Flussi di Sergio Benvenuto

Solitudini messicane (1999)03/mar/2017


 

        Sicuramente uno dei luoghi più allucinanti che abbia mai visto, nel mondo intero, è la piazza Tlatelolco, nel cuore di Città del Messico. 

        Tlatelolco è uno di quei nomi aztechi dal suono extraterrestre che solo i messicani riescono a pronunciare. Il nome moderno è Plaza de las Tres Culturas, ma sarebbe meglio chiamarla Plaza de las Tres Matanzas, piazza dei Tre Massacri, come apparirà presto evidente. Eppure, ogni volta che mi trovo a Messico uno strano magnetismo, probabilmente morboso, mi spinge a rivisitarla. Certo non perché questo grande spiazzo sia bello: è assediato da brutti palazzi di un quartiere moderno e già fatiscente, costruito alla fine degli anni 50. Al centro di questa piazza si trovano i ruderi dell’antica Tlatelolco degli aztechi – ma se parlate con un messicano non li chiamate aztechi, chiamateli mexicas.  In questa cittadella, con al centro la solita piramide e il tempio in onore di Quetzalcóatl, il dio-serpente assetato di sangue, l'eroe nazionale Cuauthemoc, figlio di Montezuma, resistette all’assalto dei conquistadores di Hernan Cortés. Il 13 agosto 1521 cedette, e qui fu immolato dagli spagnoli. Questa data segna l’inizio della storia dell’America Latina.  Una lapide tra quei ruderi, anneriti dallo smog umidiccio di Città del Messico, evoca l’evento in questi termini: “Non fu trionfo né disfatta/ Fu la nascita dolorosa del popolo Mestizo/ Che è il Messico di oggi.” 

        Evidentemente si vogliono conciliare due delle tre culture che danno il nome alla piazza, di cui il Messico moderno sarebbe la sintesi: la pre-ispanica, come dicono i messicani, e l’ispanica. La terza cultura dovrebbe essere quella nata dalla Rivoluzione del 1910-21.

        Di fronte al tempio maggiore della Tlatelolco, dove gli aztechi celebravano i loro riti bizzarri, sorge una chiesa, costruita dagli spagnoli nel 1609. Di pietra nera, si erge sullo sfondo dei ruderi e palazzi moderni come un’ombra spettrale, un coagulo nerastro emerso dal passato. Quando vi si entra, si è colpiti dalle piccole vetrate blu, che fanno penetrare nella chiesa una luce rada e livida, quasi mortuaria. Essa è dedicata a Santiago Apostol, santo-guerriero rappresentato in Messico sempre a cavallo e con la spada sguainata. Evidentemente questa chiesa voleva celebrare l’eccidio degli indigeni ad opera dei cristiani. E colpisce il fatto che dietro l’altare di questa tetra chiesa che benedice uno smisurato Olocausto non si trovi il crocefisso, ma un trittico giallo al cui centro campeggia Santiago che stermina infedeli. Il sacrificio crudele del giovane Cuauthemoc si prolunga nella macabra celebrazione dello sterminio degli indios.

Ma chi era questo Santiago Apostol? E’ un santo eccentrico, borderline, intercontinentale. Era all’origine il Santo patrono della Spagna: San Giacomo fratello di San Giovanni Evangelista, il cui corpo viene tuttora venerato a Santiago de Compostela. Questo santo, divenuto ovviamente guerriero in un paese come la Spagna, si degnava di apparire agli spagnoli nei loro primi scontri armati con gli indios. Egli correva in aiuto dei buoni (ovviamente spagnoli) contro i cattivi. Una variante è Santiago Matamore, “ammazzatore di mori”, che aiutava i crociati ispanici contro gli arabi. Una volta cristianizzati, gli indigeni del Messico adottarono questo santo spagnolo quanto altri mai, lo assimilarono sincreticamente al loro Quetzalcóatl, lo incorporarono nelle loro mitotes (feste) popolari, ed elevarono un culto a “Santiago y Maria”. Grazie a questo prestito, Santiago cambiò di campo: durante la guerra di Indipendenza, apparve in aiuto degli indios tarascos che combattevano gli spagnoli. Un santo voltagabbana, divenuto da allora simbolo di liberazione spirituale oltre che militare in Messico.

 

        Su un lato di piazza Tlatelolco, si trova una lapide rettangolare, alquanto rozza, eretta nel 1993. Essa ricorda un altro massacro, più recente, consumatosi in quel posto il 2 ottobre 1968. In quei giorni gli studenti messicani, sulla scia dei movimenti studenteschi che poco prima avevano sconvolto Europa e Stati Uniti, avevano lanciato una campagna di contestazione accesa ma disarmata. Di lì a poco però Città del Messico doveva ospitare le Olimpiadi, e rischiava di offrire al mondo lo spettacolo di una capitale percorsa da cortei che denunciavano la carenza di democrazia nel paese di Cuauthemoc. Così, nel corso di un raduno di protesta in quella piazza, ignoti cecchini cominciarono a sparare all’impazzata sulla folla. Ancora oggi non si sa quanti siano rimasti sul selciato - oggi la CIA parla di 200 morti, l’opposizione di sinistra parla di un numero tra 300 e 400. E non si trattava di una folla di descamisados, ma dei rampolli della classe colta messicana, del ceto dirigente del futuro. Né il presidente messicano dell’epoca, Diaz Ordaz, né il partito al governo del Messico da oltre 70 anni (il Partito Rivoluzionario Istituzionalizzato), hanno mai ammesso di aver ordinato una matanza così vile. Dopo 30 anni, però, i giornali messicani riportano ancora in prima pagina i fatti di piazza Tlatelolco. Questa ferita ancora brucia sulla pelle di una società che raramente liquida il proprio passato in un gaio oblio.

