oggi. E pochi sanno, ad esempio, che secondo sondaggi recenti i cittadini francesi, inglesi, italiani e polacchi si dichiarano più disposti di quelli americani ad approvare l’uso della forza per difendere i propri interessi. Quindi, l’opposizione di molti europei alla guerra contro l’Iraq non era dovuta – come molti credono – al prevalere tra loro di un pacifismo categorico. (Questo solo basterebbe già a smentire la tesi del fortunato pamphlet di Robert Kagan, Of Paradise and Power, nel quale si contrappone al sostanziale pacifismo post-moderno degli europei il senso bellicoso degli americani: “gli americani vengono da Marte, gli europei da Venere”).

E’ una fiaba credere che la gente comune sia sempre contro la guerra. Tanto più che oggi, dopo la catastrofe del Vietnam, le democrazie moderne non fanno combattere più i giovani di leva, ma impiegano tecnici pagati dallo stato per svolgere un servizio bellico, se così si può dire. Il modello britannico di esercito professionale ha ormai prevalso nel mondo industrializzato, il che rende la guerra molto più accettabile agli occhi dell’opinione pubblica di quanto non fosse all’epoca dell’”esercito di popolo”: “non sono i nostri ragazzi a dover andare a farsi ammazzare, ma specialisti che hanno scelto la guerra come mestiere”.

Che le democrazie moderne siano violente – sia all’interno che all’esterno di se stesse – è talmente fuori di dubbio, che non a caso i filosofi politici che oggi vanno per la maggiore – tra cui Rorty, Derrida, ed altri – non parlano nemmeno più di violenza ma di crudeltà[7]: la democrazia liberale sarebbe non solo artefice della violenza legittima, ma eviterebbe – o dovrebbe evitare - la crudeltà. La crudeltà, e non più la violenza, occupa il centro della riflessione politico-filosofica post-moderna. Insomma, l’avvento delle democrazie porterebbe non alla fine delle guerre, ma alla fine delle crudeltà. Le ambizioni millenariste di pace universale si sono ridimensionate.

 

 

3.

          Eppure si continua a ripetere che le democrazie non possano farsi guerra perché – si sostiene - la democrazia liberale è di per sé, all’interno di un paese, un metodo per risolvere in modo non violento i conflitti. Il presupposto è sempre la mitica “guerra di tutti contro tutti” di Hobbes: la democrazia liberale, con i suoi rituali elettorali, smusserebbe la conflittualità interna a una società. La democrazia svolgerebbe insomma la stessa funzione sdrammatizzante, anti-catastrofica, sbellicizzante, che svolge lo sport agonistico. I conflitti all’interno di una società esprimerebbero una fondamentale pulsione competitiva e polemica degli esseri umani (dei maschi in particolare): costoro amerebbero combattersi per soddisfare il loro impulso polemico. Polemos è una delle divinità che domina i rapporti sociali. E’ quel che Hegel aveva a suo modo assunto nella sua teoria dell’originaria lotta a morte per puro prestigio: ogni io aspira al riconoscimento di sé cercando di eliminare l’altro che ha la stessa aspirazione. E quando Carl Schmitt enuncia “niente politica senza figura del nemico”, assume in effetti questa pulsione agonistica, competitiva e conflittuale come originaria della forma di vita politica.

Questa pulsione psico-biologica spinge i bambini maschi a giocare ai soldatini, anziché alla bambole o alle sfilate di moda, e li fa andare pazzi per i film di guerra. Le masse enormi che si appassionano al calcio in Italia – certo molto più di quanto non si appassionino alle sorti del Medio Oriente – manifestano questo istintivo, viscerale bisogno di guerra e di conflitto, che scarica quel tanto di adrenalina che fa sentire vivi molti di noi. Lo sport competitivo è “la politica” delle masse, piace perché è una guerra, anche se sublimata in procedure normative. Nello sport la lotta è regolata da arbitri e norme; inoltre il vincitore non uccide il vinto, come avveniva nei ludi gladiatori, questi può sempre sperare in una rivincita successiva. Stessa cosa con la democrazia: alcune istituzioni dello stato (polizia, magistratura, da noi il presidente della Repubblica) sono escluse dai conflitti, e queste istanze fuori della competizione garantiscono la correttezza del gioco. Inoltre è garantita la sopravvivenza, sia fisica che politica, e la libertà, allo sconfitto.

Foucault, rovesciando il famoso motto di von Clausewitz (“la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi”), disse che la politica è la prosecuzione della guerra con altri mezzi[8]. La frase di Foucault e quella di von Clausewitz non sono contraddittorie: esse dicono, da due punti di vista diversi (l’uno che parte dal primato della guerra, l’altro che parte dal primato della politica), che c’è un continuum tra guerra e politica, nella misura in cui ambedue danno forma alla grande conflittualità che muove gli esseri umani. Quindi la politica democratica è una guerra ritualizzata, che da una parte prescrive un modo incruento di scegliersi i governanti (chiedendo a ogni individuo di esprimere la sua preferenza, senza chiedergli affatto di giustificarla), dall’altra “ludicizza” il conflitto impedendo l’eliminazione fisica dello sconfitto. Non a caso i progressi della democrazia sono segnati da leggi che vietano i duelli cruenti: un conflitto privato non deve mai arrivare alla possibilità di eliminare fisicamente uno dei contendenti. Ma la democrazia, pur de-bellicizzando i conflitti interni a una società, ipso facto permette anche a questa conflittualità di esprimersi e di produrre effetti creativi. In questo contrasta con la pax dei regimi assolutistici o dittatoriali. Anche i regimi dispotici – come ad esempio quello dell’Arabia Saudita – tendono ad attutire i conflitti interni, a evitare la guerra di tutti contro tutti; ma ci riescono reprimendo la conflittualità. La democrazia invece la esalta, pur cercando sempre di mantenerla entro limiti legali.