Sulla lapide vi sono segnati i nomi di 20 caduti. C’è scritto: “Chi fu, e quanti furono? Nessuno, il giorno dopo [il 2 ottobre 1968] su questa piazza si levò di nuovo tranquillamente il sole: i quotidiani dettero, come notizia del giorno, le previsioni del tempo. Alla televisione, alla radio, nei cinema, non ci fu alcun cambiamento di programma, non vi si intercalò nessuna notizia del massacro. Non ci fu nemmeno un minuto di silenzio nel banchetto (allora, il banchetto prosegui’).” Come contrappasso di quel silenzio di allora, oggi ancora il Messico parla di questo massacro – a compensare con un discorso interminabile la rimozione di allora. Oggi le scolaresche fanno pellegrinaggio davanti a quella lapide; l’insegnante paragona quella strage all’Olocausto, mentre gli studenti si guardano attorno spaesati.

        Gli assassini del 2 ottobre 1968 avevano scelto uno scenario davvero intonato per la loro carneficina. Plaza de las Tres Culturas non è solo uno spiazzo, è un santuario dei grandi eccidi che hanno scandito la storia del Messico. Una storia dove “le tre culture” si sono dilaniate e intrecciate in una fiesta macabra ed esaltata di separazione e comunione. Perché i messicani si considerano oggi frutto ibrido di spagnoli, maya e aztechi, sedotti dalle divinità pre-ispaniche e dai culti cattolici, dalla rivoluzione e dalla reazione,  dal sangue e dall’amore.

        Proprio tra le rovine di Tlatelolco è possibile contemplare due scheletri, protetti da una lastra di vetro: un uomo e una donna giacciono supini come su di un letto, e lo scheletro femminile volge il capo, quasi con tenerezza, verso lo scheletro maschile. “Los amantes” è il loro nome popolare. Più di ogni altra, la cultura messicana ha sensualizzato la morte, l’ha colorata di humour e di libido.

        Si resta perplessi in piazza Tlatelolco, immersi in questo spazio di scheletri e massacri, mentre sullo sfondo sfreccia il traffico frenetico di Città del Messico, megalopoli soffocata dallo smog. Una delle città più insalubri del mondo. Probabilmente, la più sterminata concentrazione urbana del pianeta.

 

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        Negli anni 90 nel mondo si è creato un vero e proprio culto attorno alla pittrice messicana Frida Khalo, nata nel 1907 e morta nel 1954. In questo decennio l’America soprattutto ha generato una valanga di libri, reportage, studi, spettacoli su Frida.  Broadway le ha dedicato un musical. Femministe accademiche e militanti, psicoanalisti, storici dell'arte, critici decostruzionisti e cultural students, storici del comunismo e dell'America Latina, si sono gettati sul "caso" sfornando biografie, patografie, analisi, rimembranze.

        La storia di Frida comincia quando a 18 anni viene coinvolta in uno spaventoso incidente in un tram: rimasta incastrata tra le lamiere, viene infilzata da un ferro che, a quanto lei disse, la "svergina" fuoriuscendole dalla vagina. Rimane così semiinvalida per i danni alla spina dorsale - subirà 32 operazioni chirurgiche, prima di morire a 47 anni per il decadimento provocato dalle lesioni. Inchiodata al letto, comincia a dipingere se stessa stando supina e guardandosi allo specchio. E così entra in contatto con l'ambiente artistico e intellettuale messicano, negli anni 20 e 30 elettrizzato dal "messicanismo" nazionalista e populista, marxista e anti-yankee. Diventa la moglie del più raffinato muralista messicano, Diego Rivera. Un omone massiccio, come fisico e come celebrità.

        La propria faccia, il proprio corpo  un corpo martoriato, lesionato, sventrato e puntellato, dilaniato, sanguinante  è il vero protagonista della sua pittura tragicamente narcisista.  Mescolando l'ironia colta surrealista con l'ingenuità popolaresca degli ex voto contadini, ha creato una panoplia di quadri ad un tempo mesti e festosi, che hanno al centro il proprio dramma personale, non solo fisico.

        Nei numerosissimi autoritratti appare sempre con la stessa espressione, altera e accigliata, mai l'ombra di un sorriso. La circondano scimmiette nere, ma anche felini scuri, pappagalli, vegetali, un po' come nel bestiario di stoffa del doganiere Rousseau. Spesso un oblò sulla sua fronte ci rivela quali pensieri occupano la sua mente: teschi (la Morte) e la faccia del marito Diego, egli stesso a sua volta con un terzo occhio sulla fronte. Altre volte descrive delitti efferati, o ragazze che si suicidano. In delle specie di ecografie pittoriche ci mostra il proprio cuore con le vene, la spina dorsale martoriata, altre volte arterie filamentose le fuoriescono dal corpo e si diffondono attorno a lei. Da una parte vediamo oggetti illustri dell'iconografia popolare messicana  scheletri-giocattoli, abiti contadini, pupazzi  dall'altra abbondano gli strumenti e le protesi connesse alla sua malattia: sedie a rotelle, busti di gesso o di metallo, letti d'ospedale, bisturi, forbici.

        In mezzo a questi corpi torturati, spesso nastri e fili: nastri che come i serpenti della Gorgone le avvolgono la testa fiera e severa, nastri dove spiccano scritte ed aforismi, nastri come le fleboclisi degli ospedali. André Breton descrisse la sua pittura come "un nastro intorno ad una bomba".  Breton la considerava la massima rappresentante del surrealismo pittorico nel Messico. Ma più tardi Frida rifiuta l'intruppamento nella setta-partito surrealista: "Io non ho dipinto i miei sogni  dice  ho dipinto la mia realtà."

        Frida, figlia di una messicana e di un tedesco, è dotata di una bellezza quasi altezzosa. Veste quasi sempre come un’india, con panni coloratissimi. Pur invalida, ha una vita movimentata. Al dongiovannismo del suo adorato Rivera reagisce moltiplicando lei stessa i suoi amanti, uomini e donne  tra i quali lo scultore Isamu Noguchi, il fotografo Nickolas Muray e Lev Trotsky. Nella sua casa di Città del Messico nel quartiere chic di Coyoacàn, ospita il fior fiore dell'intellettualità europea e americana di sinistra magnetizzata dal Messico: vi ritroviamo Sergej Eisenstein, Pablo Neruda, André Breton, e Trotsky, che Frida e Diego ospitano e proteggono per due anni. L'ombra di un thriller politico plana su questa coppia di pittori narcisisti e militanti: si è vociferato che Rivera e la Khalo, costretti a rompere con Trotsky dal partito comunista messicano, fossero stati poi coinvolti nell'assassinio del leader bolscevico.

        Nel 1931 Rivera viene invitato nell'"imperialista" New York a decorare i muri del Rockfeller Center. L'impresa non funziona, Rivera viene licenziato perché non rinuncia a voler dipingere Lenin sui muri del grattacielo capitalista. Ma a New York la comunista Frida balla con Henri Ford vestita da india messicana, cena con Rockfeller.

        Gli ultimi anni di Frida sono marcati dai progressi della sua degenerazione fisica.  Fuma troppo, beve troppo; ormai del tutto lesbica, è colta da violente crisi di rabbia. Curata da uno psicoanalista, diventa dipendente degli anti-dolorifici. Ciò non le impedisce di portare cartelli ad una grande manifestazione, a Città del Messico, contro gli USA e la CIA nel 1954 a favore del presidente guatemalteco. Negli ultimi mesi di vita i suoi dolori diventano strazianti. Volle essere cremata: "Ho passato buona parte della mia vita distesa, non voglio restare supina per il resto dell'eternità."

 

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        Quando nel 1994 incontrai a Mexico Carlos Monsiváis - celeberrimo giornalista e scrittore - parlammo anche di Frida Khalo, di cui egli si dichiarava da sempre grande ammiratore. Ad un certo punto gli chiesi se il culto messicano per Frida non fosse una riedizione secolarizzata del culto secolare della Vergine di Guadalupe. Come è noto, la devozione per questa madonna - il cui fastoso santuario si trova alla periferia della capitale - è il nocciolo luminoso della religiosità messicana. Temevo che Monsiváis, intellettuale di sinistra e militante per i diritti dei gay, si indignasse per questo mio incauto accostamento. E invece mi rispose che era proprio così, che quell’immagine della Vergine dolente ma buona a cui tanti messicani sono legati si era in parte trasfusa nella venerazione per la mai sorridente Frida. Lui stesso si sentiva molto legato sia alla Vergine di Guadalupe che alla pittrice marxista. In entrambe, la gente vi vedeva divinità del dolore, capaci di alleviare la sofferenza del vivere. Gli intellettuali messicani indulgono a qualcosa che i nostri intellettuali di sinistra, da tempo blasés e disincantati, hanno rigettato: il populismo. Anche i culti religiosi del popolo vanno quindi venerati perché appunto popolari.

        Incoraggiato dall’inaspettata complicità di Monsiváis, rincarai allora dicendo che forse il culto per la Khalo era comunque una svolta rispetto al vecchio culto amerindio della Vergine di Guadalupe: era stata l’occasione, per i messicani, di riconoscersi come tutti un po’ hijos de la chingada. Ancora una volta Monsiváis parve non battere ciglio, e si disse d’accordo. Credevo di scoprire chissà che cosa, ma forse scoprivo solo l’ombrello, per un intellettuale messicano.

        Chi sono i figli della chingada? Octavio Paz, nel suo libro El labirinto de la soledad, è stato molto chiaro: per capire veramente i messicani bisogna penetrare due parole-chiavi - la chingada e chingar. Si tratta di termini proibiti, mai usati in pubblico, esclamati solo in momenti di entusiasmo sfrenato, quando si perde il controllo, ad esempio negli stadi. Parole che possono significare, in fondo, qualsiasi cosa - segni di grado zero, direbbe Claude Lévi-Strauss. Hijos de una chingada è l’urlo ostile che il messicano lancia contro gli altri, i rivali, i nemici da battere. Ma chi è veramente questa chingada di cui “quelli” sono i figli?

 

Sopratttuto, la Chingada è la Madre, come figura mitica. [...]La Chingada è la madre che ha sofferto - metaforicamente o nella realtà - l’azione corrosiva e diffamante implicita nel verbo che le dà il nome, chingar. [...] Chingar è comunque sempre un verbo aggressivo. [...] In Messico il termine ha innumerevoli significati. E’ una parola magica: un cambio di tono, un mutamento di inflessione, basta per cambiarne significato. [...] Uno può essere un chingón, un gran chingón (negli affari, in politica, nel crimine o con le donne)[...] Ma in questa pluralità di significati il senso ultimo contiene sempre l’idea di un’aggressione. [...] Esso significa anche lesionare, lacerare, violare - corpi, anime, oggetti - e distruggere. La parola ha connotazioni sessuali ma non è un sinonimo dell’atto sessuale: uno può chingar una donna senza realmente possederla. [...] Chingar, allora, è far violenza ad un altro. Il verbo è maschile, attivo, crudele: punge, ferisce, squarta, lorda. E provoca una soddisfazione amara e risentita. (Il labirinto della solitudine)

 

Quindi la Chingada è la Madre aperta con la forza, violata, stuprata o ingannata. L’hijo de la chingada è il rampollo dello stupro, ratto o inganno. Perché per il messicano il disonore consiste nell’essere il frutto di uno stupro, non nell’essere un figlio di puttana.  “La singolarità del messicano - incalza Paz - consiste nella sua violenta, sarcastica umiliazione della Madre e nella sua non meno violenta affermazione del Padre.”