Ora, la democrazia si sposa bene al capitalismo – mentre abbiamo constatato storicamente che tende a divorziare dal socialismo - perché anche il capitalismo sfrutta le differenze di potenziale (competizioni e differenze) in una società, non le reprime. La grande forza delle società industriali democratiche consiste proprio nel dare libero corso alla competizione, al conflitto, agli scarti; la differenza incrementa ricchezza e sapere, l’in-differenza li riduce. La democrazia prospera nelle nazioni forti (su tutti i piani) perché essa realizza questa quadratura del cerchio: acutizza differenze e rivalità, ma allo stesso tempo ne smorza la carica distruttiva.

Non a tutte le culture e non a tutti i popoli risulta facile questa composizione. Non so se qualche islamista sia riuscito a spiegare veramente le ragioni della difficoltà che hanno le culture islamiche (a parte alcune eccezioni, come Turchia[9] e Albania) a produrre questo equilibrio liberal-democratico: evidentemente c’è qualcosa nella forma di vita mussulmana (forse la ripulsa islamica del prestito e dell’usura?) che rende molto difficile a questi popoli di trovare, per loro conto, sia la strada dello sviluppo capitalistico che quella della democrazia liberale[10]. Ma anche la cultura islamica potrebbe cambiare, col tempo.

La democrazia svolge una funzione anti-guerra anche su un altro piano: addolcisce i conflitti anche all’interno di quella che, dopo Pareto e Mosca, chiamiamo la classe politica. La democrazia è una cosa davvero buffa: gli esperti professionisti delle cose sociali fanno appello alla massa degli incompetenti perché costoro dirimano col voto le loro controversie su questioni chiaramente complicate (se fossero semplici, ci sarebbe accordo tra questi politici professionisti). E’ ben noto che, anche in democrazie colte e solide, la maggior parte della gente capisce poco o nulla delle questioni di cui parlano appassionatamente i politici. Anzi, si evoca l’estraneità della massa alle questioni della politica – cioè, in fondo, il disinteresse per gli affari propri – proprio per gemere sulla crisi della democrazia. Ma allora, osservano gli anti-democratici, perché fare appello alla decisione di incompetenti? Forse perché i potenti hanno capito che il modo migliore di dare sbocco alla competizione tra loro è di farla arbitrare dal popolo, anche se si tratta di un arbitro ignorante.

Certo la democrazia ha poco senso quando – come in molti paesi del terzo mondo – gran parte della gente è analfabeta e non possiede alcuno strumento concettuale per intendere minimamente le poste politiche in gioco. Il presupposto ottimistico su cui si regge la democrazia è che i cittadini, anche se inesperti, abbiano quel minimo di cultura e di informazione che permetta loro una scelta. La democrazia è plausibile solo quando la media della cultura di una popolazione raggiunge un livello sufficiente.

Comunque, l’appello alla massa che sa poco o nulla di politica induce nella tentazione, costante in democrazia, di ricorrere alla demagogia (oggi chiamata populismo): si drena consenso dalla parte spesso più sprovveduta della popolazione parlando, o fingendo di parlare, il suo linguaggio. (Come diceva Karl Kraus: “il segreto dell’agitatore è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui”.) Ma proprio l’arbitraggio degli incompetenti permette di garantire la libertà e la sopravvivenza dei partecipanti alla competizione politica.

          Quando non c’era democrazia, i conflitti politici spesso sfociavano nella tragedia, lo sconfitto poteva finire sul patibolo - o a Sant’Elena. Il conflitto politico ha cessato di essere lotta per la vita e per la morte di chi vi partecipa: la democrazia garantisce la vita, la libertà e la possibilità di rivincita al politico sconfitto. E quando tutto questo non viene garantito, si sospetta che la democrazia sia minacciata. Ad esempio, il crollo della Prima Repubblica in Italia negli anni ‘90 ha comportato per alcuni ex-leader punizioni che molti considerano eccessive – come nel caso di Bettino Craxi[11]. Alcuni ricordano, infatti, che è nella natura della democrazia essere clementi con gli sconfitti: occorreva perdonare Craxi. Non bisogna far fuori fisicamente i rivali vinti.

Eppure le democrazie liberali non impediscono certo l’assassinio politico – come è stato il caso per Kennedy, Moro, Palme, Rabin, Fortuyn, ecc. Non mi stupirebbe anzi se si scoprisse che avvengono altrettanti assassinî politici in certe democrazie che nelle dittature. Ma nelle democrazie l’assassinio politico è derubricato come tale e assimilato a criminalità comune: esso va perseguito come un delitto tra altri. Anche se in certi casi esso è architettato proprio da politici.

          Da giovane, fui colpito da uno spettacolino che vidi a Parigi, allestito da una compagnia di teatro underground, all’inizio degli anni ‘70. Una guerra nucleare ha devastato la terra e sopravvivono in un bunker solo cinque persone: il papa, il generale, l’astuto politico, un soldato semplice e una segretaria. Chiusi nel bunker, in attesa che la radioattività esterna si diradi, i tre potenti litigano tra loro su chi debba prendere il potere nel bunker, e non riescono a mettersi d'accordo. Ognuno vota per sé, il gioco non si sblocca. La soluzione è fare appello al soldato e alla segretaria perché col loro voto li facciano uscire dall’impasse. Ma i due votano sempre scheda bianca. Il politico allora prega in ginocchio i due umili di scegliere. Ho spesso pensato che quella farsa sessantottesca la dicesse lunga sulla democrazia moderna. La democrazia non è anche il modo meno costoso e rischioso che i professionisti della politica – i potenti - hanno trovato per dirimere i loro conflitti?