        La Chingada è quindi una figura materna ricettiva e violata, sfondata. La mia impressione è che essa sia parte o implicazione di una trinità femminile che domina l’immaginario messicano. Tre figure femminili ossessionano i messicani: la Malinche, la Vergine di Guadalupe e Frida Khalo. Questo trio disegna una dialettica quasi hegeliana: la madonna di Guadalupe (tesi) è l’immagine positiva, divina della femminilità accogliente, mentre la Malinche (antitesi), tutto l’opposto della Vergine, come ha notato Paz incarna la chingada, la donna ingannata, sedotta e stuprata (e da cui tutti i messicani derivano, anche se non lo ammettono). Infine, sintesi modernista, il culto della pittrice promiscua pare condensare nella sua epopea sofferta le figure contraddittorie della Madre accogliente e della chingada fin troppo aperta al mondo.

        Doña Malinche era la bella india amante di Cortés. Interprete e consigliera dei conquistadores, svolse un ruolo importante nel fulmineo collasso dell'impero azteco. Qualcosa nella fierezza dura del suo volto malfamato ricorda irresistibilmente l’altera malinconia di Frida. In tutti i numerosissimi affreschi che istoriano i muri degli enti pubblici del Messico, ogni qualvolta appare Cortès, triste e cereo, livido come livida doveva essere la sua anima, si può star sicuri che accanto a lui appare anche, defilata o incombente, la famosa Malinche. Questa donna incarna un po’ la cultura india – ad un tempo affascinata, sedotta e violata dagli spagnoli – ed è l’ombra inconfessabile che mina la rispettabilità storica di questo popolo, il quale si rifiuta di qualificarsi sia spagnolo che indio. Da una parte Malinche commise un tradimento imperdonabile: si dette al chingón, al conquistatore. Malinchista è un insulto politico rivolto ancor oggi a coloro che vogliono aprire troppo il Messico all’influsso straniero. Dall’altra rappresenta anche l’unione culturale e sessuale tra indios e spagnoli da cui gran parte dei messicani, mestizos, discende. La Malinche, prototipo della chingada, è l’allegoria di una recezione femminile dell’altro – apertura eccessiva da cui i messicani si aspettano disonore, lacrime e sangue. Ho seguito ad esempio il dibattito svoltosi in Messico pro e contro l’adesione al NAFTA (il mercato comune nord-americano, che comprende USA, Canada e Messico): da parte di chi vi si opponeva sembrava ripetersi il rigetto atavico dell’Eva messicana, della Malinche. Il mercato comune appariva una riedizione della vergognosa accondiscendenza della bella india nei confronti dello straniero troppo forte. Ma il rigetto dell’amante di Cortès si risolve in un rigetto paradossale di se stessi. Hijos de una chingada è l’insulto lanciato contro gli altri, gli avversari, ma solo perché tutti i messicani si sentono, segretamente, hijos de la chingada.

 

        Frida Khalo ripercorre nel suo calvario colorato di mondanità il modulo della chingada. Anch’essa fu aperta con la violenza da una lamiera che, a suo dire, la deflorò. La sua invalidità ne fa l’eroina esemplare di una sofferenza in cui il popolo crede di riconoscere un proprio ciclico destino. Anch’essa, come la Malinche, si apre al mondo esterno, viaggia, va a letto con uomini e donne - ma allo stesso tempo questa apertura affascinata e pur dolorosa al mondo appare come tarpata da una sorta di scontrosa solitudine, congelata nell’apoteosi auto-contemplativa dei suoi autoritratti. Miscuglio seduttivo di massima disponibilità all’altro e di infatuazione narcisistica. Ho ritrovato questo bisticcio tra due tendenze contrapposte - l’aprirsi e il chiudersi - in molti messicani. C’è in loro una timidezza schiva continuamente corretta da un’apertura trasognata. L’arroganza aggressiva del macho e la ritrosia offesa della chingada.

        La Casa Rosada a Coyoacan, dove visse Frida Khalo con Diego Rivera, è oggi un museo. In quella casa dove Trotzsky fu sottratto alle grinfie di Stalin troviamo ritratti devoti del baffuto Stalin… Tutte le finestre di questa casa-bunker sono murate. Ne chiesi il perché, e mi si rispose che esse furono murate per proteggere Trotzsky quando, per due anni, visse colà. Ma dopo Trotzsky se ne andò a vivere altrove, perché allora le finestre non furono riaperte?

        La casa cieca di finestre di Diego e Frida è l’esemplare iperbolico, in fondo, di ogni casa messicana. Come la domus dell’antica Roma, l’abitazione messicana non è estroversa, non è aperta con finestre verso l’esterno, ma è ripiegata verso l’interno, guarda verso il patio, verso il cuore vuoto inaccessibile agli esterni. Il messicano è timido, a dispetto del fatto che si atteggia a macho. L’iconografia convenzionale europea descrive il messicano col volto nascosto da un sombrero; oggi i messicani non portano più sombreros, ma il loro vero volto appare lo stesso, spesso, nascosto. Ad esempio, non sanno dirti di no, anche quando il rifiuto non è per colpa loro. Cosa esasperante per un europeo come me, prima che imparassi le regole del gioco. Il messicano invece di “no” ti dice “vedremo”, “torni domani”, “forse”. Questa timidezza messicana non è semplicemente l’effetto di una diffidenza verso l’estraneo, è il risultato di una tensione divergente tra un impulso che lo porta ad aprirsi ed un altro che lo spinge a chiudersi. Da una parte ogni messicano pare Malinche che si dà agli stranieri, dall’altra pare Cuauthemoc, che si asserraglia in Tlatelolco e vi muore.

 

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        Una delle più venerande tradizioni messicane è quella di essere contra los gringos, l'anti-nordamericanismo. E' vero che dal 1994 gli Stati Uniti Messicani (questo è il vero nome!) fanno parte del NAFTA - cosa che non ha impedito la bancarotta economica messicana del 1995. Non ho mai incontrato un solo intellettuale che parlasse bene degli Stati Uniti, o che ne prendesse a modello aspetti della cultura. Quando l'intellettuale messicano parla inglese, spesso ostenta un accento britannico. Certo, anche nel Messico si trovano McDonald e Kentucky Fried Chicken, ma la presenza statunitense è molto più discreta che nell'Europa continentale, quasi clandestina. Nei centri commerciali si trovano negozi italiani, spagnoli, tedeschi, francesi, britannici, solo molto di rado negozi americani. Gli USA sono un vicino troppo ingombrante - il dovere di ogni messicano è demarcarsi da un abbraccio che risulterebbe troppo soffocante. Persino la psicoanalisi messicana si rifà a modelli britannici o francesi, non americani. Certo, i messicani sono americanizzati come ormai tutti lo siamo, ma cercano di non darlo a vedere, e soprattutto hanno difficoltà ad ammetterlo. 