Allora la democrazia non sarebbe il potere dato alle masse, ma è il fatto che alcuni raggiungano il potere attraverso le masse. Il potere che hanno le masse nella democrazia è poter scegliere da chi lasciarsi usare perché ha potere. Il potere democratico è potere lasciarsi dominare. Il che è dopo tutto meglio del non avere nemmeno il potere di lasciarsi dominare. 

 

 

4.

Dobbiamo concepire la società liberal-democratica come inscindibile dal capitalismo o, almeno, dalla società di mercato? L’esperienza storica degli ultimi due-tre secoli ci insegna che il capitalismo e il mercato possono svilupparsi in una società politicamente totalitaria – come accade oggi in Cina, per esempio, o come accadde nella Germania di Hitler. Ma se il capitalismo e il mercato non esigono come necessarie le istituzioni liberal-democratiche, l’inverso non è vero: le istituzioni democratiche sembrano esigere il capitalismo. In effetti, gli esiti dei vari socialismi (sovietico, cinese, cubano, albanese, cambogiano, titoista, ecc.) insegnano che, almeno fino a ora, l’imposizione di una società socialista comporta sempre l’eliminazione delle libertà democratiche (anche se questa eliminazione non era nel programma originario dei socialisti). La conclusione da trarre è semplice: fin quando la gente vota, il socialismo non prevale[12]. E difatti, in paesi liberal-democratici dove i partiti socialisti governano da decenni – in primis la Svezia – si perpetua il capitalismo: ovvero, nella misura in cui i socialisti restano democratici, devono adattarsi al capitalismo.

Il fatto che la liberal-democrazia comporti sempre il capitalismo, ma non viceversa, ci porta a questa conclusione: che il capitalismo è più forte ed essenziale delle forme liberal-democratiche. Il che dà ragione, paradossalmente, a Marx: la struttura economica (capitalista, mercantile) è più essenziale di ciò che Marx chiamava sovrastrutture (istituzioni democratiche, ecc.). La libertà economica – la società di mercato – appare più fondamentale delle libertà politiche e dei diritti civili.

Resta comunque una domanda cruciale: il capitalismo - se identificato alla libertà economica di competere - porta spontaneamente alla democrazia liberale? Ovvero, prima o poi la libertà economica nel mercato si completa con libertà politiche, diritti civili, liberalismo? Molti pensano di sì. Ad esempio, sono convinti che lo sviluppo del capitalismo in Cina porterà col tempo – vedremo se in modo pacifico o no – al crollo del dispotismo comunista e all’instaurazione di forme liberali e democratiche. Il capitalismo, sui tempi lunghi, porterebbe sempre al trionfo delle libertà democratiche. Ma quanto possono essere lunghi questi tempi? Anche secoli?

Altri pensano invece che crediamo nella co-essenzialità tra capitalismo e forma liberal-democratica solo perché di fatto, storicamente, è accaduto che fossero le società europee - già avviate all’elaborazione di principi democratici e liberali -  a sviluppare per prime la rivoluzione industriale e capitalistica. Questa coincidenza storica ci farebbe erroneamente concludere a un’implicazione strutturale.

Comunque sia, le società capitaliste si fanno la guerra spesso. Non sarà certo quindi l’espansione del capitalismo a disinnescare la miccia bellica nel mondo.

 

5.

          Alcuni pensano: se la democrazia riesce all’interno di uno stato a “ludicizzare” i conflitti (aizzandoli e allo stesso tempo imbrigliandoli nei rituali democratici), allora è capace di fare la stessa cosa nei rapporti tra stati democratici. Le regole della vita civile all’interno di una democrazia liberale prima o poi vengono proiettate a livello internazionale. I rogue states (stati-canaglia) di cui parla Bush, ad esempio, vengono assimilati ai criminali che esistono all’interno di una società democratica: essi vanno puniti e rimossi, proprio come si fa in una nazione-stato, attraverso misure di polizia. Rivalità di ogni tipo possono sorgere tra paesi democratici, ma queste vengono composte pacificamente così come la competizione tra partiti in una democrazia non sfocia in conflitto armato. In questa visione – idilliaca – l’ONU e le altre grandi istituzioni internazionali (come la Corte Internazionale dell’Aja) dovrebbero svolgere a livello internazionale la stessa funzione che la magistratura, l’esercito, la polizia e altri apparati dello stato svolgono all’interno di un paese.

Certo, molti fanno osservare che istituzioni come l’ONU non sono democratiche al loro interno. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU esprime ben poca democrazia, in quanto cinque paesi (i vincitori della 2° guerra mondiale) godono di privilegi spropositati nei confronti degli altri paesi. Ma dopo tutto, spesso la democrazia è regolata e custodita da istituzioni che non sono esse stesse democratiche. Ad esempio, in Italia la magistratura non è regolata democraticamente: giudici e pm non sono eletti dal popolo, ma fanno carriera all’interno di una corporazione per cooptazione. Stessa cosa nell’esercito, che pur dovrebbe difendere la democrazia: i generali non sono eletti dal popolo. Ogni democrazia comprende poteri tecnocratici non controllati dal popolo - ma l’importante è che esistano degli arbitraggi, anche se l’arbitro non è esso stesso democratico.