        Eppure questa antipatia non è ricambiata. I californiani, in particolare, sono irresistibilmente attratti dal Messico, come ancora punti dal rimorso di aver sottratto la California al Messico nel 1848. Se un californiano va fuori a mangiare, andrà di solito in un ristorante messicano. Di rado ho sentito un americano parlar male dei messicani come popolo - solo lamentarsi della corruzione della sua classe dirigente. E Hollywood ha celebrato le grandi epopee messicane - la lotta contro Massimiliano d'Asburgo nel 1865 e la Rivoluzione del 1910-21 - con film memorabili come Viva Zapata (1952) di Elia Kazan o Vera Cruz (1954) di Robert Aldrich. Se l'Europa ne sa qualcosa di queste glorie messicane, è grazie ai gringos. Fu il magnate Rockfeller ad invitare il leninista Rivera ad istoriare il Rockfeller Center a New York, non il Fronte popolare francese né il sindaco di Leningrado.

        Ma per i messicani gli statunitensi sono la riedizione dei Conquistadores spagnoli. I messicani hanno un'irresistibile tendenza a considerare il tempo circolare, come lo consideravano le civiltà pre-ispaniche. Per loro la storia, serpente che si morde la coda, come il sanguinario serpente Quetzalcoatl eternamente ritorna al punto di partenza. I nordamericani sono il ritorno dei Conquistadores che non sterminano o asserviscono direttamente, ma non meno ansiosi di convertire. Convertire tutti alla loro economia, alla loro democrazia, ai loro spettacoli, al loro giornalismo, ai loro Malls, perché i gringos sono convinti che il loro modello vada bene per tutti, persino per i messicani. Anche gli spagnoli erano convinti che la Bibbia e la honra castigliana andassero bene per tutti. E' questo il vero imperialismo americano che tanti popoli trovano indigesto: non lo strapotere dei dollari o dei bombardieri, ma la certezza arrogante di chi è convinto di portare il Vero e il Bene. I messicani, come tanti altri "terzomondisti", trovano insopportabile ammettere che gli americani sono sempre dalla parte della Ragione. E contro la Ragione universale degli americani, oppongono le passioni particolari dei loro culti macabri della morte, del dolore e del sangue.

        Ma come gli indigeni lo furono nei confronti degli spagnoli, anche i messicani di oggi, sotto sotto, mi paiono attratti dai loro invadenti vicini. Si annida una Malinche in ogni messicano - una voglia struggente, femminea, di aprirsi al Conquistatore, di darsi sconciamente a lui? Una voglia non di tradire le proprie origini, ma di trovare nel nuovo dio venuto da fuori l'adempimento di un antico sogno? Come Malinche, che amò nel pallido Cortès il dio promesso e vi trovò uno spietato massacratore, così i messicani di oggi forse adorano di nascosto gli americani - e per questa ragione, gridano a gran voce che li aborriscono.

 

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        Al sud di Ciudad del Mexico, giusto fuori dalle spire tentacolari della metropoli, c'è Xochimilco. Si tratta di una serie di canali fiancheggiati dai chinampas, cosidetti giardini galleggianti. Evocano i canali e giardini di Tenochtitlan, la capitale azteca che Cortez distrusse, e nel cui sito poi, come colti da un tardivo rimorso, gli spagnoli costruirono Ciudad del Mexico. Nella capitale lacustre degli aztechi i giardini venivano spostati lungo il lago trainati da barche. Ma questi giardini moderni, coperti di fiori e primizie, sono solo immaginariamente galleggianti. Non sono più i giardini a galleggiare, sono gli esseri umani.

        Questi canali sono meta della gita fuori-porta del popolo minuto della capitale e dintorni. Il lusso fluviale dei poveri. Non si tratta di un'esibizione turistica - qui davvero famiglie e clan vengono lì a fare due cose: fluire sui canali e mangiare. Si affitta per alcune ore una barca di legno con colori vivacissimi - giallo, verde, rosso, blu - e le decorazioni centrifughe ed espansive tipiche delle forme pre-ispaniche. Al centro di queste barchette variopinte c'è un tavolo, attorno al quale la famiglia pranza o cena, con pietanze portate da casa o comprate sui canali stessi, da barche-ristoranti. La barca con i mangiatori assorti non si ferma mai, il rematore con un piolo lungo non arresta nemmeno per un istante quello scivolare dolce senza soste. Come in una Venezia extra-urbana, tutto viene offerto via acqua. C'è l'imbarcazione con i mariachis che si offrono di suonare e cantare le solite canzoni tradizionali durante questi pasti mobili. Durante il concerto, le due barche sfilano affiancate, parallele - un ragazzino le tiene provvisoriamente unite, in un idillio effimero. Finito il concerto, la barca-mariachi va all'arrembaggio di altre barche pranzanti.

        Sanno questi popolani che pasteggiano sulle barche che, prima di Cortès, a Xochimilcho accadde un evento di cannibalismo portentoso?

 

“Mentre si preparavano dei piatti delicati con quelle cose che le donne azteche portano per venderle, si produsse una cosa prodigiosa e terrificante, che spaventò e immerse nello stupore gli abitanti di Xochimilco. Quando tutti erano seduti ai loro posti per mangiare, quei manicaretti si trasformarono sotto i loro occhi in piedi e mani di uomo, in braccia, teste, cuori di uomo, in fegati e intestini. Di fronte ad un evento così raccapricciante, mai visto né inteso prima, gli abitanti di Xochimilco chiamarono gli àuguri e chiesero loro che cosa potesse significare. Costoro dissero allora che si trattava di un pessimo presagio, perché significava che la loro città sarebbe stata distrutta e molte persone sarebbero morte”[1].