          Il punto è però che i rapporti tra paesi democratici non sono isomorfi ai rapporti tra le parti di una società, per una ragione molto semplice: che, a dispetto di istituzioni internazionali come l’ONU e simili, non esiste una costituzione liberale che regoli i conflitti tra stati. L’ONU stessa è più un forum di discussione tra paesi che un’istanza di vera decisione politica – e questo perché essa non ha, a differenza dello stato, l’autorità costrittiva che permette di rendere esecutive le decisioni prese e di sanzionare le trasgressioni[13]. Di conseguenza, i rapporti internazionali non sono molto diversi dai rapporti tra specie animali in una giungla. Probabilmente, la grande impresa (quanto realistica?) a cui gli spiriti migliori del nostro secolo si dedicheranno sarà la nascita di un vero diritto internazionale, pensabile solo all’interno di una Costituzione mondiale vincolante per ogni stato. Ma siamo molto lontani da questo – e, con la dottrina Bush, più lontani che mai. Esistono certo una serie di trattati, da cui però i singoli paesi possono svincolarsi – e l’amministrazione di Bush Jr. ha fatto della cancellazione di una serie di trattati internazionali quasi il proprio sport preferito. Oggi è la logica della forza a prevalere nei rapporti tra stati.

          Ad esempio, Francia e Russia da una parte, USA e UK dall’altra, si sono scontrati sulla strategia da adottare nei confronti di Saddam Hussein. Ora, se i vari stati fossero all’interno di una democrazia liberale internazionale, le diverse opzioni sarebbero state messe ai voti, e l’umanità avrebbe deciso (non importa ora stabilire se il voto dovesse essere basato su quello di ciascun abitante del mondo, o su quello dei singoli stati). Ma nessuno ha mai osato proporre di risolvere il contenzioso sull’Iraq attraverso un poll delle opinioni dei sei miliardi di abitanti del pianeta! Una proposta del genere apparirebbe talmente utopistica da muovere al riso. Di fatto ha contato solo la decisione del più forte, gli Stati Uniti. A Bush interessano unicamente gli elettori americani, non quello che pensano le masse cinesi, francesi o russe. Gli USA certo possono dare più o meno importanza alla copertura ONU ma, come abbiamo ben visto, questo non è essenziale.

Stati Uniti e Gran Bretagna possono volere davvero, in buona fede, l’avvento della democrazia in Iraq e nel mondo - la loro crociata democratica resta comunque non-democratica. Per questa ragione molti hanno condannato il loro unilateralismo – anche quando, come nel caso del sottoscritto, non erano pacifisti, né radical-marxisti, né anti-americani, né comunque indulgenti verso Saddam. Bush può avere anche tutte le buone ragioni del mondo – per il suo popolo e per il mondo intero – di attaccare Saddam: ma si comporta come un partito che non rispettasse il verdetto elettorale e dicesse “governo comunque io, perché sono il migliore”.

          In effetti, tutti i dibattiti in questi mesi ruotavano necessariamente attorno al punto essenziale: fino a che punto dobbiamo agire come se esistesse una democrazia universale, oppure no? Può anche darsi che gli argomenti di Bush e Blair fossero migliori di quelli di Chirac – per certi versi, praticamente, forse lo erano – ma la vera ragione per cui la politica anglo-americana è oggi così impopolare in Europa continentale è un’altra: essa ignora le forme della democrazia.

          Si obietta che è sempre stato così: anche la guerra contro la Germania nazista e l’Italia fascista non fu una scelta democratica della Società delle Nazioni. Certo, ma l’Occidente dovrebbe finalmente cercare di imboccare una strada democratica anche nelle relazioni internazionali: ovvero, dovrebbe se non altro cercare di ottenere il consenso se non di tutti i paesi, certo di una significativa maggioranza di essi. Proprio come riuscì a fare Bush Sr nel 1991 con la guerra del Golfo, capolavoro di costruzione diplomatica.  La democrazia internazionale non può discendere dall’alto perché non esiste uno stato planetario, ma può emergere dal basso, nella misura in cui i paesi più importanti si assoggettano volontariamente a certe regole.

Ora, mi pare che la strategia di Chirac e Schröder abbia voluto essere una provocazione democratica: il loro obiettivo essenziale non era di impedire la guerra contro Saddam – sapevano che difficilmente potevano evitarla – quanto di togliere legittimità alla guerra contro Saddam. E perché questo? Non sarebbe stato più semplice accettare il dato di fatto – che la guerra contro Saddam si sarebbe fatta comunque – e quindi legittimarla con un voto ONU? No, proprio perché Bush – incautamente? o a disegno? – ha dichiarato sin dall’inizio che la guerra la decide lui, non l’ONU: una sfida alla comunità internazionale, e uno schiaffo agli alleati. E’ come se in un paese un partito dicesse: “se vinco le elezioni tanto meglio; ma se le perdo, conserverò lo stesso il potere”. E’ proprio l’arroganza di Bush e Blair ad aver costretto Francia e Germania a reagire, a ricordare che la democrazia internazionale certo non esiste, ma che bisognerebbe agire per portarla all’esistenza.

 

6.

          Ma, data la mancanza totale di democrazia internazionale e di diritto internazionale, che cosa possono fare le democrazie liberali occidentali? Oggi nei confronti di Saddam, e domani della Corea del Nord, o magari anche dell’Arabia Saudita o della Siria o del Sudan? Anche qui si confrontano due posizioni, entrambe paradossali.

          Posizioni come quelle della Francia e della Germania oggi vengono denunciate da alcuni come conservatrici dello statu quo, e quindi in sostanza come ciniche. Esse proseguono la strategia che l’Occidente democratico ha perseguito nel corso di tutta la guerra fredda: appoggiare anche tirannie e dispotismi, purché fossero amici dell’Occidente. Una volta identificato il nemico principale – prima il nazi-fascismo, poi l’URSS, poi certi paesi islamici – non aveva alcuna importanza se gli alleati dell’Occidente fossero democratici o meno, purché combattessero il nemico principale. L’Occidente ha fatto proprio il detto di Mao “non importa se il gatto sia nero o bianco, purché acchiappi i topi”. Ma questa Realpolitik avrebbe aperto il vaso di Pandora dei mali asiatici: sia Saddam che i taleban (si osserva) sono stati favoriti e sostenuti dagli USA. Invece oggi la nuova politica americana – dicono i suoi simpatizzanti – darebbe finalmente priorità ai princìpi: ovvero, il nuovo principio è che tutti i tiranni vanno eliminati se possibile, e va instaurata una democrazia al loro posto. Pur restando ovviamente guardiani dei propri interessi, gli USA dopo l’11 Settembre si starebbero trasformando finalmente in crociati della democrazia e del liberalismo.

Questo modo di vedere è inverso a quello che vede invece alla base della politica americana unicamente i propri calcoli economici egoistici, ovvero il controllo delle rotte del petrolio, e l’imperialismo politico-militare. Quale dei due è quello corretto?

Personalmente credo che entrambe le tesi, benché contrarie, siano vere: questo perché una grande potenza raramente fa una guerra per una sola ragione. L’errore di molte analisi politiche – anche ingegnose - consiste nella loro linearità e semplicismo: si elegge una sola chiave per leggere gli eventi, e si dichiara che il resto è poco rilevante. Certo che USA e UK hanno fatto guerra a Saddam per il petrolio – ma anche per ragioni politiche (ad esempio, per dare una soddisfazione a Israele e poter poi chiederle sacrifici a vantaggio dei palestinesi – o almeno lo spero), ideologiche (l’esportazione della democrazia nel mondo), per difesa preventiva, ecc. Fanno la guerra anche per ragioni psicologiche se non psicopatologiche: forse i complessi edipici di Bush Jr. sono anch’essi un fattore per spiegare una guerra decisa in modo politicamente maldestro. Nell’ottica della teoria della complessità – che condivido - non esiste una gerarchia rigida di cause: per fare una guerra, devono sempre concorrere molte ragioni. Il risultato porta la traccia di queste varie ragioni.

          Ora, limitiamoci al fattore missionarismo democratico. Chi vi si oppone, dice in sostanza “non è nostro compito detronizzare i despoti nei paesi in cui dominano”. Ovvero, la democrazia liberale deve accettare il pluralismo politico anche a livello internazionale: alcuni regimi saranno pure tirannici, vanno comunque accettati come legittimi. Come accade all’ONU, che comprende le rappresentanze di quasi tutti i paesi, indipendentemente dai loro sistemi politici. Finora l’Occidente ha legittimato le dittature sulla base di una sorta di filosofia relativista: ha dato per scontato che certe culture (islamica, cinese, ecc.) non siano ancora capaci di sviluppare forme democratiche, quindi, i dispotismi che le governano sono storicamente inevitabili. Questo del resto accadde anche nei confronti del Terzo Reich: Francia, Gran Bretagna e poi USA si decisero a fargli guerra solo quando la Germania passò ad aggredire i paesi vicini. Le democrazie occidentali non si opposero affatto ai fascismi fin quando questi restarono una faccenda interna di Italia, Germania, Spagna, Ungheria, ecc. Fino al 1999 (fino cioè alla guerra del Kosovo), la linea (tacita) di tutti i paesi occidentali è stata: tolleriamo tutte le dittature, finché esse non aggrediscono noi o i nostri alleati (anche quando questi alleati sono tutt’altro che democratici). Quando difatti Saddam aggredì l’Iran, l’Occidente non lo fermò affatto, anzi, lo finanziò e lo armò per contenere il fondamentalismo sciita. Ma questa linea è stata interpretata da molti nel mondo povero come puro cinismo, alimentando la violenza di Al Qaeda, di Hamas e di altri. Gli occidentali sono percepiti come egoisti cinici, dediti al sesso e all’alcool, che si godono gli agi della prosperità, della democrazia e del liberalismo, del tutto sordi alle sofferenze dei popoli oppressi. Del resto, molti nel terzo mondo sono convinti che tiranni come Saddam siano effetto della politica occidentale – e portano come prova l’appoggio occidentale alla guerra del rais irakeno contro l’Iran.

          L’alternativa è invece la Crociata Democratica. Ma questa ai popoli poveri e oppressi non appare una strategia più generosa della prima: “la democrazia non va imposta con una guerra, dicono, perché allora nulla distingue questa imposizione dalle classiche invasioni”. Quello americano è un imperialismo ideologico – come lo era a suo tempo quello dell’URSS – ma pur sempre imperialismo. Invece la democrazia non va catapultata dall’esterno, né è un dispositivo tecnico che si applichi ovunque: è il risultato di un processo di maturazione interna di una cultura, qualcosa che via via si impara educando i propri riflessi politici.