 

Mi sono chiesto se non ci sia qualcosa di segretamente, metaforicamente cannibalico nela cucina messicana, che pur ammiro: tutto questo cibo friabile incanalato nelle tortillas mi ricorda irresistibilmente le budella umane che stringono la sostanza nutritivs.

        Questo fluire condito di canzoni non è solo un omaggio retroattivo alla Tenochtitlan fluttuante degli aztechi. Il messicano non mi pare tanto attratto dalla terra, quanto dal separarsi da essa, dall’ergersi aldilà di essa. E' per lui importante staccarsi, almeno un po', dalla terra - insomma elevarsi, sognare. Oggi tutti gli alberi - anche in campagna - sono decorati da una fascia di colore bianco, che va dal suolo fino alla metà del tronco. Perché questa decorazione ubiqua? Perché il tronco d'albero in questo modo viene esteticamente separato dalla terra da cui emerge. Il punto in cui cose e uomini toccano la madre terra va isolato con un piedistallo, va celebrato per esaltare il taglio, la differenza tra la base e la cosa. L’arte messicana, così decorativamente centrifuga, schiva la pesantezza terrestre, dilaga con penne divergenti nello spazio. Giusto il contrario di quella sete di terra e di corpi radicati e solidi che dà l'impronta all'arte fiamminga ed olandese, ad esempio. Tutte le città pre-colombiane hanno al centro piramidi: occasione sempre buona per lasciare la terra, e salire.

        Mi attrae nelle città messicane la quantità ridondante di lustrascarpe. Da tempo in Europa è sparita la figura pauperistica del lustrascarpe, che esegue un lavoro servile inginocchiato ai piedi del suo troneggiante cliente. In Europa trascuro le mie scarpe, in Messico non passa quasi giorno invece che non vada a sedermi per qualche minuto su un tronetto multicolore di un limpiador de zapatos. Per i messicani è essenziale avere scarpe impeccabili - anche i più poveri le portano lucide e brillanti. E’ come se volessero in qualche modo marcare una differenza spettacolare e inconfutabile tra il loro corpo e la terra umile.

        I canali musicanti di Xochimilcho, gli alberi con le scarpe bianche, i lustrascarpe ad ogni angolo, le piramidi ripidissime. Il messicano sembra agitato dal desiderio viscerale di non lasciarsi inghiottire dalla terra. La terra non deve risucchiarlo. 

 

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        Per fortuna, in Italia si trova solo la tequila di qualità inferiore (dico "per fortuna", perché è bene che certe cose si possano trovare solo nel loro paese di produzione): la blanca, la tequila non invecchiata. Dopo un po’ la tequila diventa añega, e prende già una coloritura più scura. Ma chi ama veramente la tequila berrà solo la reposada, quella che si è riposata a lungo. La Herradura reposada è il meglio del meglio. Ma la tequila non va mai bevuta da sola: il rito-tequila esige che la si sorseggi in alternanza con la sangrita, e che si trangugino ogni tanto manciate di sale. Le sangritas possono essere diverse, l'importante però è che non si beva solo tequila. Il ritmo di bevuta, il modo di alternare tequila, sale e sangrita, testimonia del gusto e della competenza di chi beve.

        Quando i messicani ti sono amici, ti consiglieranno delle marche di tequila che conoscono solo loro. Ti confidano la chicca. Ad esempio, il Porfidio. Sono stato alla ricerca di questo benedetto Porfidio per tutti i negozi di tequila di Città del Messico - non la minima traccia. Ho protestato con i miei amici, allora mi hanno fatto capire che ciò che è buono, eccezionale, in Messico è raro. Me lo avrebbero procurato loro, attraverso conoscenti.

In fondo, ti rendi conto che ciò che per i messicani ha valore deve essere fuori del mercato. E’ l’opposto della mentalità democratica americana: l’americano esige che chiunque abbia a disposizione - o abbia la sensazione di avere a disposizione – nello shop del quartiere ciò che c'è di meglio al mondo. L'americano vuole che, entrando in un supermarket luminoso e ben fornito, possa appropriarsi di quello che si fa di meglio in Cina o nel Paraguay. Mercato e democrazia devono rendere tutto available. Ma il Messico non è spiritualmente democratico, ha lo spirito aristocratico dei Conquistadores e dei Mexicas alias Aztechi. Un senso aristocratico non certo contraddetto dal populismo e dal terzomondismo dei suoi intellettuali: il populismo è l'ossimoro onirico degli aristocratici. In Messico le cose migliori non le puoi comprare dove vuoi, le devi meritare. Hai bisogno di duci e guide che ti portino per mano: puoi avere la cosa bella perché la meriti - o perché ti si vuole bene.

 

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        Siccome Octavio Paz aveva spesso collaborato al trimestrale di cui ero redattore, Lettera Internazionale, gli chiesi di intervistarlo per la nostra rivista; mi premeva anche conoscere il suo punto di vista sulla rivolta del Chiapas, esplosa in quei giorni. I suoi collaboratori si guardarono bene dal dirmi “si” o “no”: mi tennero per vari giorni sulla graticola, e mi permisero anche di venire alla redazione di Vuelta, la rivista da lui diretta, ma senza che fossi mai in grado di incontrare il premio Nobel. Capii allora che ero un cane menato per l’aia, e rinunciai.