          Insomma: qualsiasi cosa faccia l’Occidente, esso avrà sempre torto! E’ il double bind dell’Occidente: ciò che lo rende comunque sospetto, anzi odioso, a chi è escluso dalla sua ricchezza e libertà. Se l’Occidente rinuncia all’ingerenza umanitaria, esso viene accusato di miope egoismo; se esso invece attacca le tirannie sparse nel mondo, viene accusato di arroganza imperialista. Ma non si tratta solo di un rimprovero proveniente dall’esterno: lo stesso Occidente è incerto, perplesso, tra questa padella e questa brace. Come uscire da questo double bind?

          Non credo che se ne possa uscire: perché è impossibile, per l’Occidente, uscire dal proprio etnocentrismo. A meno che non sia autodistruttiva, la politica dell’Occidente sarà sempre etnocentrica – e quindi sempre, e giustamente, criticabile. Ma quante politiche non sono etnocentriche? L’Occidente deve decidere ben sapendo che comunque andrà incontro all’ostilità di una parte del mondo. E se farà contenti alcuni paesi, ne farà scontenti necessariamente altri. In Kosovo, ad esempio, si è fatto amare dagli albanesi, odiare dai serbi. Il destino dei paesi ricchi, forti e liberi è quello di essere ammirati e odiati – l’odio che parte del terzo mondo ci dispensa è l’altra faccia della rabbiosa ammirazione con cui ci mitizza. Ma proprio per questo il progetto dell’amministrazione Bush – credere che l’odio per l’America si possa estirpare eliminando bin Laden, Saddam, Kim Jong-Il o qualche altro arruffapopolo anti-americano – mi appare destinato al fallimento: l’odio e il rancore di cui la superpotanza è oggetto è il prezzo che questa deve pagare proprio perché è una super-potenza. Essa sarà invidiata e odiata anche se non farà nulla di male: masse sterminate saranno comunque convinte che la loro miseria e mancanza di libertà siano effetto della ricchezza e della libertà dell’America (e dell’Europa occidentale).

Questa convinzione del resto è diffusa tra tanti anche in Occidente: molti sono convinti che i miserabili e gli oppressi del mondo siano necessari al benessere e alle libertà di cui loro stessi godono. Benessere e libertà vengono visti come un gioco a somma zero: se qualcuno ne ha, altri ne sono privi. Parte dell’Occidente è divorato da sensi di colpa, sulla base di una teoria economica che considero falsa. Fin quando l’Occidente resterà insomma forte e libero, questa forza e questa libertà saranno anche una colpa che dovrà scontare. Non c’è uscita da questa “maledizione sull’uomo bianco”?

 

7.

La posizione dell’Occidente è paradossale, in effetti, proprio nella misura in cui esso si fa portatore della democrazia come valore universalista.

Si è da molto tempo rimproverato all’America di essere alleata e protettrice del regime wahabita dell’Arabia Saudita: un sistema che opprime le donne ed esclude la democrazia. Ma poi si è rimproverata l’America di combattere i regimi fondamentalisti iraniani e afghani, cioè di voler imporre a culture diverse modelli e valori dell’Occidente.

          La stessa contraddizione è emersa quando si è trattato di eliminare il regime di Saddam. Chi era contro la guerra sosteneva che nulla deve essere imposto agli altri, nemmeno la libertà. (Certo, con la sconfitta del nazismo e del fascismo nel 1945 la democrazia fu portata con le armi: ma Italia e Germania non erano l’Iraq, avevano già da tempo sviluppato i germi endogeni di una vita democratica, di cui avevano avuto peraltro già esperienza.) Chi invece sosteneva la guerra diceva che Chirac e Schröder sono cinici: pur di evitare una guerra scomoda e imbarazzante, preferivano che il popolo iracheno, e in particolare la maggioranza sciita, marcisse a tempo indeterminato sotto Saddam. Ognuno accusa l’altro di cinismo nei confronti degli arabi. Chi dei due ha ragione? A mio avviso tutti e due, e ambedue hanno anche torto. Sul piano morale, le due politiche sono indecidibili.

          Ma questa indecidibilità è una conseguenza della stessa ottica universalista dell’Occidente: nella misura in cui una parte si fa portatrice di valori universalizzanti, essa fatalmente cade in contraddizione con se stessa. Perché nella misura in cui una parte vuole imporre agli altri valori universali, l’imposizione apparirà a questi altri, comunque, un atto di parte. Le folle dei no-global e le guerriglie urbane in Occidente, da Seattle a Genova, incarnano un tentativo di evadere, direi magicamente, da questa cattiva coscienza dell’Occidente.

          Di fatto, quindi, ogni potenza democratica fa le sue scelte, cercando di dare un colpo al cerchio (i propri interessi nazionali) e un colpo alla botte (fare appello a valori politico-morali universalmente accettabili). Ma questa indecidibilità sarà sempre fonte di dissidio e di conflitto tra le democrazie stesse, che si accuseranno a vicenda di essere ciniche e di “tradire la causa”.

 

8.

          Tutti ammiriamo il modo in cui la giustizia americana sconfisse Al Capone negli anni ‘30. Anche le pietre sapevano che quel gangster era un grande boss della criminalità di Chicago, eppure la polizia non aveva prove per incastrarlo. Lo poterono spedire ad Alcatraz solo per evasione fiscale. In questo caso, il vero successo dello stato non fu tanto eliminare Al Capone, quanto l’averlo fatto rispettando le regole. Nella legalità, come in democrazia, la forma è anche la sostanza. Questo rispetto delle regole non può tollerare eccezioni. Ora, quel che ha deluso della politica di Bush e Blair è stato proprio il non aver fatto come i cops americani degli anni ‘30: non si sono curati della forma giuridica. Ma che cosa ne è della democrazia e della legalità senza le forme?