La redazione di Paz era come una fortezza strettamente custodita, in particolare da alcune bellissime segretarie che, come le sirene di Ulisse, sembravano messe lì ad hoc per distoglierti dal tuo imbarazzante obiettivo: vedere Paz. Mi ricordai della ritrosaggine degli imperatori aztechi, il cui volto non veniva mai mostrato a nessuno, nemmeno ai dignitari di corte. Pensai al povero Monctezuma, il quale, alla richiesta di Cortès di poterlo incontrare, gli rispose che poteva prendersi dal Mexico tutto quello che voleva, ma doveva rinunciare a questo empio faccia-a-faccia. Mi sentii un po’ come Cortès, anche se le mie mire nei confronti di Paz non erano altrettanto ingorde. Non c’è ancora oggi una paura montezumesca nel mostrare apertamente il proprio volto, per non dire la propria anima? All’epoca della conquista spagnola, le belle ragazze indie si coprivano il volto di fango per sfuggire alle occhiate concupiscenti dei soldati ispanici. Certo le donne messicane oggi non si coprono di fango, eppure talvolta emana da loro uno sguardo timido e sfuggente. Fino a pochissimi anni fa persino a Città del Messico vigevano vestigia di separazione dei sessi nei luoghi pubblici. Nelle ore di punta, il vagone centrale della metro di Mexico veniva riservato alle donne, per evitare che nella folla si esercitasse qualche manomorta. Nei ristoranti e in certi bar, non era consentito alle donne non accompagnate da un uomo restare nella sala principale: salette più schive erano loro riservate.

        Una specie di orgogliosa timidezza, soprattutto nei confronti dello straniero, dà a questo popolo peraltro così macho, desideroso di chingar, una sorta di femminea ritrosia.

 

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        I messicani sono riusciti là dove russi, cinesi e altri hanno fallito: creare un'arte socialista di grande qualità. Quest'arte ad un tempo moderna e anti-moderna, progessista e medievalista, è il muralismo. Fu un'invenzione di José Vasconcelos, ministro dell'Educazione negli anni '20, sotto la presidenza di Alvaro Obregón. Il ministro Vasconcelos intuì il talento di alcuni artisti poco più che ventenni e li autorizzò a imbrattare i muri dei grandi palazzi pubblici. Questi pittori - per lo più marxisti e populisti, ammiratori allo stesso tempo del contadino Zapata e dell’intellettuale Lenin - volevano lasciare ai posteri l'equivalente laico e rivoluzionario degli affreschi della Cappella Sistina e delle Stanze di Raffaello: un monumento sterminato, sparpagliato in tutto il Messico, alla Rivoluzione messicana e ai suoi valori. Occorreva celebrare l'apoteosi non del Cielo sulla Terra, della Bibbia e di Atene sulla storia, come nei palazzi Vaticani, ma l’apoteosi del Messico contemporaneo. La Storia e la Vita del Messico sono le sacre Scritture da cui questi artisti molto declamatori traggono le loro figure. Lo stile nazional-popolare di questi socialisti tropicali è però impastato e intriso di simbolismi escatologici e di deliri egocentrici. Il realismo socialista messicano è anche surrealista, la lotta di classe è rappresentata spesso come un sogno, e i sogni sono celebrati come lotta di classe. E’ un caso più unico che raro di camp proletario. Insomma, il muralismo messicano resta un’eccezione assoluta nel nostro secolo: è il solo movimento artistico non nordamericano né europeo che sia stato ammesso nell’Olimpo dell’arte che conta del XX secolo. Se il modernismo è tutto cosmopolitico e transnazionale, il muralismo messicano fa eccezione: è stato riconosciuto dai modernisti di Parigi, New York, Amsterdam, Berlino o Zurigo come il controcanto terzomondista e nazionalista delle avanguardie. Un contrario delle avanguardie assimilato dalle avanguardie.

Il più colto, il più raffinato, il più fisicamente prosperoso di tutti i muralistas è Diego Rivera. L'opera più impressionante di Rivera è Sueño dominical de una tarde en la Alameda, dipinto nel 1947. La si trova al Museo Mural Diego Rivera nel cuore di Città del Messico: tutto il museo è uno stanzone che comprende solo questo enorme affresco. Lo si va a visitare quasi in punta di piedi come ancor oggi si va a visitare il Giudizio Universale di Signorelli nella cattedrale di Orvieto o quello di Michelangelo nella cappella Sistina. Questo Sueño non divide l'Inferno, il Purgatorio e il Paradiso, ma la storia del Messico a sinistra, il presente del Messico a destra, e al centro gli straordinari protagonisti.

Al centro non c’è, come in Michelangelo, un Dio massiccio e nudo. C’è un signore tarchiato vestito in nero, con bombetta e ombrello da gentiluomo inizio-secolo, che passeggia per l'Avenida de Alameda - il viale luccicante del passeggio mondano - con la sua signora. Si tratta dell'incisore messicano José Guadalupe Posada, che Rivera considerava suo maestro ideale. Ma la sua signora è uno scheletro con teschio, elegantemente vestito - sontuose penne sul cappello, vestito bianco tipico delle dame del gran mondo, sciarpa come un boa di piume. Queste piume evocano quelle di Quetzalcóatl, il dio-serprente e assassino che ossessiona i messicani dalla venuta di Cortès (lui stesso scambiato per Quetzalcóatl) in poi. E' la calavera catrina, la bella scheletra Caterina - il capolavoro di Guadalupe Posada. Lo scheletro di lusso tiene sulla sua sinistra a braccetto il suo creatore, e sulla sua destra tiene per mano un bambino grassoccio alquanto ridicolo con un cappellino di paglia, Rivera stesso. Il messaggio è chiaro: io Diego Rivera, muralista, sono il figlio dell'Arte e della Morte (el arte in spagnolo può essere anche maschile). Ogni artista messicano si considera forse tale: l'arte è il frutto effimero delle nozze tra morte, dolore, e genio artistico. Tutto il mito di Frida Khalo non dice altro, del resto. E difatti, alle spalle del piccolo Rivera, tra lui e la sua mamma-morte, si vede il volto severo di Frida, che esibisce con la mano sinistra una moneta con i simboli dello Yin e dello Yang, l’alternanza taoista. Come a dire: maschile e femminile, vita e morte, giorno e notte, dolore e godimento, si intrecciano in questa Enciclopedia cosmica della storia e del sogno.