Direi di più: l’avvento della democrazia liberale segna un incremento della forza del diritto. La democrazia non consiste, come vuole l’agiografia, nel potere dato al popolo: di fatto, la maggioranza della gente ha ben poco potere, e gli eletti sono scelti da una minoranza della popolazione. Quanti americani aventi diritti di voto, ad esempio, hanno votato per Bush? Credo solo un quarto. La democrazia è di fatto una procedura che permette di scegliere a chi vanno certi poteri politici: finora, è risultato il modo meno dispendioso e più efficace per determinare chi decide politicamente. Nel Medioevo, per evitare che ci fossero guerre continue per le successioni al trono, la soluzione migliore apparve la regola dinastica: “il primo figlio/a partorito dalla regina sarà il prossimo sovrano”. In quel contesto, apparve la procedura più saggia.

          Eppure l’importanza data alle forme, alle regole, alle leggi appare alquanto futile a molti, sia di destra che di sinistra. Per la sinistra, più o meno ancora marxista, la giustizia è tutt’altra cosa dalle leggi; queste di solito si limitano a sancire con la forza legale rapporti di forza sociale: la forma democratica è vista come irrilevante rispetto alla vera democrazia, che coinciderebbe con l’eguaglianza economica. La figura del giudice Azdak del Cerchio di gesso del Caucaso di Brecht – che si mette il codice penale e civile sotto il sedere, e che tuttavia mostra un senso acuto della giustizia sociale – è l’emblema di quel che un cuore di sinistra sente nei confronti dell’ordine giuridico: mera forma usata come strumento nelle mani del potere sostanziale.

Ma le cose non vanno meglio con la destra liberista e “darwiniana”: per questa, tutto il positivo – la prosperità, la libertà, il dinamismo – viene dal gioco spontaneo e sregolato delle forze in competizione. Le forme giuridiche dovrebbero limitarsi a tutelare, evitando eccessi, il libero gioco degli attori economici e sociali. Mentre per il marxista le regole di diritto sono a un tempo maschera e strumento del vero potere (economico), per il liberista conservatore le regole di diritto sono una semplice cornice del vero gioco sociale e vitale (la competizione e l’eliminazione dei meno adatti).

Eppure sappiamo che non esiste praticamente nessuna società umana dove non ci sia – anche se certo in forma ancora rozza – una qualche forma di diritto. Ogni società, fosse anche la più primitiva, osserva regole, si appella a norme, a princìpi, se non altro consuetudinari. Anche tra le popolazioni più primitive del pianeta – quando ancora ne esistevano - ci sono cose che si fanno e cose che non si fanno, valori condivisi e altri discussi. Per ogni società umana un sistema giuridico (anche se non esplicitato) è ben più essenziale e primitivo dello stesso scambio economico del baratto. Come si può sostenere, a destra e a sinistra, la pura sovrastrutturalità del diritto?

Certo il diritto non si sostituisce mai alle forme di potere; appare utopica una società dove il solo potere sarebbe quello del diritto. Il diritto limita chi ha il potere regolandone l’esercizio, non si sostituisce al potere. Ma ogni potere – economico, sessuale, familiare, religioso, ecc. – deve in un modo o nell’altro accomodarsi con il diritto già presente in una società. Magari può modificare certe norme del diritto, ma non può mai fare a meno di ogni diritto. Non esiste un dispotismo talmente assoluto da poter fare a meno di regole giuridiche, altrimenti esso coinciderebbe con la più assoluta anarchia. E’ impensabile una società senza diritto. La democrazia è anche, per molti versi, il potenziamento del diritto – quindi, è rafforzamento della società. E quando Carl Schmitt dice che la funzione politica è decretare lo stato d’eccezione, egli ha certamente ragione: ma nella misura in cui lo stato d’eccezione presuppone già una normalità, vale a dire uno stato in cui si cercano di applicare norme più o meno codificate. Uno stato d’eccezione totale e permanente entrerebbe in contraddizione con qualsiasi ordine sociale.

Ma proprio per rafforzare la democrazia, è necessario che la guerra venga regolata, che insomma anche la guerra dipenda da procedure democratiche. Siamo ancora molto lontani da questo, ma la sfida che il XXI° secolo dovrà raccogliere sarà proprio questa.

 

 Sergio Benvenuto



[1] Ma che cosa è veramente una democrazia liberale? Di fatto, oggi le nostre società sono liberali-democratiche-socialiste. Grazie alle alternanze dei governi e alle oscillazioni politiche, le nostre società – a parte alcune sensibili differenze che permangono tra loro – hanno prodotto un amalgama originale di elementi democratici, liberali e socialisti. In breve, nelle nostre società ha prevalso

(1)    il metodo democratico inteso come modo di scelta di chi debba esercitare i poteri legislativo ed esecutivo: attraverso il principio elettorale maggioritario, ovvero ”la maggioranza dei cittadini decide chi legifera e chi governa”; sono esclusi dal voto (per ora) solo i minorenni, chi sconta una condanna penale e i residenti senza cittadinanza;

(2)    il principio liberale come garanzia di alcuni diritti, soprattutto degli individui, considerati inalienabili (libertà di esprimersi pubblicamente, libertà di promuovere le proprie opinioni politiche, libertà di culto religioso, libertà di iniziativa economica, libertà di spostarsi sul territorio, e oggi anche libertà di orientamento sessuale);

(3)    la solidarietà socialista come tutela delle aree più deboli della società (varie forme di welfare state) e come eventuale intervento dello stato nell’economia al fine di incrementare il benessere generale.