 

        In una delle piazze principali di Queretaro, assisto ad una strana gara. Una serie di scolaresche, maschi e femmine, ognuna con una divisa colorata diversa dalle altre, si alternano al centro della piazza e tutti insieme, in coro, declamano. Giuramenti patriottici, affermazione di valori civili, lode del loro istituto scolastico, promesse per un radioso futuro. Di fronte a loro, alcuni signori e signore, molto compunti, siedono dietro un tavolo e prendono appunti con molta serietà: sono la giuria che deve eleggere la scolaresca che ha fatto la migliore declamaciòn. Un concorso scolastico di questo tipo non sarebbe pensabile in Italia – vent’anni di fascismo ci hanno vaccinati contro ogni retorica corale. Ma questa scena pittoresca di provincia mi conferma il carattere declamatorio dell’arte – e in parte della cultura – messicana. Il muralismo è una grande festa affollata per gli occhi in cui si annunciano a gran voce valori, commemorazioni e giuramenti. Certo, anche l’arte e la cultura italiana tendono all’estroversione, alla fuga dagli abissi interiori verso la seduzione delle forme esteriori – tutto il nostro Rinascimento è il trionfo iperbolico della bella esteriorità. Ma l’esteriorità italiana non è declamatoria e certo non collettivistica: è seduzione individualistica, non trasuda ideologia, non enuncia idee, non giura né promette. L'esteriorità italiana è lasciarsi andare al primato ineffabile del sensibile, fugge sempre il tentativo di rendere sensibile l'intelligibile (idee, profezie, teorie, simboli). L’arte e la cultura italiana si basano sulla contemplazione sensuale delle belle forme, non sull’enunciazione febbrile delle idee. Gli italiani non indulgono a ciò che Vittorini chiamò “gli astratti furori”. Persino il futurismo – l’unico movimento artistico davvero ideologico che l’Italia abbia mai avuto – all’affermazione apodittica di idee e programmi faceva prevalere l’estasi provocatoria del dinamismo puro. Noi italiani non ci lasciamo catturare dai simbolismi: la cosa sensibile ci appare sempre più ricca dei segni nascosti nelle cose. Il messicano invece mi pare nascondere la sua inammissibile individualità in un bel coro collettivo, fugge lo strazio dell’affermazione idiosincratica di se stesso camuffandosi in una schiera sgargiante e multicolore. Non afferma se stesso come chiazza dissonante nel mondo, ma cerca di comporsi in un mosaico lussureggiante, e dietro una ridda di simboli politici ed escatologici. Rivera non sfugge alla regola. E le folle simbolizzanti del muralismo messicano mi ricordano quella gara di studentelli di Queretaro: l’esibizione centrifuga di grandi Enunciati per mimetizzare un nocciolo indigesto di solitudine.

 

 

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        In autobus verso Mérida, capitale dello Yucatan, passo per un paese chiamato Uman. Al centro, sovrastante questa cittadina povera nella quale ben pochi turisti si arrestano, noto una massa enorme, massiccia, pesante, di pietra - la cattedrale di Uman. Ma assomiglia più ad una piramide che ad una chiesa cattolica: nessuna finestra o cavità pare renderla penetrabile. Sono impressionato da questo monumento-roccia scorbutico e solitario. Così, quando sono a Mérida, una curiosità inquieta mi spinge a tornare a Uman, e visitarla.

        Nella piazza centrale del paese, non ci sono stranieri. Solo una miriade di riksciò, biciclette con un sedile-panchina dietro protetto da un ombrellino colorato e civettuolo. Ma tutti questi riksciò sono fermi, niente clienti. Chi viene mai a visitare questa città silenziosa, che appare quasi vuota sotto il sole tropicale? Al centro, incombe la cattedrale enorme, un picco dall'aria inaccessibile, uno scontroso bastione con una cupola smisurata. E difatti è inaccessibile. Cerco la facciata, l'entrata, ma questa non c'è. Un muro, come attorno ad un castello, circonda quella austera barriera di pietra. Cerco porticine o varchi, nulla. Giro attorno alla smisurata costruzione, non diversamente da come l'agrimensore di Kafka girava attorno all'impenetrabile castello. Nessuna traccia di portali, rosoni, entrate, archi d'accesso, nulla. Solo la pietra, fine a se stessa. Dopo un'ora di deambulazione kafkiana, rinuncio.

        Nella piazza assolata prendo una coca cola. Un simpatico conduttore di riksciò mi promette un rapido giro per Uman, ed io accetto. C'è poco da vedere, la città sembra quasi svuotata. I riksciò variopinti, immobili, sembrano clowns di Beckett che aspettano Godot – l’improbabile turista. Allora il conducente di riksciò mi conduce alla scuola dei suoi figli: qui, come spesso in Messico, gli studenti, maschi e femmine, sono all'aperto a cantare cori, o a ballare. Spesso si ha l'impressione che nelle scuole messicane si faccia più musica e danza che storia e geografia e scienze. Il conducente di riksciò osserva a lungo, fuori dal muretto, i suoi rampolli felici di appartenere ad un collettivo corale. E gli chiedo: "ma come entrare nella vostra cattedrale?" Farfuglia risposte. Mi dice che nemmeno lui c'è mai entrato. Si vede che preferisce il canto e la danza, come per dimenticare l'indigesta presenza di questo Castello senza occhi.

        E se nella piccola e trascurata Uman - nel Nord dello Yucatan - si annidasse un segreto implacabile del Messico, mistero affogato nella festa di musica, canti e murales?

 

Sergio Benvenuto



[1]Diego Duran, Historia de las Indias de Nueva España y Islas de la Tierra Firme, Mexico, Porrua, 1967; III, 12; citato da T. Todorov, La conquête de l’Amérique, 1982, p. 71.

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