Certo le nostre società non sono totalmente democratiche, liberali e socialiste: mescolano – spesso secondo ragioni diverse a seconda dei paesi – queste tre istanze, e ciascuna di queste istanze non è oggi pienamente realizzata. Questo perché democrazia, liberalismo e socialismo non sono sempre e necessariamente compatibili: su certi versanti confliggono, talvolta occorre scegliere uno dei tre principi contro gli altri due. Inoltre, in alcuni aspetti prevale la tutela paternalistica del cittadino, che in sé non è né liberale, né democratica, né socialista.

 

[2] Nell’Union del Nord in teoria i neri avevano diritto di voto, ma di fatto venivano in gran parte esclusi in quanto occorreva sostenere un test di conoscenza civica, al quale per lo più i neri (e i bianchi meno colti) fallivano.

 

[3] Oggi tutti siamo per l’Union di Lincoln contro la Confederation schiavista, ma è notevole che la guerra voluta da Lincoln ha affermato – nel cuore stesso della più vecchia democrazia occidentale – un principio squisitamente anti-democratico: che nessun stato dell’Unione può ritirarsi da questa. Anche se tutti gli abitanti dell’Alaska, per esempio, decidessero di separarsi dagli USA, il governo federale non potrebbe permetterlo. Giuridicamente parlando, il matrimonio tra ogni stato americano e l’Unione è indissolubile, eterno.

 

[4] La Camera del 1907 era formata da 516 deputati, rappresentanti di otto nazioni (tedeschi, cechi, polacchi, ucraini-ruteni, rumeni, croati, sloveni ed italiani) e di oltre 30 partiti o gruppi politici. Tra i deputati italiani, c’era Alcide De Gasperi. I partiti con più rappresentanti erano il partito socialdemocratico – allora marxista -, i cristiano-sociali, i nazionalisti tedeschi e il partito polacco della Galizia. Possiamo considerare l’Impero austro-ungarico come liberal-democratico allo scoppio della guerra nel 1914.

 

[5] La Prussia, ad esempio, aveva un sistema a tre classi molto meno democratico dei sistemi degli altri 57 stati che costituivano l’Impero. Al Reichstag comunque erano rappresentati vari partiti (riconosciuti formalmente dalla Costituzione dal 1908), compreso quello socialdemocratico, che arrivò al 35% dei deputati. Il Reichstag svolgeva funzioni legislative, anche se il Cancelliere veniva nominato direttamente dal kaiser.

 

[6] Si è sostenuto che in quelle elezioni ci furono brogli. Possibilissimo. Eppure negli anni successivi la maggioranza del popolo serbo non ha dato segni di opporsi seriamente alle opzioni nazionaliste  di Milosevich. Anche i dissidenti serbi con cui ho parlato sono concordi: fino al 1999 i serbi erano sostanzialmente dietro il loro presidente.

 

[7] Ultimo esempio di questo è il libro di René Major, La Démocratie en Cruauté, Galilée, Paris 2003.

 

[8] Su questo punto, vedi M. Vatter, “La politique comme guerre: Formule pour une démocratie radicale?”, Multitudes 9, Mai-Juin 2002:101-115.

 

 

[9] Nota 2017. Come abbiamo visto poi, con Erdogan la Turchia sta rientrando anch’essa nella normalità mussulmana.

 

[10] Secondo Roger Scruton (The West and the Rest) manca nei paesi islamici una teoria sviluppata della persona giuridica come quella che l’Occidente ha ereditato dal diritto romano; questa ha permesso di elaborare la distinzione tra chiesa e stato (“dà a Cesare quel che è di Cesare, e dà a Dio quel che è di Dio”), e quindi ha reso possibile la progressiva formazione di tutti quei corpi sociali intermedi che sono premessa indispensabile al formarsi di una società civile.

 

[11] I sostenitori della linea Mani Pulite fanno osservare che leader come Craxi e Andreotti sono stati accusati di reati comuni, non politici. Ma la linea di difesa di Craxi fu di sostenere appunto che un reato comune (in quel caso, il finanziamento illegale dei partiti) commesso dalla maggior parte dei politici, e divenuto una condizione per poter competere nell’agone politico proprio per la sua diffusione, era di fatto un reato politico. L’argomento di Craxi non era solo pretestuoso: investe un presupposto fondamentale della democrazia liberale, vale a dire il riconoscimento o meno di certi reati come politici. Non sarò certo io qui a risolvere questa complessa questione. Faccio solo osservare che ridurre ogni azione politica illegale a reato comune è la strategia classica, da secoli, di ogni potere politico. Anche il sistema penale britannico considera i militanti nord-irlandesi come delinquenti comuni; e anche le BR italiane sono condannate per reati comuni, non politici. Questo perché la democrazia liberale non ammette come legittimo il concetto stesso di reato politico. Ma di fatto le cose stanno ben diversamente.

 

[12] Ovvero, è più facile che un libero voto porti al suicidio della democrazia liberale che alla fine della società di mercato. Pare proprio che nelle società moderne il capitalismo e il mercato siano più popolari delle libertà democratiche.

 

[13] Questo ci fa toccare con mano un paradosso della democrazia: essa può esistere solo in presenza in uno stato forte, che abbia il potere effettivo di far rispettare le regole democratiche. Senza uno stato forte, inevitabilmente forze dispotiche o partigiane si affermano. Per questa ragione l’ideale anarchico di far deperire la stato a colpi di democrazia, per così dire, è un controsenso: di fatto, le democrazie liberali più solide sono stati forti ed efficienti. Mentre gli stati dispotici del terzo mondo sono spesso fragili e inefficienti.

 

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